sopravvissuti

Fa freddo, pungente, come se il mio corpo si fosse affievolito, un po’ appassito, per l’inverno, lasciando che il freddo arrivi dritto alle ossa, passando per la schiena, un brivido sinistro, la luce è neutra, quella dell’inverno con il cielo grigio, quella della periferia, campi spogli, alberi di soli tronchi neri, case buie, la chiesa, spettrale, maestosa.

Guardo la bara, non riesco a togliere lo sguardo, quasi fosse un’immagine ipnotica, in tutta la sua definitiva, definitiva, definitiva, beh, è così definitiva la morte.

Li trovo noiosi i funerali. Mi annoio, fisicamente, finisce che tamburello sul legno tarlato delle panche, che faccio cadere sguardi su scollature, che immagino situazioni.

Aspetto che mi passi, non riesco a togliere lo sguardo, dalla bara, il legno chiaro, i fiori, rose e gigli, l’altare sullo sfondo, la famiglia, il dolore di chi resta è come se li abbracciasse, li tenesse vicini, quasi fosse, lo sarà, il filo conduttore delle prossime giornate.

Non ascolto le parole, osservo le facce.

La morte è quindi cosa definitiva? Arrivata troppo presto, fa freddo, pungente, mentre fuori aspettiamo che la bara vada via, arrivata troppo presto, la morte cazzo.

Sorrido, abbraccio i conoscenti, sembrano dei sopravvissuti, si sopravvive alla morte?

Quasi piove, acqua gelata, guardo le facce, siamo dei sopravvissuti anche noi? Le nostre facce, sempre più stanche, invecchiamo bene, sembriamo più belli, le piccole sofferenze come scalpelli, levigano le facce, sorridiamo ancora, siamo dei sopravvissuti sorridenti. L’amore, come il dolore, è di chi resta. Resto, ho deciso di non deciderlo, davanti a una bara, l’ennesimo funerale, lo scalpello leviga, le nostre occhiaie, i nostri sguardi.

Qualcuno dice qualcosa. Io è come se avessi troppa stanchezza per ascoltare.

Qualcuno dice qualcosa, ma dimmi, un giorno vi ricorderete di noi, di come eravamo veramente?

La macchina si allontana lentamente, rimane la chiesa, chiusa, qualcuno sul sagrato. Il freddo.

Quest’anno sento molto di più il freddo, sento molto di più la vita.

Principianti, che davanti alla morte si addormentano sereni, senza sentire l’odore dell’inverno, la chiamata distante.

Il rumore di fondo.

Principianti.

E sopravvissuti.

L’Equilibrista 

Ho sentito dire molte cose strane sul conto di Ashley Rominsow, la prima delle quali che fosse stata mia amante. Ashley e io ci siamo conosciuti mentre scrivevo dei racconti per El Hefe, la rivista indipendente collegata alla rivoluzione dei fiori di San Francisco. È stata musa, Ashley, di molti dei miei racconti, e mi ha raccontato lei stessa, con i suoi capelli rossi appoggiati sulla mia pancia nuda nelle lunghe notti d’estate, la bellezza del silenzio e del vivere di respiri e attese.

Dicono che sia stata una delle mandanti della strage di studenti del Sacro Cuore, in quel dannato ottobre parigino di quasi trent’anni fa, ma ho certezza che non centrasse nulla e anzi, insieme a Wilson Bourdine, allora a capo degli Insorgenti, avesse fatto di tutto per evitare che anche un solo studente fosse ucciso in quella notte di assurda violenza. Andai personalmente a Parigi, partendo il mattino seguente ai fatti, prendendo un rumoroso aereo da Los Angeles, a prenderla negli uffici della Questura, trovandola distrutta dalle accuse ma serena in cuore, come solo l’innocenza sa essere.

I due anni seguenti sono stati forse i più difficili, prima in un cottage nelle campagne a sud di Londra, ospiti del mio caro amico Turstan. Mangiavamo formaggio e uova, al mattino, prima di uscire a camminare nella nebbia densa, ascoltando solo il rumore dei nostri passi sull’erba bagnata. Fummo costretti a spostarci per le insistenti pressioni dei giornalisti, che si fingevano fattorini, pastori, vecchie conoscenze, pur di scardinare quel viso pacifico e innocente.

Trovammo ospitalità a Cremona, presso una famiglia di conoscenti italiani, che ci diedero tutto il calore possibile e ci fecero trascorrere un’estate davvero unica. Andavamo spesso al mare, a bordo di una vecchia Fiat di colore verde, tanto brutta nelle forme quanto comoda all’interno. 

Ashley camminava sulla spiaggia al tramonto, mentre io scrivevo i primi capitoli del Silenzio Degli Angeli, non nascondo, prendendo molta ispirazione da quella pace così simbolica e forte da esser difficile da portare su carta. 

Tornati a casa, venimmo travolti dalle vicende delle elezioni, un lungo inverno di scandali e paura, in cui persi Ashley, troppo impegnato come corrispondente del Chronicles di San Diego. La rividi solamente al mio matrimonio, l’estate seguente, sorridente e spensierata. 

Alla nascita di Jacob, il mio primogenito, Ashley si presentò in ospedale molto provata dalle grandi fatiche del suo ultimo lavoro, uno spettacolo teatrale sulla Rivoluzione, che la portò con discreta fortuna a girare il paese per due anni. 

Proprio quando ero certo di aver perso le sue tracce, non sapendo di lei da più di quattro anni, ci reincontrammo a Orlando, durante una festa data da Lee Jackson in onore di sua moglie, prima donna eletta in Parlamento con un programma spiccatamente progressista.

Fu quella notte che Ashley mi confessò di voler partire per il Messico.

Non mi sorprese per nulla, due anni più tardi, trovarla in un notiziario sulle rivolte dei Caraibi, a capo di un gruppo di rivoluzionari colombiani che combattevano i cartelli della droga, la CIA e lo stesso governo colombiano. Troppi nemici anche per una leonessa, fu lei a chiamarmi da Panama perché organizzassi il suo rientro pochi mesi dopo aver tentato un golpe. Non fu facile, ma trovammo ospitalità a Cuba, presso vecchi amici. Furono mesi fantastici, i mesi in cui scrissi i Diari del Capitano, mentre Ashley insegnava inglese presso una Missione Evangelica semi clandestina. 

Dormivamo insieme nel grande stanzone che di giorno diventava l’aula delle sue lezioni. A volte mi nascondevo per ascoltarla insegnare. 

Lasciai Rose con una telefonata, spiegandole che il nostro matrimonio era giunto a un capolinea, omettendo di dirle che quel capolinea era stato raggiunto il giorno stesso delle nozze. 

Furono dieci anni intensi, spesi tra Cuba e Buenos Aires, con molte vacanze, senza mai uscire da quell’intreccio di Paradiso e Inferno che è l’America del Sud, dalla quale scappammo rocambolescamente.

Decidemmo di partire per Pechino, fu un viaggio lunghissimo, mesi di mare e treno, dannata la paura di Ashley per gli aerei.

Invecchiava diventando più bella, se mai possibile, di quanto non lo fosse stata da giovane. Capitava a volte che mi trovassi orgoglioso di notare gli sguardi degli uomini più giovani, appoggiarsi su di lei. Capitava, a volte, di ritrovarsi in una conversazione come non ci fossimo mai parlati, riscoprendo tutta la voglia di conoscersi che hanno gli innamorati al primo appuntamento.

In Cina lavoravo come corrispondente per un paio di giornali, scrivendo quello che potevo sulla Rivoluzione che ci costrinse a spostarci ad Hong Kong.

Comprammo una piccola casa, sull’isola, nel fondo di Hollywood Road, di fianco a una scuola inglese, nella zona dei trafficanti d’arte.

Fu proprio in quella pancia di vicoli che conoscemmo Brian Lin Hsu, del quale rimanemmo entrambi innamorati. E fu Brian a portare Ashley a conoscere l’arte cinese e la necessità di salvarla dalle brame del Governo. 

Dovetti tornare in California per pubblicizzare il mio ultimo romanzo, Carte dall’Oceano, e fu quello il viaggio in cui Ashley trafugò la maggior parte delle opere che poi rivendette al dittatore nigeriano O’Hara. 

La Polizia ci trovò in un motel, nudi e sospesi in uno dei nostri silenzi infiniti. L’audace fuga di Ashley è molto romanzata, perché in verità fu disattenzione di uno degli agenti che la scortava. La vidi personalmente scappare con un solo balzo sul tetto della stazione di servizio davanti alla Caserma. Io sorrisi, pur sapendo che difficilmente ci saremmo rivisti.

I giornali parlavano della miracolosa fuga dell’Equilibrista, io non riuscivo ne a sorridere ne a piangere, mangiando ricordi e momenti, incapace di vivere.

Fu un anno difficile e vuoto, smisi addirittura di scrivere, fino a quando non ricevetti una chiamata da Nello, il nostro amico italiano, che quasi mi obbligò ad andare a trovarlo per le feste del nuovo anno, al mare vicino a Genova. La sua insistenza mi convinse.

Ashley si fece trovare alla piccola stazione, ancor più bella di come alla ricordassi. 

Decidemmo di fermarci, affittando sotto falso nome una piccola casa a picco sul mare.

Furono cinque anni che meriterebbero una storia a parte. Dell’amore infinito che la terra e il mare ci diedero, di come io e Ashley non avessimo mai smesso di dormire uno sull’altra, nudi. Delle estati che iniziavano a maggio e finivano a ottobre, delle persone che ci hanno accompagnato.

Ashley morì nel sonno a dicembre, dopo un giorno di inaspettato sole, poco prima che la Polizia avesse modo di trovarci, invitata sulle nostre tracce da qualche persona gelosa.

Ho sparso dei fiori in acqua, nel giorno del suo funerale, ho pianto fino all’arrivo al nostro appartamento ad Hong Kong, dove ancora vivo e scrivo.

Su Ashley ho sentito molte storie, la storia di Ashley è l’unico libro che non scriverò mai, perché il troppo amore mi confonde tutt’oggi.

Un’unica cosa: non fu mai mia amante. Gli amanti vanno e vengono, sono come un giorno di sole in inverno, momenti di trascurabile felicità.

Lei fu l’amore, nella sua più perfetta forma: in questo e solo per questo accetto di chiamarla Equilibrista. 

Perché solo un equilibrista può sopravvivere al circo di una vita insieme.

Ad Ashley, L’Equilibrista, firmato un uomo che solo alla fine si è accorto di essere la rete di sicurezza, in un circo che senza di lei non vale più il biglietto. 

Ulisse

Ulisse. Pelo ispido, bianco , occhi vispi, stava seduto sulle vecchie travi di legno ad aspettare. Ulisse stava passando la maggior parte della sua vita aspettando, spesso seduto con quel suo grosso culone, poco armonico rispetto al resto del corpo, slanciato, sulle vecchie travi di legno della cucina. A volte sotto la finestra che dava sul piccolo giardino, erba bruciata dal sole, terra, cumuli disordinati, la fotografia di cosa faccia il tempo unito alla distrazione.  Più spesso davanti alla porta d’ingresso, due grossi vetri, sporchi tanto da sembrare scuri, che davano sul viale.

La casa era alla fine del viale, alla fine della città, sembrava essere davvero alla fine del mondo. Verso i campi, prima che il fiume facesse quella strana curva, un angolo quasi retto, di legni e fango, la strada non era più d’asfalto, nessuno aveva avuto interesse per quella strada, nessuno avrebbe mai costruito quella casa, pochi l’hanno abitata, negli anni della guerra del Cotone, negli anni bui delle lotte, fino a oggi, fino a Vera.

Aveva scelto quella casa per la solitudine perfetta, per il disordine controllato dei campi, per il rumore del fiume, per l’oscurità totale che scendeva con il calare del sole, per le volpi che si vedevano al mattino presto, per l’odore di mare che, chissà come, arrivava dalla valle.

Era stata una delle poche scelte che Vera aveva avuto occasione di fare, e tempo per rimpiangere.

Era arrivata in quella casa giovane, con la sua valigia marrone, rovinata dalla pioggia insistente e dal tempo, due vasi e un cappello nero.

Era in quella casa da tempo, anni, senza aver ancora preso la decisione di andarsene.

Ulisse era arrivato la sera di Natale ormai di sette anni fa, sporco, piccolo, spaventato.

Era rimasto sporco e spaventato, per il vizio di buttarsi nel fiume appena poteva e per la diffidenza strana per un cane, ma perfetta per quel posto. Era cresciuto insieme a Vera, insieme alla casa, insieme ai silenzi.

Adorava, Vera, vederlo seduto, con il culone disordinato, davanti alla porta ad aspettarla.

Tornava al tramonto, guidando il furgone fino alla casa, lasciandolo aperto, prendendo le buste di carta marrone, con le cose da mangiare, lasciando appoggiati gli occhi sul tramonto dietro alla casa. Le sere di giugno, il sole incendiava il cielo, la casa sembrava sospesa tra fuoco rosso e terra nera.

Vera aveva conosciuto Hugo in città, di pomeriggio, mentre ordinava la cena a Tim, il vecchio droghiere. Si era innamorata di Hugo la sera stessa, mentre mangiavano la cena seduti sulla panchina davanti alla drogheria di Tim, dalla quale non si erano mossi per tutto il pomeriggio. Aveva deciso di lasciare che Hugo entrasse nella sua anima verso le quattro quando Hugo le aveva chiesto:

  • se mai fosse possibile, vorrei entrare nella tua anima, sedermi e guardare un po’.

Aveva risposto solo con gli occhi, socchiudendo la bocca.

Si erano baciati appoggiati al furgone, togliendo polvere dalla portiera, lasciando dita che scivolavano languide.

Erano corsi a casa, nella casa di Vera.

Hugo era stato il primo estraneo ad entrare. I suoi passi sulle vecchie travi di legno facevano un altro rumore.

Aveva accarezzato Ulisse. Aveva spogliato Vera. Era rimasto a dormire, si era alzato, all’alba, ed era andato via.

La sera, era tornato, portando una bottiglia di contrabbando, vetro senza etichette, delle verdure, del curry, zenzero, cannella, latte e biscotti.

Era, più o meno, iniziata così.

Erano stati giorni di silenzio, corpi nudi, piedi sulle vecchie travi di legno, il fiume che faceva rumore di notte, coprendo i loro respiri, le loro chiacchiere al mattino, i tramonti guardati insieme, appoggiati alla staccionata. Mesi, una stagione, due, ancora una.

L’autunno assassino aveva portato piogge e freddo.

Una sera, la terza settimana di settembre, Vera non era tornata.

Punto.

Aveva, la notte prima, pianto, appoggiata al petto nudo di Hugo.

Lo faceva, a volte. Di gioia, di ricordi, di dolore, senza mai spiegarlo del tutto.

Da quel momento, Ulisse era rimasto ad aspettare, sulle vecchie tavole di legno, seduto con pazienza.

Hugo portava tutte le sere nella casa un fiore, rosso come il destino.

Sedeva, facendo finta di non aspettare.

Aspettava, insieme a Ulisse.

Arrivato dicembre, si era detto, smetteremo di aspettare, andremo via, lasceremo questa casa e i suoi tramonti.

Dicembre era arrivato, nessuno dei due sembrava aver il coraggio di andare.

Come se non facesse differenza, andare o restare, perchè bisognava semplicemente aspettare.

 

 

Dicembre

Si erano incontrati davanti a una delle porte d’ingresso, forse la 64, dell’aeroporto, in un venerdì pomeriggio, di valigie, odore di nafta, rumore di aerei, pensieri stipati nelle borse e la sensazione di non voler tornare. In nessun posto. Si erano presentati, scontrati, a dire il vero, proprio sotto la porta. Avevano bevuto caffè, riso delle piccole disavventure, sospirato ricordando del vino della Valley, come lo avessero bevuto davvero insieme. Si erano baciati sicuri fosse una cosa su cui sarebbe stato facile soprassedere, le cose che lasci in aeroporto distrattamente, poco prima di partire, fogli, bottiglie, scontrini, baci sospesi.

Era dicembre. Un venerdì dopo il Ringraziamento, prima di Natale, quella serie sfortunata di venerdì che sembrano brutta biancheria intima appesa fuori da una finestra ad asciugare. Cadesse, nessuno scenderebbe in strada a cercarla. Come quei venerdì, che se passati senza niente di speciale sono una parentesi sospesa,l’inutile punteggiatura del calendario.

Tornavano a casa, tutti e due sapendo bene cosa volesse dire partire, quanto pesasse tornare, quanto avrebbe lasciato quel viaggio, l’ennesimo, ancora un graffio all’anima, l’ennesimo, credi sempre si tratti dell’ultimo, ma hai un’anima più dura di quanto pensassi.

Scrivimi, aveva sussurrato lei, senza nemmeno crederci, ma sorridendo di desiderio, illusione e brillando di una bugia innocua, mentre stavano sotto un grande albero di Natale, pieno di palle blu cobalto e di luci calde.

Lo farò, aveva risposto lui accarezzando il pensiero di farlo davvero insieme ai suoi capelli.

Scrivimi, aveva aggiunto lei, qualcosa di stupido e ridicolo, come il Natale.

Si sentiva odore di cannella, la California sa di cannella come tutto il resto d’America, se proprio è necessario precisarlo. Sembra sempre possa restare sui vestiti per giorni, l’odore della cannella, che invece resta dove lo hai respirato, ad aspettarti al tuo ritorno, come un addio che promette di essere un benvenuto, una promessa di ritorno.

Erano passati anni, persone che misurano gli anni in viaggi. Viaggi che misurano le persone in anni, la semplice complessità delle vite che sfuggono al controllo del tempo, la sensazione di deja vù, essere stati qualcuno in un posto, non ricordando bene chi e dove.

Stagioni, situazioni, vite incrociate.

Era dicembre, ancora. Ritorna, dicembre, tutti i dannati anni. Come un monito, una scadenza, un segnalibro, da lasciare in una pagina, bella, bellissima, orribile, da dimenticare, talmente brutta da lasciare il segno. Dicembre è il segnalibro delle vite degli uomini, lasciato in una pagina, chiuso un capitolo, l’estasi del nuovo, il reflusso del vecchio.

Era dicembre, ancora.

Molti dicembre dopo quel bacio di cannella e bugie sospese prima delle feste, proprio sotto un grande albero.

Era impossibile, sembrava impossibile, ritrovarsi.

Quello che sembra impossibile, lo impari dopo qualche dicembre, rimane l’unica certezza. La vita è un quadro.

Sicuramente.

Surrealista.

Sicuramente surrealista.

Si erano ritrovati, solo guardandosi si erano riconosciuti. Si erano avvicinati. Si erano lasciati stupire, gli occhi grandi, un sorriso.

Ho pensato a qualcosa di davvero stupido da dirti, aveva detto lui.

Ce ne hai messo di tempo, aveva risposto lei.

Erano rimasti in silenzio.

Dimmi, aveva detto lei.

Così iniziano le vite, quelle che vale la pena aver vissuto. Dicono.

La tregua

Ci ho messo tempo, quasi come non avessi fretta, quasi come non avessi un destino contro cui sbattere, quasi come non avessi una casa in cui tornare, ci ho messo tempo, per capire che non sono un vincitore.

Ci ho messo tempo, lacrime, stupore, silenzio, rottura, mani che cadono disperate sui fianchi, a capire che non sono un vinto.

Il tempo che ho messo dentro questa vita, per arrivare a capire di non esser un vincitore, nemmeno un vinto, che non conta esserlo, che non è importante dimostrarlo.

Sono seduto sul bordo di un fiume, un argine, in città, con i grattacieli a nascondere un tramonto congelato, la nebbia pronta a salire dall’acqua fino alla strada, il rumore di fondo che sembra una sola nota di pianoforte, l’odore del Natale, la legna che brucia da qualche parte, che sembra più il sentore di qualche piccola tragedia domestica pronta a consumarsi al caldo di candele alla vaniglia e profumo di alloro.

Sono seduto solo. Sul bordo di un fiume. Ho deposto le armi. E’ una tregua, una tregua strana, si sente l’odore della sconfitta, qui in trincea, si sente anche la voglia di combattere ancora.

La tregua, chiameremo questo autunno la tregua.

Lascio cadere la mano sull’erba gelata, respiro ascoltando il battito rallentare, le ossa umide, la sete, la fame.

Sto lasciando tutto, ho lasciato tutto. Mi sono liberato di tutto, non ho quasi più niente. Certezze, ricchezze, amori, sapori, ricordi, odori, sentori, piaceri, destino.

Mi hanno rubato oggetti, pensavo mi avessero rubato il futuro.

Mi hanno tolto la speranza, prendendomi pezzi di vita, di ricordi, mi hanno confuso.

E’ questa la guerra, dove vince chi molla, vince chi lascia, vince chi si stacca.

E’ questa la guerra, che sto combattendo, che combatterò.

E’ una tregua.

Non conta vincere, conta combattere.

 

 

Guadalupe

Mi ha detto: come ti chiami

Le ho risposto: è una domanda?

Mi ha risposto: si.
Mi chiamo Francesco, mi hanno chiamato Francesco con amore, per molto tempo. Mi hanno chiamato Francesco sussurrando il mio nome, lo hanno fatto con rabbia, urlando, con paura, pregando. Mi chiamo Francesco, faccio questo nella vita, osservare come la gente pronunci il mio nome. Con quale tono. Con quale modo. Perchè lo faccio? Non saprei darti una definizione precisa, so solo che riesco a riconoscere molto da come una persona pronuncia il mio nome.
E’ andata più o meno così. Mi sono svegliato nel mezzo della notte, mi sono seduto sul bordo del letto, toccando il legno, lasciando appoggiati i piedi sulle piastrelle fredde.
Ho respirato a fondo, guardando il buio fuori dalla finestra, l’ombra della tenda, le sagome dei libri, il disordine controllato dei miei vestiti sparsi per terra.
E ho visto lei. Nella penombra.
Con un lungo vestito, scuro, ombra su ombra, solo una spalla illuminata. Ho intuito i capelli lungi, i seni, le mani affusolate, le gambe nascoste dalla gonna larga.
Dimmi chi sei
Ho sussurrato.
Come ti chiami, mi ha detto.
Abbiamo bevuto rivoli di silenzio, assaggiato il freddo della stanza, respirato la solitudine ottusa che questa stanza mi rende.
Io, ho detto, non ho paura del silenzio, del freddo e nemmeno della solitudine.
Io, ho detto, ho paura solo di una cosa. Una sola cosa al mondo mi spaventa: non capire.
Ecco, ha risposto lei.
Difatti, ho risposto io.
E, ho aggiunto, adesso non sto capendo.
Cosa non capisci?
Ho paura a rispondere.
Non avevi paura solo di non capire?
D’accordo, ho paura di capire, rispondere e rimpiangere.
Diventa una lista.
Adoro le liste.
Lo so
Chi sei tu, oltre che una visione notturna con i seni in vista?
Cosa non capisci?
Non sto capendo nulla.
Per questo ti svegli di notte?
Ormai è una placida abitudine. Succede così spesso che mi sta quasi piacendo, svegliarmi di notte, come se potessi fermarmi solo di notte, come se fosse una pausa.
E poi è solo di notte che capisco davvero le cose. Mi sento vinto, ho capito che non c’è differenza tra vincitori e vinti, mi sento solo, ho capito che è un lusso per pochi, mi sento disperato, ho capito che è un potere infinito, in mano a pochi.
Queste sono le cose che capisco di notte.
Il prezzo che pago sono due piccole linee nere, restano sotto gli occhi in queste giornate grigie, come se le sue mani avessero accarezzato i miei occhi per chiuderli, lo sogno ogni notte.
Lei che sussurra il mio nome. Per esteso. Una delle poche, l’unica che lo fa.
Francesco.
Dormi.
Mi resta solo questa prova, le due linee nere, i due solchi di tutti i miei sonni interrotti, a ricordarmi di lei.
E di giorno ho meno paura.
Come ti chiami, mi ha detto.
Francesco.
Ho risposto.
Una notte, qualche giorno fa.

Io e la palla (Ovali) 

I grandi amori della mia vita vanno per due direttrici, due solchi, due binari paralleli. I grandi amori della mia vita o son stati malattie o son stati cure, o cause o effetti, o sorgenti o dighe disposte a fermare tutto. 

Ci sono sere come questa in cui una serie di piccole cose, il vivere che sembra non voler collaborare ogni tanto, mi tengono sveglio. 

Mi spaventava l’insonnia, perchè ho sempre pensato che sia l’anticamera di qualche grande malattia. Come la nausea. Insomma l’influenza intestinale mi ha sempre provato fino allo sfinimento.

Poi ho imparato a mangiare meglio, bere meno, o forse darmi tempo.

Poi ho imparato a rimanere sveglio, senza paura di trovarmi sdraiato di fianco a un pensiero scomodo. 

Ci sono sere in cui rimango così, guardo la libreria, respiro il silenzio della casa, osservo il buio fuori dalla finestra, lascio che la nostalgia coccoli pensieri che uno dopo l’altro si addormentano. 

Non mi spaventa l’insonnia, non più, so fare i conti con un giorno dopo difficile e lento, so dell’arrivare a sera sognando il letto, non mi spaventa più quasi nulla, quasi tutto ha una cura, anche l’amore.

Non mi spaventa l’insonnia e adoro le liste, il senso di sicurezza di mettere in fila cose da fare, lo splendore nascosto nel far scivolare le urgenze appena dopo cose assolutamente non importanti, le liste di cose belle, le liste di ricordi, le liste di grandi progetti e piccoli sogni. Le liste, elenchi che sempre meno scrivo, sono la poesia che mi racconto quando non dormo, sono le mie segrete litanie, una preghiera a Dio di darmi un giorno ancora, ancora uno per Dio, per vivere ancora, una spunta su una cosa, su un libro, su un bacio rubato al freddo, su un sorriso rapito da un bambino. Poesia metropolitana, ecco cosa sono.

Ho freddo questa notte, ho freddo e il sentore del tempo che passa e delle cose, alcune cose, che non si stanno mettendo per niente bene. Forse ho freddo per questo, per questo presagio, di mesi, ancora mesi, di cose da rifare, sogni da mettere in un cassetto, merda da mangiare, e le mie occhiaie a ricordare allo specchio tutte le mattine il peso di ogni passo, nel fango dei periodi come questo. Non mi fa paura la vita, sono quel genere d’uomo che non ha paura della vita e della morte. Forse ho avuto paura di nascere, sicuramente ho paura di soffrire, non avrò tempo di aver paura di morire.

Ho freddo, in questo silenzio, che ho imparato ad amare tanto quanto la musica, e guardo da quasi venti minuti le chiavi di casa, appoggiate su una foto, girata, impolverata, che ha quasi undici anni e una storia da raccontare. Io, i capelli, molti più capelli, un pizzo ispido, il mio giubbotto marrone, che solo Dio sa quanto io odi buttare i vecchi vestiti che poi tornano sempre di moda, per uno come me che non è mai di moda. Un giubbotto da sentinella, caldo, di velluto, sporcato dal tempo, deformato dai viaggi, un lampione. Non si capisce, ma è Genova. Di notte, non ricordo se ottobre o novembre, sabato, notte. A Genova ci arriva chi ama il mare per davvero, ci passa chi vuole partire davvero, a Genova ci passeggi senza pensieri, sapendo di camminare in un miracolo di cemento e salsedine che un po’ assomiglia a Milano, un po’ a Torino, un po’ non assomiglia a niente. A Genova ci vado anche solo per sentire l’odore del Porto. Come fosse casa. Avrà undici anni quella foto. E ha una storia alle spalle, come tutte le foto. Andrebbe lasciata appesa, le storie comunque sono bei ricordi.

È la storia di un amore che sembra aver avuto un inizio molto dolce e una fine così definita da esser stata un confine. La vita traccia confini. Scavalcare, oltrepassare, scappare. Si fa così con i confini.

I miei amori son state malattie dolorose, niente di mortale a quanto pare. I miei amori sono stati cure dolcissime, miracolose, incredibili. I miei amori sono stati splendenti cause, deliranti effetti. Sono mesi che ho smesso di rinnegarli, li ho riconosciuti tutti, alcuni contro voglia, si capisce. Ho amato talmente tanto da avere un cuore capace di cose incredibili, ho amato così tanto da avere ancora fame d’amore. Ho amato libri, pagine, frasi, storie, la cura del leggere, ho amato strade, da sentire nelle curve, nei dettagli, nella bellezza nascosta da un motore e una sfida. Ho amato il mare, ne amo gli angoli nascosti e difficili ma anche la pancia larga delle spiaggie piene e rumorose. Ho amato uomini che ho trovato sulla mia strada. Ho amato progetti folli, amerò sempre la follia lucida che mi prende lo stomaco come un pugno ben assestato. Ho amato donne, le conto sulle dita di una mano, così diverse tra loro, ho amato il loro passato e il desiderio di un nostro futuro. Alcune mi hanno curato, altre mi hanno ferito fin quasi ad uccidermi. Si sopravvive sempre all’amore sbagliato, non per raccontarlo ma per riprovarlo, come un vizio di cui vergognarsi solo un poco.

È forse per tutto quello che ho amato, che sono così. È forse per come ho amato che sono così.

La questione della palla ovale, della terra, su cui sbattere con forza, della fatica di uomini molto diversi per sogni e progetti, tutti uguali in mezzo alla partita, la questione di fare metri, a volte centimetri, rischiando di non sentire più le braccia dalla fatica, con i polmoni che esplodono, la questione della resistenza al dolore, del sacrificio, del freddo dannato o del caldo osceno, la questione di non essere nessuno di speciale ma di essere indispensabile, il contrario del resto del mondo, la questione del tempo passato ad allenare muscoli che fanno male e che non vede nessuno. La questione del rugby, riassumendo, è una questione di cura. Una cura importante, per sofferenze importanti. 

L’amore per una medicina così dolorosa e radicale, quello è un discorso di storie, raccontate tra uomini molto diversi al buio delle notti, sapendo di poter spiegare tutto fino a un certo punto. 

Una cura che, mi fido di me, funziona. Aiuta a ricordare che vale la pena. Quando resti insonne per provare a capire cosa non sia andato, perché non sia riuscito, quando è successo veramente, senza nessuna intenzione di tornarci sopra. Solo per capire e non rifare gli stessi errori. Solo per non smettere mai. 

Il rugby è la cura che mi da certezza che le mie liste non sono finite per nulla. 

Questo è.

Susanne

– Aspetto. Aspetto da tempo, non saprei dire quanto.

– Cosa aspetti?

– Aspetto che un miracolo avvenga.

-Ne aspetti uno in particolare?

-Gli uomini come me hanno diritto a un solo miracolo in tutta la vita. Aspetto quello.

Susanne è seduta, di sponda, su una terrazza di legno e acciaio, sotto la città illuminata, di lato lui e un vento ostinato da Sud, freddo come tutte le cose che anticipano l’inverno. Cerca di capire, Susanne, con gli occhi piccoli di chi studia, le mani dolci e docili a cercare il bicchiere e i capelli, che sembrano le uniche sicurezze rimaste davanti a questa città, buia di una notte senza stelle, fredda di un inverno senza legna, ma bella come solo i sogni sanno essere.

Susanne da piccola giocava con le bambole e il silenzio, aveva bambole bionde e silenzi stupendi, fatti di alberi e cielo, i silenzi dei bimbi. Ha chiuso le bambole in una scatola di cartone, ha tenuto i silenzi, per giocare ancora. Susanne gioca con i silenzi e con i capelli, mentre gli occhi piccoli scrutano e accettano. Accettare le mani di lui, che accarezzano le sue mani, come fosse un gesto di secoli, un simbolo, un’onda, che batte sulla spiaggia, accettare non è stato facile. Ma il silenzio aiuta.

– Aspettavo un miracolo preciso, che avesse il tuo modo di prendere i capelli per ribattere agli improvvisi salti della vita.

-Impossibile tu abbia aspettato me. Non mi hai mai conosciuta.

-Infatti i miracoli non si conoscono, la forma dei miracoli è sconosciuta, l’odore del miracolo è racchiuso nella speranza, il suo sapore nel desiderio, e i tempi dei miracoli sono diversi da quelli della speranza. Aspettare non serve a molto.

Lui sentiva il freddo vento tagliare la schiena, le mani di lei fredde e piccole, e i suoi occhi, fissi su di lui, a chieder risposte, che nessun uomo ha ancora trovato. Ecco, Susanne, chiedi cose che difficilmente gli uomini sanno di avere, risposte. Ma assomigli terribilmente alla bellezza del miracolo.

La redenzione di una vita, tutta chiusa nel tuo modo di camminare cauta, ascoltando anche con il corpo il silenzio delle cose. L’illusione della perdizione, quando ti abbandoni sul sedile di pelle di un taxi, il corpo bello e appoggiato pigramente. La pulizia della mano di un bambino che toglie la condensa da una finestra, per guardare la neve, quella stessa pulizia dei gesti dei piccoli, la fanno le tue mani, mentre accettano le mani di uno straniero.

Vorrei solo, Susanne, dirti, che io nei miracoli ci credo. Lasciami ballare mentre guardi curiosa il mio modo di affrontare un cameriere, lasciami cantare una canzone senza parole, mentre ti osservo dallo specchio di un’ascensore, lasciami prendere questa vita, e accarezzarla come facevo con le tue mani.

Lasciami, Susanne.

Fare e dire.

 

In loving Memory of Mr. Leonard Cohen

 

El Christo 

Lo chiamavano El Christo.

Perché assomigliava vagamente all’idea che gli uomini hanno di Cristo, capelli lunghi e chiari, barba incolta, fitti occhi verdi. Aveva il viso affilato, un modo naturale di aprire bocca per parlare, un tono profondo di chi non ha vergogna, o forse nulla da perdere, o forse, semplicemente, perché ha perso tutto.

Lo chiamavano El Christo, perchè aveva ricevuto la benedizione della follia, appena dopo i trent’anni, guidando una coraggiosa rivoluzione, nessuna guerra, nessuna battaglia, una questione interiore, di cambiamento, di coraggio e follia. Aveva preso la sua vita, mettendo in discussione tutto, distruggendo e ricostruendo, come il Cristo a trent’anni.

Lo chiamavano El Christo, perché era religioso, era cattolico, era uno dei pochi, pochissimi, ragazzi a spingersi fino alla processione del Venerdì Santo, a baciare la croce socchiudendo gli occhi, per dimenticare le assurde ragioni di un Dio assassinato dagli uomini e dalle loro paure. Diceva così. Diceva di essere scappato da molte religioni, da molte paure, da molte comodità, ma mai da quella croce.

Lo chiamavano El Christo perché sul campo era uno di quelli che giocava come se non avesse paura di soffrire, come fosse immortale, anche se in perenne discussione con un fisico di cristallo, delicato più di quanto si potesse supporre. Era il primo a lanciarsi, l’ultimo a spostarsi. Credeva nel valore della terra e dei metri conquistati dando tutto. Una questione di umanità, quella di dare tutto. 

Un mattino di novembre El Christo camminava, una lieve zoppia alla gamba destra dovuta a uno dei tanti incidenti di gioco, una lieve malinconia negli occhi, quasi un velo, dovuta a uno dei tanti incidenti dell’amore, verso la Cattedrale, insieme a pochi turisti infreddoliti. 

Si era fermato a guardare oltre la fitta nebbia.

Un respiro, quasi una fitta, un pugnale.

Un sordo dolore.

El Christo era rimasto fermo, a riconoscere il dolore dell’anima. 

Poi aveva ripreso a camminare. 

Sorridendo.

Era il suo destino, tutto questo dolore a novembre. Era la sua partita, la sua croce, la sua vita.

Si sorride davanti al destino.

Non è piangendo che cambi un destino.

È sorridendo, che gli fai paura, proprio come provava a far lui.

Un solo segreto.

Sorridere al destino.

El Christo 

capitolo primo: storia di un delitto

Dividerò la cosa, per comodità narrativa, in tre parti. Andrebbe letta poi tutta d’un fiato, come sono passati questi dieci anni, tutti d’un fiato.
Mia moglie è nata a Palermo, con il sole, il vento di gennaio e le aspettative di una famiglia intera con un’unica figlia, unica nipote, unica in tutto insomma. Lo si vedeva dai capelli e dal modo di fare, che era unica. Mi sono innamorato di mia moglie in un bar, bevendo caffè. Mi sono innamorato del suo presente, di quel modo discreto di portare scarpe lucide e giarrettiere, del suo passato, della storia della sua isola, e ho pensato fosse naturale innamorarci insieme del nostro futuro.
Eravamo sicuri e indistruttibili, seduti sulla mia Vespa, pronti ad andare ovunque. Lo abbiamo fatto. In un martedì pomeriggio di aprile è nato il Piccolo.
E’ stato il giorno in cui mia moglie è venuta a mancare. E’ morta. Come moglie. Dalle ceneri della moglie e compagna, è nata una madre.
Perfetta e assoluta, come tutte le madri, mia moglie è diventata quello che il suo destino aveva deciso: una madre presente, apprensiva, dolce.
Io sono uno che ai lutti non pone rimedio. Siamo fatalisti, da generazioni, e accettiamo i lutti con dovere cattolico e pazienza buddista.
Quando muore una moglie, soprattutto la prima, hai poco tempo per realizzare che questa nuova, imperfetta, solitudine, non può calzare, è un vestito troppo stretto per qualsiasi uomo, figurarsi per me. Ti agiti, cercando di romperne le cuciture, sperando poi di poterlo cambiare, questo vestito stretto e inadatto. Sei un padre, di un maschio splendido e talmente uguale a te, a tuo padre, a tuo nonno, da aver preso fisionomia, malattie, modi, e tempi, come fosse una piccola replica di quello che la tua famiglia offre al mondo da generazioni. Sei un compagno, ma senza compagna. Sei un marito, ma senza moglie. Sei un amante, solitario come quelli dei libri.
Un vedovo che non ha partecipato a nessun funerale, per poter piangere la morte della moglie e che, anzi, la rivede tutte le mattine, sveglia e vigile, insieme al frutto dell’amore che, volendo scavare, sicuramente c’è stato.
Mia moglie è morta ad aprile, ormai di sei anni fa, mentre la mia vita mi costringeva a correre veloce e non pensarci troppo. Visti da fuori, sembravamo perfettamente aderenti al sogno di tutte le famiglie. Crollavo esausto su aerei che partivano all’alba e che mi riportavano a casa dopo il tramonto. Trovavo un divano disordinato con due corpi, uno talmente piccolo, talmente indifeso, da commuovere, uno che non riconoscevo più come corpo.
Non esser desiderati porta a non desiderare.
Mia moglie è morta ad aprile, ma non è colpa sua. Su questo, da compagno e marito, ci devi lavorare parecchio.
Ai lutti devi sempre dare un colpevole, ai peggiori delitti viene sempre dato un’assassino, un nome e cognome, che quasi placa, calma, il dolore indicibile del crimine commesso.
A lutti come il mio, è difficile non dar nomi, non dare colpe, non cercare disperati i responsabili.
A volte mi si fermava la vita intorno, sono momenti che ricordo perfetti e lucidi, come fosse ieri. Davanti a una vetrina di un negozio, il suo preferito di intimo, in un aeroporto. A trovarsi non adatti a comprare nulla. Quasi a non rovinare quell’indifferenza, quel ritrovarsi sconosciuti in un letto. Per non discutere, per non affrontare la rabbia.
Mia moglie è morta ad aprile, sei anni fa.
Sono rimasto vedovo, resto padre, sono rimasto compagno.
Ho impiegato quasi cinque anni a capire che delitti perfetti come l’assassinio di mia moglie possono restare senza nomi, che il carnefice che ha ucciso mia moglie ha ucciso moltissime donne, perchè dai discorsi e dalle parole sospese nelle cene caotiche con bambini che distruggono tutto, riconosci lo stesso crimine, in altre coppie.
Ho impiegato quasi cinque anni per capire che io non sono nato per esser vedovo. Sono nato per morire d’amore, per un infinito che non si ferma davanti a nulla, che la morte, quella vera, della mia compagna ed amante, mi ucciderebbe.
Ho impiegato cinque anni per capire che non ho colpe, se non quella di aver capito così tardi.
Ecco perchè scrivo, ci metterò tempo, di questo omicidio senza colpevoli, che ha lasciato in vita troppe persone.
Me compreso.