Separazioni

Lo studio è bianco. Decisamente bianco. Libreria bianca, di design si dice così quando si lesina sul legno e si infilano grossi tasselli di acciaio dentro i muri fissandoci senza pietà il legno. Violente penetrazioni vegetali di lusso. Tavolo bianco, gigantesco, fosse un tavolo da pranzo, ci si potrebbe organizzare una Comunione in Calabria. Sedie di plastica, il gusto sadico di designer probabilmente gay, probabilmente cocainomani, probabilmente non adatti a disegnare sedie. Sedie scomode, bianche. Pareti, manco a dirlo, bianche. Dalle grandi finestre si vede il centro, il Duomo, la libreria in piazza, il grande parcheggio, la gente che scappa da un improvviso temporale estivo, grossi goccioloni con il cielo grigio e minaccioso.

Fossi là sotto, aspetterei che spiova. E’ facile essere ragionevoli, quando guardi le cose dall’alto, penso.

Se non collezioni orrendi quadri giganteschi, non sei un avvocato, un notaio, un commercialista di livello. Quanti soldi spesi per dimostrare uno status, penso accarezzando la cornice dorata di un quadro che a naso sembra un orgia di coccinelle e giraffe blu, ma che, leggo sulla targhetta, si chiama “pioggia sul fuoco”.

Lei entra, bussando. Una antica tradizione di avvocati, notai e commercialisti, che ti accolgono in questi spazi che sono dei giganti diffusori di ricchezza, di dubbio gusto, facendoti fare odiosa anticamera, e bussando per entrare. Mi ricorda, questo manierismo lobbista, il motivo per cui adoro i miei nerd e i loro dannati computer. Adoro l’abolizione anarchica delle buone maniere, la concretezza di chi in jeans e maglietta, mangiando pizza, risolve problemi complessi, senza il bisogno di ammiccare riferendosi ai Codici, esposti in bellavista in librerie di pessimo gusto, affiancate a juke box o giradischi del primo Novecento.

Si presenta.

Mi presento.

Ci presentiamo, insomma.

Ricorda un film, forse Bridget Jones, ha un vestito adatto a una domenica in agriturismo, le scarpe di raso e una collana di Tiffany. Porta un grosso quaderno e una penna d’argento.

Si siede.

Mi siedo.

Ci sediamo, insomma.

Formalismo d’annata. Ci vuole pochissimo per mandare a puttane situazioni di plastica come questa. Ci penso io, di solito. Ci penso io, anche questa volta.

Mi chiede di parlare. Come un nano che apre, dopo secoli, il portone di legno, intarsiato d’oro, della miniera in cui generazioni di suoi avi hanno scavato. Ne escono draghi, soldati, elfi, troll,  leggendarie creature sepolte da secoli.

Ecco, lei, insieme al suo vestito adatto a una partita di cricket in un parco periferico di Londra,  apre un portone da cui escono ricordi, lucidissimi, nessuna scusa, una intera vita.

Se tu sei il nano, io sono tutto quello che esce da quel portone.

Una miniera.

Siamo un cazzo di romanzo fantasy, io, te e la mia vita degli ultimi anni. Un romanzo fantasy che sconfina nel thriller.  Generi che ci vuole poco a scrivere, ho sempre pensato.

Ascolta, prende appunti, sciabolando la penna d’argento e osservandomi da dietro agli occhiali.

Veniamo interrotti da una assistente. Che porta due caffè e un paio di tette di tutto rispetto. Mi offre il caffè, lo prendo sbirciando le tette, per abitudine e per educazione.

Penso sempre che se tu indossi magliette con vertiginose scollature, di dubbia fattura e dagli orrendi colori ma che avrai pagato cifre impensabili, io sia tenuto a rispettare la tua sottile richiesta, guardandoti le tette. Disprezzo le magliette che costano più di cinque euro, ma so apprezzare le tette che sono costate cinquemila. I soldi spesi bene.

Ha, l’assistente, la faccia di una di quelle donne che non prendono medicine, che fanno yoga, che bevono aloe, che curano le infiammazioni con i decotti di finocchio. Probabilmente ha un gatto che ama dormire sul guardaroba pieno di discutibili magliette di marca.

E ha le tette gonfie. Troppo, sospettosamente, gonfie. L’aloe non gonfia niente, se non le tasche di quei camorristi della farmaceutica che vanno sotto il nome di erboristi.

Torniamo a noi, dice l’avvocatessa. Mi sorge l’enorme dubbio non si dica avvocatessa.

Torniamo a noi, ripete, capendo che non sto ascoltando.

Lei pensa io sia così meschino da esser rimasto bloccato sulle tette, io sono bloccato su avvocato e avvocatessa.  Si dice avvocato? La avvocato? L’avvocatessa?

Continua a prendere appunti, io continuo con questo flusso neorealista di ricordi, appunti, conti, spunti, sconti, particolari.

Si stupisce di quanto io possa andare nel dettaglio di una cena di anni fa, di una serata di anni fa, di qualcosa.

Si stupisce di quanto io non ricordi nessuna cifra. Sono nato povero. Non povero, in verità. Il mio ceto è medio, come il dito che alzavo in manifestazione, passando davanti alle Banche. In Francia, sarei stato uno sciovinista socialista decadentemente vestito con robaccia di Zara e stivaletti lucidi. In Italia, siamo una silenziosa maggioranza innocua. Diventiamo generosi, per dimostrare che i soldi per noi non contano. I ricchi risparmiano, i poveri spendono. Sono povero. E spendendo, resterò povero.

Chissà quanto mi costa l’avvocatessa, penso, a proposito. Chissà che bel viaggio avrei potuto fare, con questi soldi. I soldi migliori si spendono in viaggi, ci dicono. Io ci credo. Per questo sono contrario agli avvocati, ai notai, ai commercialisti, ai tassisti e agli erboristi. Ma non riesco a spiegarlo bene. E’ una tesi acerba.

Entro nei dettagli di cose di anni fa. Si stupisce.

Io non mi stupisco.

Il motivo per cui soffro è nascosto tra le pieghe dei particolari che so leggere, e che la mia mente impara a memoria. Non dimentico. Perdono, passo sopra, ma non dimentico.

Che in queste situazioni serve.

Il tempo passa veloce, l’assistente porta acqua fresca, mi sembra di intravedere un capezzolo e noto con sdegno che la mia avvocatessa ha una passione per i portachiavi, che spuntano da una borsetta azzurra di vernice nascosta ai piedi del grande tavolo bianco. Un grosso portachiavi di pelle.

Allora è così che spendi le salate parcelle che guadagni? In portachiavi di pelle?

Ricordo, di colpo, piatti rotti, notti insonni, il cuore in gola. Ricordo talmente bene, che mi torna il cuore in gola. Ricordo il freddo, camminare di notte, per dimenticare il nervoso e la rabbia. Ricordo il male. Tutto il male. E’ una sensazione enorme. Un disagio fortissimo. Un dolore improvviso. Ma ben definito. Al cuore.

Le cose prendono una piega inaspettata, penso. Come quando un pomeriggio di settembre, strozzato dall’emozione, ho aspettato in mezzo a una chiesa semi deserta, che lei arrivasse al’altare. La guardavo camminare, insieme a quello stronzo di suo padre.

D’accordo, mica pensavo “a quello stronzo di suo padre”.

Lo ho imparato con il tempo, di suo padre.

La guardavo camminare, e pensavo che era la persona con cui avrei voluto ballare l’ultimo lento alla festa del liceo, le luci accese, i bicchieri per terra, il dj stanco morto, il buttafuori che sbadiglia fumando una sigaretta.

Fa niente che ho fatto un liceo maschile, e che non facevamo grandi feste.

La guardavo camminare e pensavo che lei era quella sensazione di libertà di quando parte la tua canzone in radio, e tu tiri giù il finestrino, e respiri l’estate e anche l’autostrada ti sembra un posto straordinario.

Prendi una canzone di Vasco, di quando era Vasco, mica adesso. Quelle che ti sorprendevano mentre guidavi, che cazzo, anche l’Autostrada del Sole diventava un posto meraviglioso.

La guardavo così. Che è un bel modo di guardare la tua sposa.

Le ho sussurrato, non ho niente, ti darò tutto.

Non ho niente, ma ti darò tutto.

Che lei,  il suo avvocato, e tutto il resto del clan, questa cosa di darle tutto l’hanno presa sul serio.

Ecco, comunque. Uno inizia sempre così.

Nel migliore dei modi.

Poi le cose prendono una piega diversa. Ti siedi tra le pieghe della vita, che a furia di piegarsi, ti ci puoi sedere sopra, e mentre tutto va a puttane, osservi pigramente come, appunto, un buon inizio non sia sempre una garanzia di una grande fine.

Lasciamo, la prego, da parte rabbia, odio, e questioni di meschinità. Alla luce dei fatti, è meglio essere vivi che vissuti, meglio essere amati che amanti, meglio essere presenti, che passati. Lo dico a fronte della mia barba bianca. Sono felice di essere solo. Solo che sono felice solo.  Insomma, ha capito.

Sul darle tutto, rimarco alla mia avvocatessa, vorrei, se fosse possibile, mettere un punto.

Una questione di principio.

Di fine, anzi.

Mica di principio.

In Principio è tutto. Alla fine, è il giusto.

Ecco, lei, avvocatessa, mi dica cos’è il giusto.

Che io, insieme ai miei occhi da bulldog, la mia memoria di ferro, alla mia borsa di rimpianti e alle mie mani da pianista, il giusto ho perso la strada per trovarlo.

Le spiego, avvocatessa.

E’ facile guardare il temporale da queste finestre, proprio di fianco a quell’orrendo quadro che le sarà costato una fortuna.

Da qui, io e lei, possiamo tranquillamente dire che sarebbe giusto ripararsi, nascondersi sotto i portici che portano al Duomo, magari trovare riparo in un caffè, magari guardare la pioggia colare dai cornicioni, magari ridere delle zingare che corrono, con le loro gonne colorate e i sandali di sughero dai tacchi vertiginosi.

Da qui.

Ma chi sta prendendo il temporale, chi è in mezzo alla piazza, ecco, magari fa fatica a capirlo. Cosa sia giusto.

Per questo poi ci si ammala. Perchè si dimentica cosa sia giusto. Quando ci sarebbe bisogno di freddezza e lucidità, uno si perde.

La gente si perde in un temporale. Si fidi.

Io, avvocatessa, capisco poco e ho visto molto. Sono testimone. Capisco le cose della vita, fatico a spiegarle. Sono esperto di temporali, perchè amo il sole. E per amare il sole, bisogna anche infilarsi nei temporali. E perdersi.

Non siamo qui per questo, ma le anticipo che non ho nessuna intenzione di cambiare.

Io farò ancora così. Sono, per intenderci, quel tizio che rimane in mezzo alla piazza, sotto il diluvio, assaggiando la pioggia con la lingua, e godendo del fresco. Perchè, lo dico per esperienza, il sole torna sempre.

Non le dico, queste cose. Lei ha smesso di scrivere, mi guarda. Mentre io guardo fuori dalla finestra.

Vuole fare una pausa?

Per quale ragione? Io non faccio una pausa da almeno quattro anni.

Mi dica cosa è giusto, avvocato.

Il giusto è una cosa che decidiamo insieme.

Ecco, ecco perchè non mi fido di avvocati, notai e commercialisti. Perchè seduti su sedie scomode, a tavoli enormi, in stanze con quadri oggettivamente brutti, decidono che il giusto è discutibile.

A pochi passi dalla fine, una sera di novembre, per non esplodere, sono dovuto scappare di casa. Letteralmente. Era domenica. Era freddo, nebbia bagnata. E sono andato a bere in un bar pieno di relitti umani e solitudini miserabili nascoste dietro cannucce arancioni e nere infilate in Spritz mezzi finiti.

E ho pensato molto che per amore io avrei continuato a sperare nella giusta misura.

Certi pensieri, di così nobile estrazione, nascono in posti così infimi, che poi quando te li ricordi, ti viene al naso l’odore di umido di quei dannati divani. E il senso di morte che danno gli uomini quando falliscono bevendo Spritz da soli.

Lei è estremamente lucido, mi dice. Lo fa puntandomi la penna d’argento.

Spari, avvocatessa. Le dico.

Lei è lucido. Estremamente.

Non è un bel complimento. Ma serve?

Servirà. Dobbiamo pensare al peggio.

Ecco, ecco cos’è la storia del mio matrimonio.

Inizi pensando al meglio e finisci che devi pensare al peggio.

A saperlo prima, non sono sicuro che lo avrei fatto.

Una mattina, ancora non avevamo mobili, se non la cucina e un letto, che mi è rimasto ancora oggi, ho deciso di fare colazione da solo sul piccolo balcone, guardando gli alberi.

E ho pensato che da solo io sto meglio.

E ho iniziato a fare colazione da solo.

Mi salvava, in queste colazioni, che poi sono diventati pranzi, cene, pomeriggi, viaggi, sogni, pensieri, progetti, il pensare al meglio. Al meglio in due. Che era meglio del meglio da soli. Almeno pensavo.

Adesso, a quanto pare, mi salverà pensare al peggio. Il meglio è un moltiplicatore, il peggio un dividendo.

Vedi come cambia la vita.

Vuole fare una pausa? Mi chiede.

No. Rispondo.

Si distrae.

No, guardo il temporale.

Non è il momento.

Ha ragione. Ma trovo delizioso poterlo guardare da qui, mentre è quattro anni che ci sono dentro. Mi fa riposare.

Appoggia la penna d’argento. Gira il quaderno. Mi dice di controllare gli appunti. Rileggo, divertito, le cose che ho detto, la mia vita, osservata da un finestrone. Dalle finestre, non passa il rumore della pioggia, l’odore di bagnato, il freddo. Da questa pagina, non passa il dolore, la rabbia, lo smarrimento.

Ho pagato, sto pagando, pagherò, per rivedere la mia vita da una finestra, al caldo, confortevole, di codici e norme bruciati nel caminetto della foga di prevenire una vendetta.

Pensiamo al peggio, dice.

Che al meglio ci abbiamo già pensato, rispondo.

E non è andata come pensavamo, aggiungo.

Mi alzo, saluto, vengo accompagnato alla porta da quelle due, sbalorditive, tette. Cerco di rubare il profumo, ma non si sente. Appena uscito, ancora sullo zerbino, mi accendo una sigaretta, mi fermo a osservare le scale, il corrimano in legno, gli scalini di marmo, l’ascensore. Il neon, freddo, bianco. Il silenzio.

E piango.

Che il mio temporale è tutto dentro, le lacrime sono questa pioggia in cui amo restare. Perchè so benissimo che tornerà il sole, ad asciugarle.

Non è andata come pensavo, dico, scendendo le scale.

Ventiquattro scalini per rampa.

Eri una rapina, alla bellezza e al destino, le avrei dovuto dire.

Non tutte le rapine riescono.

Siamo stati arrestati dalla ragione, dalla noia, dalle tue debolezze e dalle mie paure.

Per un bottino ridicolo, adesso, rischiamo di perdere la dignità.

Ecco. Io no.

Io ho solo un dubbio, in tutta questa situazione.

Il resto mi è chiaro.

Io non perderò tutto, perchè ho dato tutto.

Non ho dubbi.

Se non uno.

Si dice avvocato o avvocatessa?

 

 

 

 

 

 

 

 

Sassi (mettere e togliere)

C’è come un fastidio, una sensazione di scomodità, un’inezia, una sciocchezza, che mi accompagna da qualche tempo, quando cammino da solo.

Credo abbia a che fare con il mal di mare che mi da questo momento in cui sono sospeso alla fine del mondo che conoscevo.

Sono sospeso su questo confine, fatto di fitti discorsi, pensieri pesanti, sogni infranti, rimpianti e sensi di colpa, una linea chiara, davanti l’abisso.

E’ la fine del mondo che conoscevo. E’, credo, anche la mia fine.

Comunque è un fastidioso, leggero, mal di mare. Una perenne nausea, come se camminassi su qualcosa di traballante, precario, possibilmente molto pericoloso.

Traballo io, quando cammino, quasi fossi sempre ubriaco.

Cosa che succede di frequente, quella di essere ubriaco.

E’ il mio pagare il biglietto per lo spettacolo di restare sospeso alla fine delle mie certezze, il bere. Niente di male. Passerà, come passa tutto.

Convivo con questa nausea fastidiosa, quasi fossi una gravida neo mamma, e in effetti ho anche i brufoli e le gambe gonfie.

Però io partorisco solo rabbia. Tutte le sere. Ho rabbia da vendere, inizio anzi a svendere, insieme a pacchetti di sogni infranti, infantili me lo dico da solo, ma pur sempre infranti. Come specchi crepati, i miei sogni non interessano più a nessuno.

La rabbia è difficile, prende lo stomaco, la testa e il respiro. Accorcia le notti, storpia le giornate.

Dovrà per forza passare, questa gravidanza indesiderata.

Sono incinto di un sogno infranto, partorisco rabbia nata nel plesso di un disturbante silenzio, quello delle mie notti insonni.

Passerà.

Il mio corpo fa qualcosa di diverso. Oltre ad ammalarsi quotidianamente di malattie immaginarie, tanto da non essere più attendibile, il mio corpo resta l’unica cosa che resta in piedi in tutta questa tempesta.

Il mio corpo è una solida montagna, resiste, sfida, combatte la nausea, combatte il disordine, combatte la rabbia.

Il mio corpo è l’ancora di salvezza della mia anima, una lottatrice esanime, che ogni giorno riceve pugnali sempre più precisi. E’ l’ancora di salvezza della mia mente, che fatica a ritrovarsi, che si perde nei ragionamenti, che non riesce a seguire il filo dei discorsi.

Il mio corpo, davanti al baratro, davanti al confine, alza le braccia e mi invita a saltare.

Non abbiamo niente da perdere, mi sussurra, mentre giro nudo per casa.

Non abbiamo niente da perdere, sussurra.

Esageriamo, mi dice.

Lo abbiamo sempre fatto.

Se non gli credo, mi fa correre le dita sulle cicatrici, sulle costole, sul pube, sulle ginocchia. I segni, i ricordi di chi ha esagerato, di chi vorrebbe continuare a esagerare.

Saltiamo, sarà un’altra vita, ma non sarà mai come rimanere sospesi, nauseabondi, in questo inferno di indecisione e noia.

E’ in questo momento, sempre, che bevo.

Per mettere a tacere il corpo.

Vino, bianco, rosso, birra, quello che trovo.

Scrivo cose, che poi butto. Bevendo.

Fino a quando anche il corpo si arrende.

E inizio a vomitare rabbia.

 

Nottetempo (il Senso Del Pianto)

Ultimamente dormo male. Dormo poco, e male. Succede. Immagino la vita come un libro, scritto fitto fitto, magari, con la copertina flessibile, le pagine bianche, ancora da scrivere, che puzzano di carta, quell’odore stupendo. Immagino queste notti, questi periodi, come parentesi graffe, tra un capitolo e l’altro, con il bianco della pagina e niente più.

La dottoressa mi guarda sospettosamente, fa caldo, lo studio è accogliente, ma è pur sempre uno studio medico, con quel vago odore di disinfettante che mi porta sempre a ricordi odiosi. Le racconto delle mie notti, del mio piangere, senza ragione, in mezzo alla strada, o mentre guido. Scrive fitta fitta al computer, e nel frattempo mi racconta cosa è il pianto nella tradizione della medicina cinese e nella psicologia moderna.

Stampa un foglio, lo firma con la sua penna dorata e me lo gira sul tavolo.

Io a parlare di quando piango, mi sento di dover piangere. Funziono così, in questo periodo. Parentesi graffe, in mezzo carta bianca, bagnata dalle lacrime. Niente di preoccupante.

Ha scritto che sono depresso. Lievemente, dice con quella voce rassicurante che ha sempre avuto, anche quando mi ha detto che il mio rene stava andando a puttane, trascinando il cuore e probabilmente anche me in una situazione di merda.

Non mi fido di questa voce. Ma ho fretta di uscire, perchè devo piangere.

Ho sviluppato un senso apposta, il senso del pianto. Tatto, olfatto, gusto, vista, udito e pianto. Il sesto senso, quello bagnato.

Non mi spaventano le parentesi graffe. Il mio libro è scritto abbastanza bene, ci sono dentro parecchie storie divertenti, qualche pagina triste, ma tutto sommato è un bel libro.

Per forza, lo ho scritto io.

Ci sono delle parti bianche.

Mi sveglio di notte, normalmente verso le quattro. Sento il cuore esplodermi in gola. Appena sotto alla trachea. E scoppio a piangere. Le prime volte mi sono anche spaventato. Siamo deboli di cuore, in famiglia. Abbiamo un cuore grande, in famiglia. Per quello che è debole. Lo usiamo troppo. Poi mi sono abituato.

Mi alzo, cammino verso la cucina, accendo la luce, apro la finestra. Guardo fuori. La città alle 4 è un posto mistico. O forse ho solo gli occhi terribilmente stanchi. Bevo acqua, osservando sul tavolo della cucina le medicine che la dottoressa mi ha dato. Benzodiazepine e serotonina. Scatole azzurre, grandi pilloloni. Le ho comprate subito, facendo quello che mi rassicura di più: seguendo quello che dice un dottore. Poi ho letto il bugiardino. E le ho lasciate sul tavolo.

Ho scritto tutto questo libro andando via spedito. Nelle parentesi graffe ci ho messo il vino per sedare le lacrime. Ha funzionato, fino ad oggi. Non vedo perchè dovrei cambiare.

Però bevo poco. Rido pochissimo e bevo pochissimo, in questi giorni, a dirla tutta.

Scrivo ancora meno. Non ballo, non canto, non vado in skate, ricordo a malapena l’ultima nuotata che ho fatto.

Insomma, prima di arrivare a dover aprire una di quelle scatole invitanti piene di merdate chimiche, ho una lista di cose da fare.

Se non mi torna il sonno, esco.

Ieri notte è andata così.

Cammino.

Non incontro nessuno, penso poco, seguo solamente i miei passi, osservando il buio dell’asfalto che confonde le ombre dei miei piedi, i negozi chiusi, le macchine parcheggiate.

Esco con le chiavi di casa, nient’altro.

Cammino fino a quando ne ho voglia.

Credo sia una terapia sufficientemente efficace. Torno a casa con la luce, mi rimetto a letto, dormo un’ora, poi mi alzo.

Mi rincorrono pensieri assurdi, mentre cammino.

L’altra notte mi si sono seduti a fianco, con i piedi a penzoloni sul ponte dell’Ortica. Guardavamo insieme la ferrovia. Una cosa romantica, ho detto, sottovoce.

  • Cosa? hanno risposto.
  • Guardare la ferrovia, a Milano. C’è anche stato un periodo in cui portavo le ragazze sul ponte di Corso Lodi, sugli scalini di marmo, a limonare.
  • Lodevole. Ma fallimentare.
  • In effetti, se siamo qui insieme, non ha funzionato molto.
  • Bene, meno male che te lo dici da solo.
  • Sono schizofrenico? Cioè io e voi siamo la stessa persona?
  • Siamo pensieri assurdi, così ci definisci. E con te vorremmo avere a che fare il meno possibile.
  • Sono le 4.34, non sarebbe il caso ci dormissimo sopra e ne parlassimo tutti insieme domattina?
  • Odio questa tua cosa di voler programmare tutto. Anche i lutti e le emozioni. Piangi un po’, ne hai voglia?
  • Mi ero imposto di non piangere, almeno di notte.
  • Fai un’eccezione.
  • Ok.
  • Dio Santo. Piangi come un bambino scemo.
  • Difatti lo faccio da solo perchè non è bellissimo da vedere.
  • Torniamo a casa, è deprimente vederti piangere.
  • venite a casa con me?
  • Ovviamente!
  • Speravo ci potessimo salutare qui
  • Nah, dobbiamo ancora restare

Allora sono tornato a casa, ho aperto il computer e mi sono messo a scrivere. Ho scritto fino al mattino. Ininterrottamente. Ho fatto il caffè, ho mangiato delle uova con dei biscotti, e ho cancellato tutto.

Poi ho sfiorato un soprammobile. Roba che volevo eliminare prima di Natale, e che mi ritrovo in casa.

Ecco, non sto togliendo cose. Che dovrei togliere.

Limare, a fondo, lavorare per togliere.

Dovrei fare solo quello.

E’ che sono così stanco.

Niente di preoccupante. Il senso del pianto è un senso tutto nuovo.

Basta solo capirlo, dopo averlo scoperto.

E vivere tra due parentesi è una cosa che sappiamo fare. Io e il senso del pianto.

 

 

 

Senti

Senti, te lo dico per correttezza. Ho difficoltà a vivere i sogni, quelli che ci metti una vita a realizzarli, quelli che li costruisci un passo alla volta, che poi quando si avverano ti brillano gli occhi. Ho vissuto incubi fatti di città, ricordi, odori, dolori, ho visto morire uomini e donne, ho visto morire l’amore, forse gli ho sparato io, ma sai, nella concitazione non saprei dirti adesso, sono comunque coinvolto, magari non colpevole, ma coinvolto.

I sogni non funzionano mai troppo bene, è la carburazione.

Io so far funzionare bene le catastrofi, quelle che durano una vita. Sono sogni anche quelli, dicono gli uomini con le cicatrici, agli uomini con i lividi. Valgono la mia pelle, dicono gli uomini con le cicatrici, le catastrofi stupende e dolorose.

Senti, non so cosa tu abbia immaginato, guardandomi chiudere gli occhi mentre mi baci.

Io avevo l’idea di poterlo fare per sempre.

E so cosa significa, questa cosa del per sempre.

Il mio sempre è fatto dei miei giorni. Barcollano, le mie mattine, e le serate vanno a fondo nel mare della vita.

Ho deluso un’intera generazione di donne, è un mio piccolo primato. Mi interessa poco di continuare a farlo, avevo anzi l’idea opposta.

L’idea di continuare, andare avanti, sperare, credere, vivere.

Nonostante tutto.

Senti, io sono anche uno che ha moltissima pazienza. E’ una cosa di famiglia. Viene dal padre di mio padre. Durante la guerra si nascondeva in una cassapanca di noce, fumando sigarette senza filtro, per evitare i rastrellamenti. Ecco, di famiglia, noi ci nascondiamo male davanti alla vita. Però ci siamo, noi e le nostre sigarette senza filtro, quando meno te lo aspetti. Ci siamo. Esserci è il nostro grande pregio.

Più è pericolosa la vita, più è certo il naufragio, più troverai uno di noi, più troverai me.

Pronto, fermo, con la mia sigaretta, ad aspettarti.

Quello intendevo io.

Forse mi sono spiegato male.

Non vendo più sogni. Non riuscivo ad accenderli, la gente poi non ci credeva, e me li rendeva, pieni di rabbia e parole che si dicono in queste occasioni.

Mi sono stufato.  Uno si stufa, quando non riesce a fare le cose. Comprensibile.

E adesso, senti, io avevo questa idea, di scegliere te, tu come sei fatta, con la tua realtà, tesa come la tua pancia, le tue mani, che cercano sempre di fare qualcosa. E lo stavo facendo al mio meglio.

Senti, del resto mi interessa poco. Le cose divertenti, come l’estate con il profumo di gelsomino mentre attraverso la periferia di notte, come l’odore di casa, come il freddo del mattino, insomma le cose divertenti mi piacerebbe tenerle per noi.

Deluderemo un sacco di persone. Sono pronto, perchè lo ho già fatto.

Avremo più da fare che da dire.

Meglio di così non si potrebbe sperare.

Sarà una catastrofe.

Meravigliosa.

Si vive per questo

Persiane chiuse

Mi sorprende la sera, la luce della sera, che quasi il sole si vergogna a calare, il cielo azzurro, terso, il rosa tra i palazzi. Mi sorprende, in fondo, trovarmi sorpreso.

Adoro la nostalgia, il dolore di esser lontani, il desiderio del ritorno. E’ un sentimento che mi appartiene, quasi che abbia guidato i miei viaggi, a volte, quasi che mi abbia portato ad allontanarmi per tornare.

E adoro lo stupore, merce rara, rarissima, colpa di un cervello troppo lucido, di un occhio troppo cinico, di un cuore troppo abituato.

L’estate mi stupisce, per questo adoro l’estate.

Mi piace, di quel mio camminare da scimmione distratto, il fermarmi, in mezzo alla strada, schivando i colori inutili e i rumori superflui, per guardare tra i tetti, il cielo, per annusare, tra le siepi, il gelsomino, per sentire, sulla pelle, il caldo piacevole della sera, dopo tante, troppe, sere fredde, di quell’umido gelido che la mia città mi lascia sulle braccia e sulla faccia.

Sono momenti rarissimi, il mio stupore è un rosario con i grani contati, li ricordo tutti, ne provo nostalgia, ma so di aver davanti ancora grani da contare. Trattengo il respiro, qualsiasi cosa mi stia succedendo, ho imparato a fermarmi, guardare in cielo, ringraziare, per questi rarissimi regali, per questi delicatissimi petali di un fiore che sboccia perchè io possa continuare ad innaffiare il mio vaso, con vino e storie che racconto sempre meno volentieri.

Così, in mezzo alla strada, passata l’ora di cena, quando nessuno è in giro, un po’ perchè è domenica, un po’ perchè è sera, un po’ perchè non c’è nessuna buona ragione per stare in giro, poveri loro, io mi fermo, sorrido, alzo gli occhi al cielo e ringrazio.

Una volta mi è successo in volo, a metà di un interminabile volo, credo sopra qualche paese dimenticato della Russia, quella che sulle cartine è sospesa tra Mosca e il Tibet, per noi che non ne sappiamo nulla di Oriente, di Russia, di Guerre, di freddo, di steppe, di lotta. Mi sono trovato a sorridere, per due ragioni. Ho ricordato lo stupore di qualche ora prima, in una città talmente lontana da casa mia, da poter sembrare tranquillamente una mia nuova casa, e l’incapacità di alzare gli occhi per ringraziare, essendo già in alto in cielo.

Una volta mi è successo guardando delle persiane, chiuse. Verdastre, forse azzurre, una volta. Sul muro sporco, rovinato. Chiuse per il caldo, con i rumori di cucina a bucare il silenzio del vicolo, con gli odori del mare.

E il mio stupore nel ricordarmi di essere stato innamorato follemente. Di questo mio rincorrere, snocciolare questo unico rosario, segreto, ma stupendo.

Bentornata estate.

 

L’ultima volta che ti ho amato

Non posso farci nulla, sento il cuore che mi esplode. Parte dalla testa, dietro all’occhio sinistro, arriva fino alle caviglie, mentre l’aria fredda mi batte in faccia, le guance gelate, il naso che respira a fatica.

Mentre guido perdo il senso delle cose, perdo cognizione di come sto, di cosa vorrei essere, di cosa ho perso, di cosa vorrei. Forse, pensavo, guido per questo. Forse viaggio anche per questo.

La vita mi corregge, ultimamente. Mi spinge, mi strattona, per parlarmi, forse.

Io sbaglio per primo, questo è un pregio. Poi scrivo, oppure rido, oppure bevo. Raramente faccio altro.

Anche così, esattamente così come sono, vado bene. Dice la vita.

Il vento, non saprei se si tratta di Maestrale, o semplice dannato vento di terra, mi sbatte il freddo sulla faccia.
Riesco a fare pensieri corti, brevi, piccoli, immagini, come se mi addormentassi proprio mentre guido.

Sento il cuore che mi esplode.

Ho fatto queste strade milioni di volte. Ho voglia di rifarle ancora. Questo è bene. A momenti la bellezza mi blocca il respiro. Le persiane azzurre, sui mattoni marroni, con il sole, le finestre, ragionevolmente, che guardano tutte il mare. Le palme, il rosmarino. La mia, triste, felicità, che si consola, rotolando verso Sud. Metto insieme pensieri piccoli, naturali. Mi viene facile, poi li dimentico sotto la luna piena, che prova a farsi spazio tra le nuvole.

Io sono quello che dopo le due di notte ragiona meglio sulla vita. Per questo, vado a letto molto prima. Mi piace lasciare in disordine le cose, sperando che il vento in faccia le metta in ordine.

Io sono quello che porta nel cuore due immensi amori. Amo un bambino, a volte lo vorrei ritrovare piccolo, a volte non riesco ad aspettare che cresca. Amo una donna. A volte avrei voluto poterla incontrare prima. A volte vorrei aspettare, per poterla incontrare con calma.

Io sono quello che osserva il passare del tempo, mi danno del cinico. Ma sono un cliente di questo bar, uno dei tanti, che resta a guardare chi entra e chi esce.

Non lasciare che il tempo ti fotta, odiandomi. Questo va detto. Io ho smesso, di farmi fottere dal tempo.

Ogni tanto, ultimamente, mi esplode il cuore. Ma a quanto pare, si può vivere benissimo con le pareti del cuore dipinte di nuovo.

L’importante è decidere bene il colore.

Perchè ogni mattina, bisogna smettere di chiedersi quando sia stata l’ultima volta che hai amato.

E, fidati di me, lo sto facendo adesso, chiederti come si faccia ad amare così tanto!

 

Risposte nelle Nuvole (Maggio)

Maggio arriva, porta pioggia, un po’ di freddo, qualche pomeriggio spettacolare, la speranza dell’estate, la conferma della primavera, le sere che allungano gli artigli nella notte, i sorrisi delle ragazze che si scoprono, i tram che sembrano andare più lenti, gli scrittori che guardano il cielo più spesso, insieme agli innamorati, quasi a cercare risposte nelle nuvole.

Sempre, da quando ho orecchie per sentire, la gente si lamenta del freddo di maggio, delle piogge inaspettate, sempre, da quando ho occhi per vedere, le ragazze scoprono la pelle, i poeti guardano il cielo, i vecchi indugiano sulle panchine, e le sere si allungano speranzose nella notte.

E’ che io maggio me lo ricordo, perchè da quando sono bambino aspetto il mio compleanno, un giorno a metà di maggio, quasi a metà, quasi fosse un inizio, l’inizio di un anno nuovo. Così ricordo tutti i mesi, tutte le volte che la vita mi ha dato maggio. Ricordo la pioggia, quando la gente ormai sperava nel sole, ricordo le sere prima del mio compleanno, il profumo speciale delle mattine del mio compleanno. Il cielo di maggio lo ricordo sempre, le nuvole, io a volte ci ho cercato delle risposte.

In effetti il mio anno, i miei anni, iniziano sempre con il mio compleanno, la sera prima, le sere prima, le sere di fine aprile, i primi giorni di maggio, a guardare il cielo, risposte nelle nuvole, a pensare.

Accarezzo le mie piante, l’aloe, il rosmarino, la lavanda, guardando un punto indefinito nel cielo. Non cerco risposte particolari. Sono solo perplesso della mia menta, un ramoscello prestatomi, morta di stenti nel suo vaso nuovo fiammante, terracotta addirittura.

Io sono un buon punto di partenza, per chi vuole conoscere le storie sulla primavera.

Semplicemente perchè io faccio caso alla primavera, più di altri.

Accendo meno le luci, ad esempio, per godere della luce timida della sera.

Mangio le mele rosse e gialle, quelle di primavera, gonfie, morbide e pesanti.

Conosco il vento di maggio, quello freddo che porta pioggia, da Ovest, e quello che rimugina, come i vecchi al bar, caldo e pigro. Per sentire il vento, giro in moto, in bici, a piedi. Lo faccio per ascoltare la primavera che soffia. Lo faccio per avere meno paura, poi quando arriva l’autunno. La mia faccia, le mie guance, si ricordano di me, di maggio, e mi lasciano passare indenne l’autunno e poi l’inverno.

Non torno in nessun posto in particolare, a maggio. Passo molto del mio tempo viaggiando, è un mese così, è una vita così, adorabile gitano di lusso.

Mi passa la fretta di aver casa, a maggio, adoro restare a guardare il cielo, le donne, i vecchi, i bambini, le macchine, i treni, gli aerei, rimanere in giro, nel senso più fisico del termine, aspettando la notte passeggiando senza una meta.

Ritrovo lo stupore, io a maggio. C’è uno stupore, quello di maggio, che è speciale. Mi trova, mi sorprende, lo stupore di maggio, sul divano, o su una panchina. Non mi lascia pensare a chi sono, chi sono diventato, o come io stia. Mi fa battere il cuore, lo stupore di maggio, a sorpresa. Non chiede conto degli sbagli, non mi fa i complimenti per le cose giuste fatte, non mi chiede se sono felice, lo stupore di maggio è come il cielo con le nuvole di passaggio. Cerchi risposte in un posto che fa domande, un posto di pace e silenzio, ma senza risposte.

Mi commuove, lo stupore di maggio. Perchè mi regala, ogni anno, un nuovo anno, tutto quello che significa un anno nuovo, qualsiasi cosa significhi un anno nuovo, mi regala il tempo per rifare tutto da capo, per ricominciare.

Una chance, nelle nuvole di maggio, che conosco solo io, che sono diventato, con il tempo, abbastanza bravo a leggere le nuvole e i tramonti.

Ad interpretarne i segni, le crepe, i destini che si incrociano.

Maggio è troppo breve per smettere di bere e di fumare, ad esempio.

E le storie che leggi nelle nuvole insieme a me, non permettono di smettere di bere, anzi consigliano di lasciarsi portare dal vino, novello come la primavera che arriva alla sua fine.

Maggio, lo stupore di maggio, le nuvole di maggio, e io che resto ad accarezzare il rosmarino quasi fosse un gatto, sul balcone, mentre arriva la sera, arriva la notte, e non mi risolvono, non lo stupore, nemmeno le nuvole, il dubbio se sia meglio rinascere ogni anno, come fossi un fenice, molto acciaccata, ma pur sempre una fenice, o come tutti fanno, sia meglio diventare alti scaffali, pieni zeppi di ricordi, molti dei quali completamente inutili.

Accarezzando il rosmarino, annuso l’odore, mi ricorda il mare.

Sono ancora qui, è ancora maggio. Questo andrebbe festeggiato per tutto il mese.

Altro che cazzate.

Questo blog compie 13 anni, tra qualche giorno. E’ in piena adolescenza. Io, tra qualche giorno, credo di compierne 38. Mi sento come se ne dovessi compiere 24. Il mio rene sinistro e il mio cuore, l’unico non quello sinistro, se ne sentono 48. La mia testa non ne vuole sapere. I miei piedi hanno ansia di camminare, le mie mani di toccare.

Io di scrivere.

Accarezzando rosmarini non si cambia il mondo, questo lo ammetto.

Ma si leggono le nuvole.

Ho voglia di scrivere ancora qualche storia, e di conseguenza di viverne ancora, di storie da scrivere. Questo è un bene, viste le cicatrici che mi porto in giro.

E ho voglia di festeggiare, come fossi sopravvissuto, a un paio di anni tremendi, come se avessi capito che non si tratta di nulla di speciale, anzi.

L’avevo letto nelle nuvole di maggio che sarebbe stato un periodo particolare.

Festeggiami.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Casa

Cammino un po’ stranito per casa, piastrelle fredde, angoli d’ombra, ho sempre odiato la luce scarsa di questo posto, sempre, dalla prima visita, dodici anni fa.

Avevo notato la luce, scarsa, infima, e una bottiglia di vino del Duce messa in soggiorno in bella vista, quasi fosse un trofeo.

Al freddo non ci si abitua mai, al freddo di Milano meno che meno. E’ un freddo spettrale, deciso, infame, umido e sordo alle implorazioni delle coperte.

Mi sento ospite di questo posto, da quando lo abito. Come se fosse di passaggio. Un passaggio lungo, alla fine, ma pur sempre un passaggio.

Sono due anni fra qualche giorno, settecento giorni, cento settimane, che ho deciso di togliere, tagliare, spogliare.

Ho tolto, sto togliendo, toglierò, cose inutili che sembravano indispensabili, cose stupide che sembravano intelligenti. Ho iniziato dalle opinioni della gente, le ho lasciate cadere come vestiti davanti al mare, un mare caldo e pacato, il mare del tramonto.

Ho continuato togliendo persone, poi oggetti, poi qualche ricordo.

Meno hai, più hai.

E’ davvero successo questo. Mi muovo leggero, in vestiti che uso come strumenti, che non sento miei, in scarpe che mi aiutano a camminare, delle quali non mi interesso, dentro una macchina che non è mia. La moto quella no. Quella è mia. Una delle poche cose che amo possedere.

Ho libri, li tengo per sfogliarli ancora. Li sfioro, ricordando le storie che mi hanno raccontato, come fossero cassetti di un armadio, la mia memoria, pieno zeppo di ricordi. Ho i fogli su cui ho scritto le mie cose. Un copione teatrale, poesie, racconti, inizi di romanzi impossibili da continuare. C’è anche un finale, stupendo e struggente, che da anni aspetta che io scriva il suo inizio. Potrei pubblicarlo così.

Ho smesso di desiderare le cose degli altri, le donne degli altri, la merda degli altri.

Mi è rimasta questa casa, molto in questo ultimo anno mi è stato portato via.

Sembrava mi volessero portare via tutto. Non ho reagito, perchè non ho avuto modo di farlo, sembrava volessero spogliarmi di tutto, tutte le cose possibili, tutte le cose che capitavano a tiro, in una furia assassina, macabro epilogo di nozze festanti.

Non ho perso nulla, eppure ho perso molto.

Mi è rimasta questa casa, le sue mura, spogliate di quadri e ricordi.

I suoi mobili, piegati dall’umidità, i suoi colori, le sue crepe nei muri, i rumori che conosco bene e che non mi svegliano più di notte.

Mi è rimasta questa casa, ai bordi della città. Adoravo la sua comodità, quando viaggiavo tanto. Ne adoravo l’odore in primavera, entrava il gelsomino, entravano tutti gli odori, in un orgia di profumi d’erba e giardini impossibile a Milano.

Mi è rimasta solo questa casa.

Ma non è casa mia.

Sono ospite in un albergo silenzioso e abbandonato.

Lo ho capito tardi, ormai era comprata, impegnando la vita, divisa per mesi, per rate e per interessi, per pagarla.

Lo ho capito tardi che non ho bisogno di una casa.

Io abito nel cuore di chi mi ama, metto le mie cose importanti lì.

Adoro non possedere nulla, se non il cuore di chi mi ama.

Adoro disinteressarmi delle cose materiali, facendomi distrarre dal rumore del cuore che batte per me.

La mia casa, quella vera, è uno scoglio sul mare, sulla punta più estrema della costa di Levante, un posto sconsigliato a donne, artisti, bambini, giocolieri dei sentimenti e deboli di cuore.

Ci sono stati soldati, pirati, emarginati, pescatori, uomini soli, un gatto storpio e sporco, aghi di pino, un fico d’india, rosmarino e lavanda.

Io abito lì. E’ li che torno, quando posso.

E sto a casa.

Mi spoglio nudo, nudo entro nel mare, nudo ne esco.

La casa, questa casa ai bordi della città, non mi appartiene. Eppure lotto per possederla, quasi fosse un moto d’orgoglio.

Mi proteggo, penso a quando sarò vecchio, immaginando un futuro in queste mura.

Un futuro che non sarà così.

E più ci penso, più mi sento ospite.

Cammino sulle piastrelle fredde, gelide, osservando i mobili, cercando di ricordare qualcosa. Ma è come se fossi appena arrivato.

Un ospite nuovo.

Guardo i miei quaderni.

E’ tanto tempo che non scrivo.

Una decisione importante.

Sto cullando pensieri, godendo della inaspettata felicità delle cose, allontanando i venti di tempesta, navigando sottocosta.

Nelle bottiglie che trovo sulle spiagge in cui mi fermo, non ci sono messaggi.

Allora continuo a navigare.

Sono felice, ospite scomodo ma felice.

E non scrivo, ma so che, come l’inverno, passerà.

Prometto di tornare.

 

Elia

Aveva baffi gialli, troppe sigarette, troppo tempo passato ad aspettare, occhi lucidi, come quasi dovesse, perennemente, scoppiare in un pianto di disperazione, o forse di liberazione.

Aveva mani grandi, nodose, che tradivano il lavoro che faceva, quasi di nascosto, per tenere vivo un vecchio oleandro rosa, che puntuale, per ringraziare, fioriva ad agosto, in ritardo, ma puntuale appunto.

Aveva ricordi ingombranti, che spezzavano il fiato a chi tentava di raccontarli, lo sapeva per esperienza. Per questo aveva smesso. Si era avvicinato a quella terra che più di tutte aveva immaginato come essere un buon posto per invecchiare, aveva preso casa alla fine della pineta, vicino alle saline. Dalla cucina vedeva il mare, appena dopo le case, ma non ne sentiva il rumore. Dal bagno vedeva l’autostrada, alla fine delle saline, ma non ne sentiva l’odore.

Aveva preso una bicicletta, ruggine e vernice rovinata. Teneva pulita la canna, avesse mai avuto occasione, si diceva, di portarci ancora qualcuno. Per il resto, si limitava a nasconderla, quasi fosse un tesoro, quando andava a fare il bagno di notte, o quando andava in paese, alla foce del fiume, per comprare del pane, pomodori, sale, basilico, latte e uova.

Elia, a chi chiedeva il suo nome, rispondeva dicendo di chiamarsi Elia. Andava bene ad entrambe le parti, visto che nessuno si era lamentato.

Non ricordava più come si chiamava.

Falso. Lo ricordava benissimo, semplicemente non voleva più sentirlo pronunciare.

Aveva trovato un lavoro, aggiustava le sedie di vimini dei ristoranti e dei bar.

Uno pensa che il vimini intrecciato sia qualcosa di inviolabile, come l’acciaio.

Senza sapere che esistono uomini che lo curano, come qualcosa di prezioso, quotidianamente.

Aveva trovato molte donne, aggiustando le sedie di vimini dei ristoranti e dei bar.

Uno pensa che i matrimoni siano più al sicuro nei paesi, inviolabili come l’acciaio, altro che le grandi città.

Senza sapere che esistono uomini che li curano, i matrimoni, rendendoli preziosi, nascosti tra le capanne dei pescatori, rubando mutandine tra i pini, mescolando baci alle spalle della spiaggia.

Era riuscito a scomparire, senza dover per forza sfidare la morte. Era un pensiero, quello di dover scomparire, e quello di poterlo fare solo morendo, che era nato in Asia. Terre senza confini, caldo, mosche, spezie, fiumi gialli e stagnanti, anime pellegrine, notti che sembrano giorni, rumori, e l’idea, strana di nascondersi.

Morire.

Morendo.

No.

Niente di stupefacente, doloroso, drammatico. Nessuna scenografia, nessun piano definito. Semplicemente togliere dei pezzi. Come pedine di dama.

Non tutti necessari.

Toglierli, lasciarli morire.

Rimanere solo.

Aveva passato anni, viaggiando, lasciandosi cullare dall’idea. Aveva vissuto interi anni, lasciando il germoglio del dubbio, innaffiandolo con la costanza del pensiero, vivendo insieme a tutti gli altri.

Poi aveva deciso di farlo.

Rendendosi conto che niente era davvero cambiato.

Semplicemente, alzandosi, aprendo le finestre, all’alba, osservando il sole spuntare dalle saline insieme agli aironi, ecco, semplicemente in quel momento, capendo di aver fatto la cosa giusta.

Potersi togliere lo sfizio di non ascoltare, che fossero vecchi che bestemmiano mentre giocano a carte, o uomini e donne distrutti dai problemi.

Potersi togliere lo sfizio di indossare, comunemente, vestiti blu.

Il colore del mare, degli occhi della donna che ama, del cielo.

Potersi togliere lo sfizio di lasciar passare le tempeste, che impetuose, passavano nella sua testa.

Elia, lo chiamavano.

 

 

 

Ridisegnare (E’ la scienza!)

A volte è un pensiero così leggero, che quasi ti viene voglia di cantarlo sottovoce, aprendo le finestre.

Ho lavato i vetri.

Per vedere meglio la luce, dico io.

Ogni singolo passo, ogni misero passo avanti, piccoli passi, intendiamoci, mi costa conseguenze inimmaginabili.

Allora mi siedo, sempre davanti alla finestra aperta. Ascolto il fresco del mattino, mi sveglio sempre prima, vado a letto sempre più tardi, coltivo occhiaie come solchi nella terra, fatti per seminare, solo che non so bene cosa stanno seminando i miei occhi.

Mi siedo, dicevo, e provo a capire.

Non pensavo fossero così noiosi da pulire i vetri. Eppure è un gesto così nobile. Trovo le pulizie, il pulire, il prendersi cura degli oggetti, un gesto nobile, un armonico intendersi tra te, corpo, viscere, cervello, carne, tendini, sangue, e gli oggetti, legno, acciaio, alluminio, ceramica, colla, intonaco.

Allora pulisco volentieri.

Ma elimino, ogni volta, qualche oggetto.

Butto via le cose inutili, e di colpo la lista delle cose utili diventa sottile, servivano fogli, memoria e inchiostro, serve sempre meno.

Ho un obbiettivo, fare che questa lista non occupi più dello spazio di un fazzoletto.

Ah, ho buttato anche i fazzoletti di stoffa.

Piango sempre meno, non mi servono i fazzoletti, non mi servono le spalle di donne misteriosamente consolatorie, non mi servono cuscini da stringere.

Cosa mi tiene, cosa diavolo mi lega?

Perchè i miei passi sono così lenti?

Perchè faccio così tanta fatica?

Ho anche imparato, mentre pulivo i vetri, a farmi le domande aspettando almeno di rispondermi. Insomma sono diventato educato con me stesso.

C’è una bellezza intima, piccola, domestica, come le fiamme delle candele, debole ma costante, nelle domande che aspettano risposte.

Sto diventando paziente.

Sto diventando uomo.

E’ dovuto succedere tutto. Tutto è successo.

Perchè io potessi vedere questa bellezza.

Potessi berne, dissetarmi.

Viverla.

 

Insomma, scrivo pochissimo, perchè quando dovrei scrivere mi trovo davanti alla finestra aperta e mi paralizzo.

 

Insomma, non tornerei indietro per niente al mondo. E porto con me sempre meno cose.

Ho smesso di difendermi.

Non vedo l’ora che questa aria fresca porti tutta la sua vita.

Ciao