Nottetempo (il Senso Del Pianto)

Ultimamente dormo male. Dormo poco, e male. Succede. Immagino la vita come un libro, scritto fitto fitto, magari, con la copertina flessibile, le pagine bianche, ancora da scrivere, che puzzano di carta, quell’odore stupendo. Immagino queste notti, questi periodi, come parentesi graffe, tra un capitolo e l’altro, con il bianco della pagina e niente più.

La dottoressa mi guarda sospettosamente, fa caldo, lo studio è accogliente, ma è pur sempre uno studio medico, con quel vago odore di disinfettante che mi porta sempre a ricordi odiosi. Le racconto delle mie notti, del mio piangere, senza ragione, in mezzo alla strada, o mentre guido. Scrive fitta fitta al computer, e nel frattempo mi racconta cosa è il pianto nella tradizione della medicina cinese e nella psicologia moderna.

Stampa un foglio, lo firma con la sua penna dorata e me lo gira sul tavolo.

Io a parlare di quando piango, mi sento di dover piangere. Funziono così, in questo periodo. Parentesi graffe, in mezzo carta bianca, bagnata dalle lacrime. Niente di preoccupante.

Ha scritto che sono depresso. Lievemente, dice con quella voce rassicurante che ha sempre avuto, anche quando mi ha detto che il mio rene stava andando a puttane, trascinando il cuore e probabilmente anche me in una situazione di merda.

Non mi fido di questa voce. Ma ho fretta di uscire, perchè devo piangere.

Ho sviluppato un senso apposta, il senso del pianto. Tatto, olfatto, gusto, vista, udito e pianto. Il sesto senso, quello bagnato.

Non mi spaventano le parentesi graffe. Il mio libro è scritto abbastanza bene, ci sono dentro parecchie storie divertenti, qualche pagina triste, ma tutto sommato è un bel libro.

Per forza, lo ho scritto io.

Ci sono delle parti bianche.

Mi sveglio di notte, normalmente verso le quattro. Sento il cuore esplodermi in gola. Appena sotto alla trachea. E scoppio a piangere. Le prime volte mi sono anche spaventato. Siamo deboli di cuore, in famiglia. Abbiamo un cuore grande, in famiglia. Per quello che è debole. Lo usiamo troppo. Poi mi sono abituato.

Mi alzo, cammino verso la cucina, accendo la luce, apro la finestra. Guardo fuori. La città alle 4 è un posto mistico. O forse ho solo gli occhi terribilmente stanchi. Bevo acqua, osservando sul tavolo della cucina le medicine che la dottoressa mi ha dato. Benzodiazepine e serotonina. Scatole azzurre, grandi pilloloni. Le ho comprate subito, facendo quello che mi rassicura di più: seguendo quello che dice un dottore. Poi ho letto il bugiardino. E le ho lasciate sul tavolo.

Ho scritto tutto questo libro andando via spedito. Nelle parentesi graffe ci ho messo il vino per sedare le lacrime. Ha funzionato, fino ad oggi. Non vedo perchè dovrei cambiare.

Però bevo poco. Rido pochissimo e bevo pochissimo, in questi giorni, a dirla tutta.

Scrivo ancora meno. Non ballo, non canto, non vado in skate, ricordo a malapena l’ultima nuotata che ho fatto.

Insomma, prima di arrivare a dover aprire una di quelle scatole invitanti piene di merdate chimiche, ho una lista di cose da fare.

Se non mi torna il sonno, esco.

Ieri notte è andata così.

Cammino.

Non incontro nessuno, penso poco, seguo solamente i miei passi, osservando il buio dell’asfalto che confonde le ombre dei miei piedi, i negozi chiusi, le macchine parcheggiate.

Esco con le chiavi di casa, nient’altro.

Cammino fino a quando ne ho voglia.

Credo sia una terapia sufficientemente efficace. Torno a casa con la luce, mi rimetto a letto, dormo un’ora, poi mi alzo.

Mi rincorrono pensieri assurdi, mentre cammino.

L’altra notte mi si sono seduti a fianco, con i piedi a penzoloni sul ponte dell’Ortica. Guardavamo insieme la ferrovia. Una cosa romantica, ho detto, sottovoce.

  • Cosa? hanno risposto.
  • Guardare la ferrovia, a Milano. C’è anche stato un periodo in cui portavo le ragazze sul ponte di Corso Lodi, sugli scalini di marmo, a limonare.
  • Lodevole. Ma fallimentare.
  • In effetti, se siamo qui insieme, non ha funzionato molto.
  • Bene, meno male che te lo dici da solo.
  • Sono schizofrenico? Cioè io e voi siamo la stessa persona?
  • Siamo pensieri assurdi, così ci definisci. E con te vorremmo avere a che fare il meno possibile.
  • Sono le 4.34, non sarebbe il caso ci dormissimo sopra e ne parlassimo tutti insieme domattina?
  • Odio questa tua cosa di voler programmare tutto. Anche i lutti e le emozioni. Piangi un po’, ne hai voglia?
  • Mi ero imposto di non piangere, almeno di notte.
  • Fai un’eccezione.
  • Ok.
  • Dio Santo. Piangi come un bambino scemo.
  • Difatti lo faccio da solo perchè non è bellissimo da vedere.
  • Torniamo a casa, è deprimente vederti piangere.
  • venite a casa con me?
  • Ovviamente!
  • Speravo ci potessimo salutare qui
  • Nah, dobbiamo ancora restare

Allora sono tornato a casa, ho aperto il computer e mi sono messo a scrivere. Ho scritto fino al mattino. Ininterrottamente. Ho fatto il caffè, ho mangiato delle uova con dei biscotti, e ho cancellato tutto.

Poi ho sfiorato un soprammobile. Roba che volevo eliminare prima di Natale, e che mi ritrovo in casa.

Ecco, non sto togliendo cose. Che dovrei togliere.

Limare, a fondo, lavorare per togliere.

Dovrei fare solo quello.

E’ che sono così stanco.

Niente di preoccupante. Il senso del pianto è un senso tutto nuovo.

Basta solo capirlo, dopo averlo scoperto.

E vivere tra due parentesi è una cosa che sappiamo fare. Io e il senso del pianto.

 

 

 

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