Niente di speciale

Ho fatto una lista, giocando per ingannare il tempo seduto su una canoa gialla in mezzo al mare. Ora, è una lista delle cose che sogno e che devo fare urgentemente, e delle cose di cui ho paura davvero. La buona notizia è che sono tornato, insieme alla mia canoa gialla, nonostante il mare grosso, nonostante la lista. E che ho una lista di cose che sogno.
Come faccio a iniziare, se non parlandovi di Monsieur Claude De Billenu. Claude è un nobile signore del secolo scorso, di cui ho sentito la storia mentre ero in un castello in Provenza, qualche estate fa. Ha passato la sua vita a disegnare ancore, ancore quelle per ancorare le barche. Era fissato con il trovare l'ancora perfetta. Niente di speciale. È morto poi nella sua terra, tra il mare e le colline. E hanno trovato una lista. Si chiamava: le cose che voglio fare per morire felice. Ora, a livello nautico non è poi riuscito a inventare nulla di considerevole, lasciando ai posteri solo moltissimi fogli e disegni e qualche calco in bronzo di improbabili ancore. Ma la lista era tutta spuntata. Punto per punto. Uno si segna delle cose da fare per morire felice e prima di morire le spunta tutte.
Niente di speciale, solo la perfezione.
Io di ancore non me ne intendo, son bravo a ormeggiare, che siano grandi o piccole imbarcazioni, sugli scogli. E sono bravo a far liste. Mi piace, mi danno sicurezza. Forse chiarezza. Ognuno ha i suoi modi di far ordine nella vita. Io lo faccio lista dopo lista. Non è detto che poi le mie liste io le prende troppo sul serio. Però mi danno ordine. Mi fanno pentire meno di tutto il vino bevuto scrivendo. Mi fanno stare più a posto, più vicino alla pancia del mondo, che è dove succedono le cose.
Mi innamoro delle liste, faccio liste quando sono innamorato, le liste, insomma hanno a che fare con me e l'amore.
Ho trovato superfluo remare controvento, contro le onde, per rimanere fermo. Ho deciso di rimanere fermo, facendo una lista.
Una lista di cose che devo fare urgentemente.
Ad esempio metter le mani sul mio scrivere di notte. Che forse è più comodo scrivere di giorno. E poi sull'amore, che in fondo forse ne voglio un po' anche io. Sulla paura di crescere, che crescere ormai siamo anche cresciuti, anzi qui si sta scollinando. E poi sul fatto che odio dormire con qualcuno, forse mi ci dovrò abituare. Sul prendere due gatti, pur odiando i gatti. Sulle distanze che mi separano dai posti dove sto bene e dalle persone che amo, che forse andrebbero accorciate.
Poi sono finito, una volta tornato con la mia canoa gialla, in una chiesa, assorbito dal caldo umido e dal pavimento. Ho paura di annegare nella mia fede io, mica nel mare. È agitata e insidiosa, la mia fede. Come il mare.
E appena dopo, sono finito a bere vino bianco.
Con il tramonto.
Dio, a volte la mia felicità è così scontata che mi fa paura.
Eppure è tutto qui.
L'amore mi fa dimagrire, e mi fa perdere vitamine e sudore. L'odio non mi appartiene.
Io, esattamente, vorrei solo bruciare ancora, nel pieno di una notte, in mezzo a una notte qualsiasi, come si bruciava quando volevamo cambiare il mondo. Forse poi, devo ammetterlo, di cambiare il mondo, tolta la quarta liceo, non me ne è mai sbattuto un cazzo. Però bruciavo. Bruciavo davvero.
Possiamo essere molto di meglio, mi son detto scendendo dalla canoa.
Possiamo essere molto di più, mi son detto dentro alla chiesa.
Possiamo davvero farlo, mi son detto bevendo vino nel tramonto.
Vedi, c'è gente che mette nella lista dei sogni l'Australia, oppure una macchina, o dei bambini e dei Labrador.
Io no. Che poi lo sanno tutti che i Labrador invecchiando ingrassano. Brutti.
Io no.
Io, ho fatto la lista più breve della storia, in mezzo al mare.
Io voglio essere di più.
Voglio tornare a bruciare.
Consumarmi.
Come una candela.
Le candele si accendono per buone ragioni.
Bruciare. Come una candela. Sogno questo. Consumarmi di vita, di amore, di situazioni ragionevoli o improbabili, di scriverne di notte. Voglio fidarmi dei disperati che hanno vissuto, non di chi si dispera di non aver vissuto e dispensa consigli.
Voglio essere libero e sprovveduto, vivo e vissuto, ma non incompiuto.
Il tempo, remando contro le onde lo ho capito, vince sempre. Un po' come il mare, contro il mio cazzo di remo. È una sfida impari. Ho anche scritto qualcosa, qualche tempo fa, su questa cosa. Ma mi ero dimenticato una cosa importante.
Che quando scrivo mi dimentico sempre le cose importanti.
Una cosa importante. Bruciare. Voglio solo bruciare, ed è impossibile che io cambi.
Bruciare come chi non ha paura di farlo. Credo, dovrei studiarlo, che le candele non abbiano paura. Credo che gli uomini e le donne, andando avanti, perdano la loro partita con il tempo, avendo sempre più paura di bruciare, e meno voglia di farlo. Forse, è così che si perde la partita contro il tempo.
E niente. Di tutta questa lista, mi è rimasto che voglio bruciare.
E che l'unica cosa di cui ho paura davvero è di non riuscire a farlo.
La lista più breve della mia vita.
Non ho voglia di storie irrisolte, di problematici passati che fanno a pugni con insostenibili futuri, non ho voglia di moderazione, perché non sono mai stato moderato, non ho voglia di bere sopra le mie paure, ma voglio brindare alle mie sicurezze, non ho voglia di ragionevolezza, ma di lucida follia, di stanchezza, quasi esasperazione, di scarpe sporche di prati attraversati senza una ragione, di vestiti bagnati da tuffi improvvisi, di soci, non amici, di soci, complici di una rapina, la rapina migliore, quella contro il tempo.
Ho voglia di uomini e donne al mio fianco che sappiano di questa lucida follia, che anzi mi diano fuoco, con amicizia e amore, che mi guardino bruciare.
Quando poi mi spegnerò, succederà, vorrei che fossero loro a brindare ricordando quanto io abbia bruciato.
Una lista così.

Niente di speciale.

La spunterò, questa lista. È un punto solo. Una lista che sembra una promessa.

Canzone delle Acque Blu

Una canzone, è facile come una poesia. È facile da scrivere, come le poesie. Meno da leggere, o da cantare, addirittura.
Per questo scrivo racconti, la poesia, è arte superiore. Vuole, la poesia, una musa. Una ragione, un perchè.
La canzone, almeno, é più ignorante. Vuole solo il ritmo e un sognatore, un cantante, si direbbe, a cantarla. Poi la musica, uno può deciderla anche al momento.
Ecco, la musica io non la ho ancora decisa. Ma per dignità, solo per quella, ho pensato di scrivere una canzone. Che le poesie, tra Muse e metriche ostiche, non ne vogliamo, per ora.
Così, complice un gabbiano, che ho chiamato Gaetano, che sta su un comignolo, proprio alle spalle di una parabola arrugginita dalla salsedine, ho scritto una canzone. Non ho pretese di cantarla a un grande pubblico, la lascio qui a memoria.

Pieno è il sole, di quando ci alziamo.
Il caldo sulla pelle, le lenzuola ormai bollenti, fresca l'aria del mattino,
( qui manca un pezzo di strofa perchè l'unica rima che mi viene è con pompino, ma credetemi, distrugge la poesia della canzone).

Pieno è il cielo, guardato dal terrazzo, mentre stropicciati dalla notte, facciamo colazione.
Pieno il mattino, pieno il sapore del vento, pieno il silenzio, di una canzone.

Andiamo spediti, soldati affannati, correndo verso il mare, quello del mattino, di acque blu

(Qui ci vorrebbe un ritornello, ma niente, sarà che sono stanco, sarà la salsedine, ma niente).

Piena la vita, di uomini sudati, nel mezzogiorno di caldo bollente,
Piena la vita, di passi strusciati in mezzo alla gente.

Pieno del mare, degli scogli, del vento
( no davvero vuoi fare una rima con contento/Sorrento/ lo siento?)

Non sono capace di dire quando sono felice,
Ma ho imparato a capire quando ringraziare.
E quando ringrazio, guarda caso, c'è sempre di mezzo il mare.

Del rosmarino, dei pini marittimi, del sole e del vento,
(Ancora rime?)

Del pomeriggio, dell'acqua, del vino, del tramonto.

Io sono pieno.

Pieno è meno che felice, secondo voi,
Che insegnate la felicità, in giro.

Pieno per me, è felice, in un modo atroce.
Delizioso, dolce, tremendo, felice. Pieno.

Io sono pieno di cose semplici, che poi puoi trovare nel mare,
A levante, nelle acque blu.

Pieno.

Pieno di cose così, mi sono sentito di scrivere una canzone, che poi ho capito che io sono bravo sui racconti, più che sulle canzoni.
Però sono pieno, che assomiglia, tremendamente a felice.

Allora ho diritto di scrivere una canzone.
Che tanto la canto seduto sul mio terrazzo, a un gabbiano che per dovere di metrica ho chiamato Gaetano, e che suppongo sia completamente indifferente alle mie canzoni. E alla mia felicità

Fottuti gabbiani

Corale (incipit)

Mi stupisco. Dello stupore proprio dei bambini, tanto è vero che io e mio figlio ci fermiamo nello stesso momento, davanti alle stesse cose. Proprio le stesse no, a dirla tutta. Facciamo finta ci venga il fiato corto, per fermarci sulla collina, e guardare il mare, assordati dalle cicale, coperti dal caldo, abbandonati nella pace di chi guardando il mare si sente, in qualche modo, salvo. Ci fermiamo, tra le gallerie della vecchia ferrovia, per ascoltare il ruggito del mare, guardando le pietre nell'acqua trasparente. Ipnotico il movimento del mare, ipnotico il colore, ipnotico il rumore. Infatti restiamo. Centelliniamo le parole, è mio figlio per queste cose, in queste cose si riconosce il padre. In un giorno, le possiamo contare. Ci abbracciamo, ad esempio. Al posto di parlare. Oppure, fermi su uno scoglio prima di saltare, ci accarezziamo la schiena. Mi stupisco di lui, mi stupisco con lui. Insieme ci nutriamo. Iniziamo le nostre giornate su un piccolo terrazzo, al fresco del mattino, mangiando in silenzio. Sono io che chiedo conto dei suoi sogni. Alla fine, è lui che risponde, con storie sempre più belle. Da sperare che le abbia sognate per davvero. Pranziamo sullo stesso terrazzo. Nel caldo di mezzogiorno. È l'ora in cui una signora, dal palazzo di fronte, una casa arancione e bassa, dritta verso il mare, stende il bucato affacciandosi nuda. Tutti i giorni. Io mi stupisco, il Piccolo ride, dei seni bianchi. Restiamo in casa fino a quando non sentiamo la voglia, il bisogno, di salire sulla collina, sudando, di un caldo feroce. E guardiamo giù, l'acqua, il mare profondo e poi più amichevole.
Io resto. Con gli occhi mi fermo, spazio dal Levante fino al Ponente. Non riesco a pensare a nulla. Lascio sulla collina i pensieri peggiori, l'inverno della mia mente, l'inverno della mia felicità, per poi scendere, verso il mare. Facciamo il bagno insieme alla gente, nuotiamo, ormai il Piccolo mi segue, fino alla secca. Godiamo dell'acqua fresca. Dal mare osservo la collina, la gente, la città. Questo posto è casa mia.
Prima di tornare sul terrazzo a cenare, bevo vino, il vino di qui, bianco, acido, solare, freddo. Il Piccolo gioca da solo, con la luce del tramonto.
Ama fare la strada del ritorno da solo, si perde nei vicoli, mentre io cammino tra la gente.
Cucino guardando il terrazzo, il sole che tramonta dentro alla finestra.
Cucino pensando che questa è la medicina migliore.
Alla sera restiamo immobili a guardarci, giochiamo con le parole, con le mani, ci raccontiamo storie. Poi lui crolla, il sonno dei bambini è la beatitudine che vorrei augurare a un amico. Io mi siedo, nel buio del terrazzo. Ascolto il paese. Guardo il cielo. Penso. Dicono che i miei pensieri si sentano fino alla città. Forse è vero. Hanno colori dolci, i miei pensieri. Vengo da un inverno denso. Vengo da dannate emozioni. Ho deciso di rileggere quello che ho scritto e di non scrivere per questo. Quest'anno. A volte piango. Appena. Mi si bagnano gli occhi. Penso all'inverno, alla primavera. Alla dannazione. Resto in silenzio. E penso. Poi, quando ho voglia, vado a prendere un libro. Nuoto nelle storie che leggo. Sto leggendo di un russo, di una guerra. Immagino il freddo. Le barricate. E mi addormento.
Mi stupisco, quando mi sveglio. Di come sia facile addormentarsi.
Nuoto tutto il giorno nei particolari. È la mia dannazione. Vedo sfumature, ascolto discussioni, capisco allusioni, immagino reazioni. Alla sera, lascio uscire tutto.
Incontro persone che guardo negli occhi. Trovo storie, che porto dentro. Le racconterò quando ne avrò voglia.
Mi stupisco di me.
Lo stupore dei bambini, è il dono più grande che non sapevo di avere.
Forse lo avevo dimenticato.
Quasi il mare fosse una medicina.
Poi, leggo. Mi addormento.
Mi sveglio.
E mi stupisco.

Oggi ho incontrato gli occhi di una donna. Ho trovato moltissime storie da raccontare, e pochissima voglia di raccontarmele. Allora le ho offerto da bere. Brindando alle storie che non ha voluto raccontarmi e che io ho visto.

Faccio cose così.

Erano occhi bellissimi. Le storie un po' meno. Ognuno ha le sue storie da portarsi in giro. E io penso che il mare sia un ottimo posto per portare le proprie storie a fare un giro.
Per questo non le ho detto nulla, e ho brindato con un bianco freddo.

Mi sono innamorato.
Di un terrazzo.
Dove poi, mi siedo, solo, nelle stelle, e immagino di mettere tutte le cose insieme.
Mi stupisco ci si possa innamorare di un terrazzo. Ma non è così impossibile.
Come se fosse una trincea, dannata guerra, che protegge dalla rabbia e dal rancore.
Su questo terrazzo crescono piante grasse, che combattono il sole e il caldo, e la compassione. Che è la cosa che più mi stupisce.
Compatire.
Soffrire insieme, capire. Superare.
Tutto, seduti su un terrazzo.

Dove, per dovere di cronaca, si vede anche il mare, la luna, e un cielo da far ordine nelle vite più disordinate

Come la mia

cosa fare in caso di morte

La Camera Mortuaria dell’Istituto Tumori è, ma lo potevo immaginare prima di entrarci, uno di quei posti di merda che ti lasciano una gran voglia di piangere, o di bere, dipende dal momento.

Sono le tre, del pomeriggio, e di bere non se ne parla. Per salvare le apparenze.

Di piangere nemmeno, perchè in fondo sono venuto per ascoltare altri che piangono.

Gianni è sdraiato nella bara, bianco, cadaverico si dice, che poi è vero. Dietro alle orecchie i primi segni di deterioramento del cadavere. Le mani giunte, una polo grigia, la bara di legno lucido, il pizzo, una copertina di pizzo, cazzo.

Piangono tutti, motivo per il quale trovo inopportuno di mettermi a piangere.

Il dolore della morte, è di chi resta.

Gianni lo ho conosciuto appena ho preso casa. Portavamo piccole cose, aspettavamo i mobili, c’era da fare tutta quella serie di pellegrinaggi con buste, scatoloni, eccitazione e gioia. Gianni apriva la porta ogni volta che arrivavamo sul pianerottolo, talmente era poco abituato ad avere dei dirimpettai.

Immaginavo non fosse tutto giusto, ma alla fine era un uomo buono. Tutti, alla fine, sembriamo uomini buoni, a pare qualche stronzo conclamato.

Le figlie lo hanno costretto a una vita da badante, badava a queste due quarantenni, quando loro avrebbero dovuto badare a loro stesse, e lui badare alla briscola e al vino rosso caldo della bocciofila, che è famoso fino quasi in fondo alla città.

A Natale gli portavo del vino, sorrisi e due chiacchiere. Quando ci incontravamo sul ballatoio, capivo tutto il senso della parola. Ballatoio.

Ballavamo in una danza impacciata per chi entrava prima in ascensore.

Lo facevo sorridere, con battute stupide e commenti sul calcio. Io che non ho mai capito un cazzo di calcio, lui che non ha mai capito quanto fosse importante sorride.

Gianni.

L’altro pomeriggio, sabato, rientrando, ho trovato il cartello che avvisava della camera mortuaria. E mi è sembrato così strano, che ho dovuto rileggere il nome due volte. Perchè non ti aspetti che i personaggi secondari della tua vita muoiano. Sei troppo concentrato sui protagonisti, per immaginare che muoiano i personaggi collaterali, quelli che nella trama hanno un ruolo, diciamo, sostituibile.

Se fosse stata Clara, o Giuliana, o Paola, al posto di Gianni, sarebbe stato uguale.

Così dentro la camera mortuaria mi ritrovo a guardare i particolari. Il soffitto altissimo, la luce del sole che entra a spezzoni, perchè fuori è nuvolo. Due candele elettriche, che da sole danno tutta la solitudine della morte, e un crocifisso d’oro con il Cristo senza espressione facciale e senza dettagli. Un fabbro pigro e ateo, si direbbe, l’autore.

Le figlie di Gianni piangono, così anche la moglie. E una serie di vicini di casa. Normale.

Piangerei anche io. Fossi in loro.

Invece mi trovo a fare un discorso sull’importanza di ricordare le cose belle, sulla dolcezza della morte, sulla sofferenza di chi rimane.

Parlo, e smettono di piangere.

Forse sono le prime parole sensate che sentono, da quando sono in questo inferno di burocrazia e candele elettriche brutte.

Alle pareti, scrostate, ci sono dei condizionatori. Deve far freddo, per i morti, che se no muoiono due volte, decomponendosi di corsa per il caldo.

Io ho freddo, perchè sono vivo. E sono felice di esserlo, vivo.

Parlo con Elsa, la moglie.

Parlo con calma, per calmare il pianto, per accompagnarla. La morte, per gli atei, è un dramma incredibilmente doloroso.

Mentre parlo, mi viene in mente di quando mi ha cucinato una torta alle carote, immangiabile.

Spero non le venga in mente di rifarlo. Ma so che succederà. Perchè adesso le nostre sono due solitudini da dirimpettai.

Abitiamo a due metri di distanza. E siamo soli.

La torta alle carote è una conseguenza inevitabile.

Come anche il mio rendermi conto che in qualche modo, Elsa, dopo dieci anni da personaggio secondario, entrerà, è entrata, nella mia vita, perchè a modo mio dovrò occuparmi di lei e del suo dolore.

Me ne rendo conto e quasi per riflesso mi allontano, andando sulla soglia.

Esco, salutando tutti con un abbraccio e guardando i tentativi disperati di una mano dolce di mettere della vita in un luogo di morte così grande e profondo, le fioriere con dei gerani disperati.

La morte, Gianni, è una cosa molto definitiva per te. Meno per chi è rimasto.

Io, in qualità di rimasto, mi permetto di dirti che una vita come la tua, nella media e senza eccessi, porta nello stesso punto dove arriverò anche io. In quella cazzo di camera mortuaria.

Ci finirò anche io. Prima, a quanto pare, aiuterò Elsa. Mi farò cucinare torte alle carote.

Non morirò per una torta.

Morirò d’amore. Questo mi salverà.

Ciao Gianni

Dove sono – Periodo di Levante 

Sai, spesso gli esseri umani, per essere felici, si affidano ad altri esseri umani.

Sai, spesso gli esseri umani non si rendono conto di essere ossessionati dalla felicità. Diventa così dolorosa la sua ricerca, spossante, stressante, ridicola, che proprio questi uomini che dicono di cercare la felicità, si ritrovano ad essere contadini di dannate solitudini malinconiche, coltivate senza nemmeno rendersene conto.

Sai, ho smesso, da qualche tempo, di essere ossessionato dalla mia felicità.

Ed è stato il momento in cui la tenerezza, la dolcezza, l’imperfezione della mia piccola felicità, hanno incominciato il loro cammino. È una piccola cosa. Piccole sono le cose che mi porto dietro, ultimamente. Ci stanno nella borsa. Questione di spazio.

Forse è importante, forse lo è davvero, capire dove sono. Dove, peraltro, voglio rimanere. Per qualche tempo, il necessario. Non di più, non di meno. 

Ci sono undici libri sul comodino, una pila ordinata di storie diverse, ne stanno arrivando altri sei. Ne porterò otto, in tutto, a Levante. I numeri sono importanti. Poi forse finirà che ne leggerò due o tre, non hanno fretta i miei libri, di essere letti. Mi perdo nei silenzi delle notti di mare, magari a scrivere, magari ad aggiustare quel dannato romanzo che ha un finale che mi piace un sacco e che non ho ancora scritto. Ne porto otto comunque, di libri. Perché mi piace la rotondità del numero, otto. Due costumi da bagno, sempre gli stessi. Roba per scrivere, l’indispensabile corredo di grappa, sigarette e foglietti da stracciare al mattino. Pagherò i miei debiti con questo anno strano, con i miei foglietti. Porto una tavola, perché voglio usare il mare, essere con il mare, nuotarci, respirarlo, arrivare ad averne noia, anche se credo non sia possibile.

Ti ricordi l’emozione di quando ti esplode la vita davanti? Ti ricordi la dolcezza della nostalgia di qualcosa, di un posto, di qualcuno? 

Ricordo a memoria le mie prime volte, tutte le volte  che la vita ha esploso un colpo forte, proiettili di emozioni. E mi cullo della nostalgia dei miei posti, delle mie persone, dei miei ricordi.

Parto così, quest’anno, verso Levante. Facendo valige minime, perché non ho bisogno di quasi nulla, e riempiendo il tempo con ricordi e storie molto dolci.

Parto con un figlio e con un padre. Li porto con me, credo sia qualcosa di simbolico che capirò più avanti, è successo così, sarà tempo fatto di camminare lento, di ombra per non scottarsi, di bagni al tramonto. Sarà tempo di cene lunghe, sono felice di pensarle sul terrazzo che immagina il mare potendo vederne solo un ritaglio.

Forse ci sarà anche un gatto, le possibilità sono un calcolo che, nel caso del gatto non voglio fare.

Non mi sento solo, non mi sento prigioniero, non mi sento abbandonato, non mi sento pericolante. Questo basta a chiamare questo piccolo seme, germoglio della felicità.

Porto la vecchia moka, è venuta con me in Provenza, nei Paesi Baschi, è rimasta a casa con me mentre tutto scappava. Forse è meglio di un gatto, la mia moka. 

Porto un amico, che sono due, amo le loro vite e il loro amore è per me il più dolce dei traguardi. 

Porto la voglia di stare da solo a pensare. 

Questo è quello che porto. Questi sono i posti dove vado. A Levante, dove il sole tramonta dentro al mare, senza nessuna pietà sapendo di lasciare ricordi dolci a chi si ferma a guardarlo.

Sono certo sarà un autunno di cose, piccole e grandi, da mettere a posto. Aggiustare cose.

L’artigianato del cuore e della vita ha bisogno di strumenti precisi.

La memoria, la nostalgia, la quiete, il rispetto dei finali.

Son cose che si coltivano meglio a Levante. Lo farò.

Scriverò. 

Forse lo farò tantissimo. Forse mi fermerò sulla punteggiatura fastidiosa. 

Per arrivare all’autunno pronto.

Non felice.

Pronto.

La mia felicità è altro. So dove trovarla. E ricordo molto bene perché sia una delle pochissime cose che nascondo. 

Ecco dove sono.

Vieni a trovarmi. Se vuoi.

Musica per un Venerdì

(atto unico, inizia con palco al buio, un giardino forse, delle panchine, un piano, in mezzo al prato, con un pianista che già suona. Alla luce, i personaggi sono già sul palco, immobili. La voce fuori campo è di un uomo, è una voce sicura e calda. La musica del piano è una musica dolce, piano moderno, suonata bene. Per convincere il pianista a suonare per uno spettacolo di teatro così breve all’inizio c’è un piccolo pezzo su di lui, dei complimenti, insomma. Per non pagare il pianista. Ma, alla fine, suona bene davvero).

Ettore: 

Scusa, lo senti il pianoforte che suona? Sta suonando per te, suona per noi, il pianista è amico mio, ex compagno del ginnasio, io e il pianista, un bravo ragazzo, di talento, ha sempre voluto fare il pianista, e io ho sempre voluto arrivare a una sera d’estate così. Insomma, siamo due uomini arrivati, io e il pianista. Ma parliamo di noi. Se ti va. Ascolta, ascoltalo suonare, suona per te, suona per noi, una musica bellissima.

Amelia: 

No, non lo sento, non sento il pianista, e neppure sento il fresco che mi avevi promesso, su queste panchine. Sento il caldo della città, tutto il caldo del mondo, l’estate maledetta, sudo, sarò nervosa. Ma non sto bene. Avrei voglia di piangere, ma non ne ho le forze, o forse non ho voglia, sono confusa. Non vedo le stelle, non sento il pianista, è una notte d’inferno, adoro l’inverno, odio l’estate e le tue cazzate. Perdona le rime.

 

A questo punto Ettore si gira, sempre seduto sulla sua panchina, ad osservare una donna in piedi, a poca distanza da lui. E’ davanti a un uomo, elegante, seduto, sudato. Lei in piedi, gambe larghe. Sembrano tristi. 

Amelia è in piedi, davanti a Carlo, sempre elegante, ma sudato. Odia Carlo, odia la sua vita, odia la vita che Carlo le ha dato. Amelia è triste. Forse. Non lo sa. 

 

Luisa:

Pensavo si potesse parlare, di quanto fa male, l’estate da sola, di quanto io abbia paura, fottuta paura, di rimanere ancora da sola, un altro inverno, un altro terribile inferno. Che rima di merda. Eccomi qui, da sola, nel buio di un giardino, seduta a gambe incrociate, come le bambine, io che volevo essere la donna di qualcuno, mi ritrovo ad essere la bambina di me stessa. Che diavolo di inferno. E non ho più lacrime da piangere.

 

Amelia, in piedi davanti a Carlo, vede nell’oscurità una bella ragazza con le gambe incrociate sulla panchina. Sembra triste. Possibile che siamo tutti tristi, si chiede, sbuffando. Mentre Carlo inizia a piangere. Quando gli uomini iniziano a capire, iniziano sempre a piangere. 

 

Tiziana:

Mi tengo nel tuo abbraccio, nel tuo abbraccio mi perdo. Siamo noi due. Lo siamo da così tanto tempo. Siamo una cosa sola, nel bene e nel male. Da moltissimo tempo lo siamo. Io e te. Ho smesso di ricordare da quanto, io e te, siamo una cosa sola. Tu e le tue spalle grosse, che mi hanno fatta innamorare, anni fa. Sembra una vita fa. Io, e le mie mani affusolate. Non ho il coraggio, non ho mai avuto il coraggio, di dirtelo, Marco. Ma io non ti amo. Da una vita. Per questo, mi tengo nel tuo abbraccio. Il silenzio che tu scambi per assenso, è un binario morto, di una stazione abbandonata.

 

Ettore osserva anche un’altra coppia, lei quasi nascosta nelle braccia di lui. Ascoltano in silenzio il pianista. L’amore, a volerlo immaginare, è una cosa così. 

Ettore:

Io me lo immagino l’amore, perchè non sono capace di viverlo. Ecco perchè. Lo immagino così, come un abbraccio nel silenzio.

Amelia allora si gira, e piangendo scappa. Corre verso il cancello di ferro, arrugginito. Verso la strada. Carlo resta seduto, disperato, a quanto pare. Senza muoversi. Quello che Amelia ha fatto, muove le pedine di un intero scacchiere. La magia, forse, non è nel pianoforte, dirà una voce fuori campo. 

E’ una storia che non merita il corsivo. Immaginatela, se volete, in corsivo. La voce fuori campo che ve la racconta, assomiglia a quella di Ettore. Perchè nel destino degli uomini che notano i dettagli, c’è sempre la storia di molte persone. Dicevamo:

La donna da sola, sulla panchina, si toglie i sandali, e li appoggia per terra. Si alza in piedi, e inizia a ballare, sulle note di piano di un pianista amorevole. Le note di piano sono di una musica dolce. Che può essere suonata da un piano, o fischiata sottovoce.

La donna balla a piedi nudi, e sorride. Ecco.

Due, i due dell’abbraccio, restano immobili. Guardano la donna ballare. Lo fanno per qualche istante. Poi lei si libera dell’abbraccio. Quasi si volesse liberare di una vita intera. Non sai mai cosa si nasconde dentro un abbraccio. Desiderio, sfida, dolore, amore, amicizia. Destini.

Lei si alza, si è liberata, si vede. Prende la testa di lui, con le mani. La tiene dolcemente. Dolcemente, come con un gatto, con un cane o con un bambino. Lo bacia sulla fronte. A lungo. Lasciando le labbra appoggiate. Poi si gira e se ne va. La gonna mossa dal vento caldo.

Lui si alza, e la segue. Non per seguirla, si vede. Per andarsene.

Resta tutto così, il piano suona sempre più veloce, una musica di speranza, adesso ci sono i violini e gli archi sotto. Non si sa da dove vengano.

Poi, di colpo, la musica finisce. La ragazza riprende i suoi sandali, tenendoli in mano se ne va.

Il pianista chiude il piano.

Resta il silenzio, di una notte d’estate. Il caldo, la luna. Il buio.

Questione di minuti, a volte, per risolvere una vita.

 

 

Culo vs Tette (quello che gli uomini additano)

In un bellissimo film di qualche anno fa, What Women Want, un machissimo Mel Gibson riusciva a sentire quello che le donne pensavano, cosa che sul lavoro, a letto e a casa era risultata estremamente positiva. La grande verità di quella simpatica pellicola è che non si riesce molto a capirsi, tra di noi uomini e donne di questa disperata generazione, e sarebbe un sogno comune capirsi di più, capirsi meglio, capirsi anche solo un po’.

Ora, io faccio già moltissima fatica a capire me medesimo, figurarsi se posso anche solo pensare di poter capire coloro che mi siedono a fianco, che siano donne o uomini, ma è anche vero che pare utile provare almeno ad interessarsi a cosa la persona che ti guarda stia provando.

Siamo talmente lontani, nel ritmo, che quando ci si trova bene a letto o a tavola, si parla di chimica. C’è una chimica pazzesca tra noi.

Solo perchè scopiamo bene.

Solo perchè ordiniamo la tartare di tonno uguale.

Tonno e pompini non sono indicatori di affinità, ma noi ci accontentiamo parecchio.

Seduto sul mio scoglio, un punto di osservazione eccellente, che mi consente di dominare sia il mare sia la pineta, osservavo le donne. Quando sei adolescente aspetti l’estate, l’esplosione di costumi da bagno, per celebrare la fortuna di essere uomo.

Quando cresci come me, l’estate è quel dramma di calli sui talloni, alluci rovinati, vistose dimenticanze nella depilazione se non pericolose ricrescite al pube, comparse appena di fianco a costumi troppo piccoli, odori molesti, ciabatte degne di una piscina in Ucraina, e così via.

E’ stata una giornata lunga, di bagni, di acqua, di pensieri, di ragionamenti, di bagni ancora, di nuotate, di silenzio.

Ho pensato alla vita, al mondo, e a un certo punto, anche alla questione dell’eterna lotta tra tette e culo.

Cosa guardano gli uomini? Come lo guardano? Cosa vogliono gli uomini?

Dato che le donne se lo chiedono ( qui), me lo sono chiesto anche io, da osservatore esterno.

La cosa stupenda delle donne è che se lo chiedono davvero, in numerosi forum, e si danno anche le risposte. Cioè non chiedono a un uomo, o a un campione di uomini, chiedono alle amiche. E si rispondo tra loro.

Capisci perchè il mondo non avrà mai una reale parità dei sessi? Passiamo del tempo a immaginare cosa pensano splendide creature che passano il tempo a immaginare cosa pensiamo noi, dandosi da sole delle risposte. E’ una catena rotta.

Da loro.

Cosa guardano gli uomini nelle donne? Cosa davvero vogliono?

Gli uomini guardano tutto. Smentiamo la leggenda che vede l’uomo come una preistorica creatura che mira a guardare solo parti del corpo riconducibili alla riproduzione.

Soprattutto perchè l’atto riproduttivo, ormai, è simulabile con quasi tutte le parti del corpo. C’è gente che si scopa i piedi, la schiena, le gambe. Mi sento molto solo a pensare a una donna che si fa scopare i piedi, ma sembra che io sia una minoranza, tradizionalista.

L’uomo guarda tutto, ma si sofferma dove prevede che le sue mani provino più giovamento nel fermarsi.

L’uomo guarda gli occhi, il sorriso, le caviglie, i piedi, le mani, ma pianifica di soffermarsi più tempo su tette, culo e apparato ginecologico. Per questo è sopravvissuto ai dinosauri e sopravviverà a molte specie di uccelli. Perchè capisce dove infilarsi, per riprodursi.

E’ scienza, non maschilismo. Il guardarvi le tette è scienza.

Fatta questa doverosa premessa, le due grandi scuole di pensiero dividono gli uomini in Culisti e Tettisti.

Il Tettismo è un errore di gioventù che fanno molti. E’ stato anche un mio errore. Per un paio di tette sopra la quarta, ho annullato rivoluzioni, saltato lezioni, limonato scaldabagni sudaticci, compromesso il mio ego. C’è anche chi collega il tutto al rapporto con la madre. L’analisi freudiana e le tette sono una facile unione. Falsa. Io toccavo tette per la mia spericolata ricerca della perfezione. Ero girato verso il futuro, non verso il passato.

Io avrei dato tutti i miei averi per una quarta autosostenuta, con capezzolo chiaro.

Il resto, dai 13 anni fino quasi a ieri, era una visione sfuocata della realtà.

Il Tettismo è un movimento democratico di uomini che consente a donne grasse, con tette grosse per via del grasso, di avere una vita sessuale. E consente agli uomini di ambire a facili obbiettivi, perchè le donne quando si sentono brutte cedono più facilmente. Per questo esistono le abbuffate di mezzanotte. Per mantenere l’adipe di donne che cederanno più facilmente a uomini disposti a compromesso estetico in favore di orgoglio riproduttivo.

 

Il Tettismo Radicale, quello che rifiuta il seno rifatto, è una deriva ortodossa, sempre più rara. Anche perchè ormai un paio di tette nuove di zecca sembrano essere diventate un bene di scambio comune tra le donne che hanno partorito e il loro orgoglio femminile.

Sforno uno o due figli, mi commisero per il mio impianto mammario, mi sparo due tette nuove is the new black.

Il Culismo, l’adorazione del culo delle donne, la sublimazione della schiena e del femore come parentesi, scrigno di una vita migliore, è un movimento molto più numeroso, ma anche molto più radicale e raffinato.

Un bel culo è molto meno opinabile di un bel paio di tette. Un bel paio di tette è una questione molto personale. Un bel culo è, oggettivamente, una questione dimensionale, fisica (nel senso di reggere alla gravità), e molto pratica.

Molti Tettisti, superata l’adolescenza, diventano Culisti.

E’ successo anche a me.

E’ anche una questione geofisica. Le tette, per quanto siano una aperta sfida alla fisica fin da tenera età, a un certo punto cedono al mondo e alle sue leggi. Cadendo, scomparendo, risucchiate nel vortice di maternità dilanianti, crollando lente come monumenti romani, senza nessuna Sovraintendenza a tutelarle.

Il culo, se mantenuto come si può fare con una vettura d’epoca può rimanere un elemento distintivo.

E l’uomo, crescendo, diventa culista.

Non avrebbe mai accettato una pecorina senza lo strizzare forte di un seno in forma, si ritrova ad accontentarsi di artigliare una schiena inarcata. Perchè è un essere lucido ed informato. L’uomo che diventa culista.

Se proprio dovessimo saltare a conclusioni avventate, investire nel culo, per mantenerlo tonico, sembra essere la decisione migliore e più ragionevole.

E’ anche vero che, purtroppo, invecchiando, l’uomo sviluppa una forma di giudizio artistico molto complesso, e inizia a vedere il quadro nella sua totalità.

E’ in questo momento che un bel culo scompare drammaticamente dietro a un cerottino per i calli, venduto per trasparente, ma che diventa una cosa visibile a diversi kilometri di distanza.

E’ in questo momento che il porro peloso sulla spalla sinistra diventa un semaforo rosso per la riproduzione, e i nostri peni sono incredibilmente rispettosi del codice stradale del sesso.

Guardando quattro giovani donne, arroccate su uno scoglio a pochi passi da me, ho notato, questo per farvi capire: infradito carine, curati i piedi. Una con le Vans, potrei sposarla, ma con vistosi fantasmini. Costumi da bagno sexy, piacevolmente colorati, che portavano discreti culi, uno dei quattro addirittura bello. Seni al vento, perchè sugli scogli si sta a tette all’aria. Una aveva una predilezione per succhiare le ciliege, che prendeva da un sacchetto di carta, sputando i semi con forza. Non potrei mai pensare di infilare la lingua dove tu sputi con forza dei semi. Mi ricordi il camionista slavo che dorme sotto casa mia con il camion parcheggiato quanto l’Ortomercato è chiuso.

Non potrei mai scoparti tenendoti i piedi, sapendo che sono stati infilati in dei fantasmini bianchi di spugna.

Anche se, oggettivamente, porti in giro un gran bel culo.

Il corpo invecchia. Questo fa male a tutti. Cadono pezzi, verso la terra sotto la quale saremo sepolti, e più lottiamo, più ci rendiamo ridicoli.

Fa ridere il non accettarsi di uomini che si tingono come di donne che si tirano pezzi di pelle per attirare palle.

Ecco, forse il segreto è questo: dopo una certa età le donne sono davvero belle se smettono di lottare contro il tempo che passa, e iniziano ad accompagnarlo.

E’ la cosa migliore che si possa augurare a una donna. Essere capace di accompagnare il tempo, e di non combatterlo ferocemente. Perchè quella che vi sembra una battaglia, è una scaramuccia dall’esito certo.

Il tempo vince sempre.

Insomma, portate in giro i vostri culi e le vostre tette, senza troppo farci attenzione. C’è sicuramente un uomo che, per qualche ragione, vi amerà alla follia.

C’è sempre un uomo che, per fortuna, come me noterà la piccola dimenticanza nel depilarsi o il cerottino per i calli.

Uomini come me, difatti, restano soli sugli scogli.

E’ un destino crudele, quello di amare la bellezza.

Ma è ancora più crudele quell’idea di combattere il tempo, che dona bellezza sempre.

Tre riflessioni epistemologiche per concludere:

Meglio un bel libro giallo che una donna con i cerotti per i calli

Meglio un bel sorriso di un etto e mezzo di botulino

E, l’ultima, la più importante, viva la figa

 

Perchè quello rimane sempre il centro. Abbellite le periferie, ma noi vogliamo vivere in centro!

 

Surf It, Life is a perfect Ass!

 

 

Dove vado quando dico che vado

Dove vado quando dico che vado, quando i venerdì d’estate pianifico fughe disperate, mentre sudo immobile sotto una Tavola Calda di una qualunque delle zone industriali che frequento oppure davanti a una porta scorrevole di un aeroporto, dove vado, insomma, è facile. Al mare.

Il dolore serve tanto quanto serve la felicità, il mare è l’unico posto dove il dolore si confonde con la felicità, la nostalgia del passato si mescola con la paura del futuro, i dubbi con le certezze.

E’ pericoloso, il mare come lo intendo io. Per questo suo mescolare le carte, farti arrivare con delle certezze e farti andare via con dei dubbi, lasciare che sedimentino verità, come i fondi di bicchiere di quel vino rosso della trattoria vicino al porto, che brucia ancora prima di essere bevuto.

La verità è che al mare, per come lo intendo io, ci devi sempre andare da solo.

E’ un posto ben preciso, del quale non diffonderò mai l’esatta posizione, un cumulo di scogli e di schiuma bianca, pesci che nuotano nell’acqua profonda di un fondale rubato dal mare aperto, tutto tranne che il silenzio, perchè il mare aperto fa un diavolo di rumore continuo, intenso, disperato, sembrano ruggiti di un animale ferito. L’odore di sale, insieme all’odore dei pini e della lavanda, la sabbia dentro le dita dei piedi, il caldo torrido, la disperazione dell’essere, finalmente soli.

Ho provato a portarci anche delle persone, ma divento un cattivo compagno di viaggio, perchè piombo in un silenzio misterioso, con gli occhi socchiusi, la fronte aggrottata.

Non che mi dia un tono, è che mi attraversano la testa pensieri immensi, nuvoloni, cose che credevo di aver rimosso, magari riesco anche a capire meglio la vita, per come l’ho vissuta. Non basta camminarci dentro alla vita, bisogna anche arrendersi, arrendersi, quel gesto di sedersi in riva al mare e aspettare che torni tutto indietro, nel bene o nel male.

Io faccio questo. Mi siedo e aspetto. Rompo il caldo buttandomi in acqua, ho comprato una maschera nuova, nera, comoda, per seguire i pesci, per vedere le meduse muoversi lentamente, per inseguire veloce le orate che scappano come io fossi davvero una minaccia. Cerco le murene nei buchi, ma poi finisce che ho paura e che smetto, accarezzo i ricci piano, guardo i granchi scappare appena la mia ombra passa davanti.

Mi sembra tutto molto relativo, quando sono in acqua. Per questo nuoto da dio. Io nuoto, per rimediare alla pesantezza delle cose. C’è chi beve, chi parla, chi piange, chi corre, chi lavora, chi si innamora, io per rimediare alla pesantezza delle cose, invece, nuoto.

Quando torno sullo scoglio mi piace fumare, ancora bagnato, e poi mordere piccoli pezzi della crostata alle albicocche che compro in cima alla collina, che quando arrivo ormai sembra un polpettone caldo, umido, che sporca le mani da dio.

Bevo acqua, ritorno a guardare il mare.

Ovvio che lo devo fare da solo.

Se posso, nudo.

Nuoto nudo, adoro sentire l’acqua scorrere, immaginare il mio corpo bianco, pallido, dentro al mare gigante.

Se posso, leggo.

Libri mai. Il giornale, la cronaca locale di Genova, mi sento addosso i loro problemi, immagino le sagre estive, mi ricordo di essere passato in moto dai paesi che trovo nella cronaca, cazzo ho fatto il Levante metro per metro. Se esistesse un premio, per aver percorso il Levante, dalla Fiera di Genova, dal piazzale afoso del parcheggio, fino a Roma, ecco il vincitore sarei io.

Ma perchè premiarmi? E’ questione di sopravvivenza, per me.

Percorrere il Levante, per sopravvivere alla mia vita.

Insomma, io quando dico che vado, faccio queste cose qui.

Ho portato mio figlio, abbiamo visto due delfini, abbiamo mangiato la crostata, ci siamo tuffati da uno scoglio, e abbiamo fatto una pattuglia speciale, una missione di ricognizione per cercare i sassi perfetti.

Ci ho portato qualche amico. Una volta una donna.

Ma ci devo andare da solo.

Mi torna tutto, quando vado da solo.

I conti, i dubbi, la libertà.

Tengo prigionieri dei dubbi, li incateno alla mia ragionevole coscienza, per poi liberarli quando sono seduto su quello scoglio.

Così ho fatto.

Ieri.

Lo faccio sempre.

Avrei dovuto farlo prima.

Forse no.

Poco importa.

E sono tornato con tutta la piccola felicità di chi ha fatto una buona cosa.

Andare al mare.

Ho anche capito di più di una questione fondamentale per molti uomini, ovverosia l’eterna lotta tra il culo e le tette e tra le due fazioni di uomini ( i tettisti e i culisti).

Ma di questa cosa, fondamentale, parlerò più avanti.

Certo che ci torno.

A Levante.

 

 

 

Cicale a luglio 

A un certo punto, stufo di sentire storie su Eleonora che non hanno nemmeno un vago fondo di verità, ho dovuto smettere di uscire. Ho deciso una notte, stremato, davvero, di non uscire. Niente pasticcieria del corso al mattino, niente pranzo davanti al Duomo, magari qualche fuga appena fuori città dove nessuno ci ha conosciuto e visto, niente cene in centro.

Sembrava il mondo non avesse altro di cui parlare. Eleonora e la sua scomoda verità.

La verità di Eleonora non la conosco nemmeno io, a dirla tutta.

Si. Sono stato innamorato di Eleonora. Lo sono stato. Lo sono. 

Volete sapere come è andata? No, non come mi sono innamorato di Eleonora. Quella è una storia banale. Ogni uomo ha avuto Eleonora nella sua vita. Magari un altro nome. Ma la stessa persona. 

Eleonora era su un balcone, che affacciava sulla prima collina davanti alla città. Guardava distratta la foschia del tramonto. Le stavo dietro, annusando il suo profumo e ascoltando le cicale. 

Al profumo, così, non sei mai pronto. Sapeva di novità, di frutta, di cambiamento, di sesso, di poesia, di parole non dette. 

Le cicale non le avevo mai ascoltate in città.

Senza girarsi mi ha detto:

Te ne sei accorto vero che io non sono un rischio calcolato, di quelli che piacciono a te. Io sono niente per chi vuole solo prendere, io sono tutto per chi vuole anche dare.

Non sembrava una domanda. Sembrava una dichiarazione. E mi sono innamorato. Mi innamoro sempre delle dichiarazioni.

La verità è che non ho mai avuto paura di lei. La mia prima volta. Esiste una Eleonora nella vita di ciascuno di voi. I più fortunati ci costruiscono intorno una vita. Quelli come me, ci provano.

Le cicale, mi ricordano il mare, la sabbia e il caldo. Ho scoperto di adorare la musica delle cicale. Per quello che mi fa venire in mente. Avete in mente quel rumore cigolante che viene dalle siepi e dai faggi? È lo stesso che viene dai pini marittimi quando cerchi un nascondiglio per il caldo, e ascolti il sudore scivolarti sulla schiena, goccia grosse, e il mare sullo sfondo. Cicale.

Passami la mano sul seno, dice.

Lo faccio.

Perché vivi sospeso tra i tuoi pensieri e il cinismo? Togliti quegli occhi tristi, scopami, ridi con me e di me, piangi quando avrò bisogno di piangere io, consolami, mangia spaghetti alle vongole con me, discutiamo di politica e lamentati del colore delle mie mutandine. Ti va?

Secondo me non devi esagerare Eleonora. Così mi innamoro.

E così è stato. A dire il vero non mi sono mai lamentato del colore delle mutandine. Ed ero curioso di vedere il mondo con i suoi occhi. Avrei voluto dirle di stare tranquilla, di non prendere medicine, che il dolore si cura anche con il tempo e il tempo si coltiva con l’amore. 

Secondo me Eleonora è andata in Sud America.

Dicono che sia scappata. Raccontano di suo marito come di un santo, raccontano storie su di lei e sui suoi lunghi capelli scuri. Dicono che sia una stupida.

Ho smesso di ascoltarli perché mi ferivano.

Eravamo nudi una sera di luglio, la finestra aperta sulle cicale e sul caldo. E respiravamo di quei respiri lunghi che si fanno dopo l’amore, quasi per continuarlo. E lei mi ha detto: forse vado al mare. Me ne vado. Vado da mia sorella. Qualche giorno.

Non partire, le ho risposto.

Ho bisogno di meditare e di pensare.

Puoi farlo qui. 

Non con te. Voglio andare via per un po’.

Tornerai? 

Non lo so.

Eleonora non partire. Se non sai dove tornare.

Io sono una donna. So sempre dove tornare. È che noi non abbiamo il coraggio di partire. 

Parti per non tornare. Lo stai facendo.

Le cicale sembravano impazzire. Ci assomigliamo, io e le cicale.

Non serve a niente ma te lo dico lo stesso. Ti amo stupido uomo.

Me ne ero accorto.

Allora lasciami partire.

È che odio le fini. Quanto adoro gli inizi. È un mio limite.

Ti amo non è mai una fine e partire non è mai un abbandono. 

Cose difficili da capire.

Così è andata.

Non esco più per questo. Odio ascoltare storie su una fuga che non è una fuga. E odio saperlo solo io. 

Responsabilità così grandi vanno annegate in mare e cicale.

Domani vado al mare. 

Pensaci, dovresti pensarci

Ormai hai quasi quarant’anni. E’ ora, anzi è tardi. Hai solo quarant’anni, la vita sta iniziando.

Dovresti fumare meno, mangiare meglio, bere con la testa. Fuma, bevi, è un periodo.

 

Non sto tanto bene, ragazzi.

 

Non sei il centro del mondo, pensaci. Pensaci, sii il centro del tuo mondo.

Sono anni in cui dovresti stare bene, pensaci. Pensaci, è difficile stare bene in questi anni.

 

Non sto tanto bene, ragazzi.

Dovresti pubblicare quello che scrivi. Dovresti smettere di scrivere.

Dovresti dormire di più. E’ giusto che tu dorma di meno, divertiti.

Dovresti amare meglio. E’ normale che tu non ami.

 

Non sto tanto bene, ragazzi.

Trovati una donna, fatti una nuova famiglia. Non permetterti di trovare una donna, pensa alla tua vecchia famiglia.

Hai le occhiaie si vede che stai male. Che begli occhi, si vede che stai bene.

 

Sto meglio, ragazzi.

Dovresti cambiare lavoro. Tieniti stretto almeno il lavoro.

Prendi un cane, per il tuo bene. Meglio che non fai cazzate almeno con gli animali.

Divertiti con un paio di galline. Non far soffrire altre donne.

Sto meglio, finalmente, ragazzi.

Fregatene dei soldi, sono un mezzo. Pensa ai soldi, sono tutto.

Paga tutto fino in fondo. Lotta anche per i centesimi.

Sto quasi bene. Ragazzi.

 

  • Non vorrei darti consigli, ti giuro. Ma dimmi come stai?
  • Qui.
  • Non hai voglia di parlare?
  • Non tanto.
  • Capisco.
  • Sei unica perchè non fai domande. Potrei piangere dalla gratitudine.
  • Grazie, ma non faccio domande perchè non sono coinvolta.
  • Noi siamo stati coinvolti?
  • Si, ma tante vite fa.
  • Parlami di me quando amavo te.
  • Eri bellissimo. Ma mica perchè amavi me. Tu sei bellissimo quando ami. E’ il tuo più grande difetto.
  • Dicono che il  mio difetto sia quello che non sono capace di amare.
  • Invece, fidati di me, che sono una tua vittima, tu ami fin troppo bene.
  • Meno male.
  • E’ che non si capisce mai cosa cazzo tu stia amando. Sei scoordinato. Potresti insegnarlo, l’amore scoordinato. Disciplina sportiva.
  • Scrivo, mi è tornata voglia di scrivere.
  • Beh, anche quello ti viene bene.
  • Mi viene meglio scrivere o amare secondo te?
  • Che cazzo di risposta vuoi? Tanto sai benissimo che continuerai a fare tutte e due le cose.
  • Hai sempre ragione.
  • Lo so. Avevo ragione ad amarti. Ho avuto ragione a lasciarti. E ho ragione quando dico che sei scoordinato. Ci vediamo al mare. Ti presenterò l’uomo che farà di me una principessa quest’estate.
  • Mi presenterò dicendogli che ti ho scopata prima io
  • Purtroppo so che lo farai davvero.
  • Grazie per la stima.
  • dimmi solo come stai
  • alla fine bene.
  • alla fine, non è una fine. Ma so che ci metterai tutta l’estate a capirlo.