Sweet Home Shanghai

A letto mi riduco a guardare l’orologio. Sono tre giorni che dormo tre ore a notte. Dalle tre alle sei. Le ore migliori. Il sole tramonta prestissimo e sale in cielo molto prima che un essere umano ritenga ragionevole alzarsi. Più ti avvicini all’Equatore più è così. Ho gli occhi perennemente arrossati per l’aria, questo smog sottile che rende il cielo grigio e la gente triste. Giro di notte per i mercati abusivi, contrattando su improbabili copie di iPhone e orologi di plastica, solo per il gusto di contrattare. Evito i taxi, dopo le brutte esperienze.

Quasi ogni ragazza ci ferma, soprattutto nel quartiere delle fabbriche dove i pochi europei sono davvero pochi, e molto depressi. Ci fermano, ci fanno una foto e scappano ridendo. Cazzo di gente.

Non c’è cosa che mi fa più incazzare di vedere gli europei che fingono di amare questo posto solo perchè le loro fottute carte di credito sono riempite mensilmente da simpatici manager cinesi. Si inchinano, imparano qualche parola di cinese, bevono birra cinese, sorridono e fanno milioni di foto del cazzo. A parte la birra cinese, tsintao, ch è pur sempre birra e per tanto va rispettata, il resto è uno spettacolo tragicomico.

Cerco di imparare a mangiare con le bacchette, anche se appena trovo qualcosa di bevibile abbandono il piatto e le bacchette e mi metto a succhiare avidamente dalla ciotola. Così, in due giorni ho bevuto almeno sette zuppe.

Barcollo in perenne stato di evidente confusione mentale, alla ricerca disperata di caffeina. Ho finito le scorte di medicinali, mi resta solo un po’ di ibuprofene, ma non mi aiuta a restare sveglio. Così provo le vitamine locali.

Arrivo in albergo distrutto, guardo la valigia come un tossico strafatto, seduto sul letto in mutande.

Poi mi lascio cadere e mi prende uno strano torpore. La mia valigia ha fatto il giro del mondo. Mi guarda da terra, con le evidenti cicatrici del tempo e mi ricorda che non smetterò mai di viaggiare.

 

A little bit of China – volume one

Cazzo, morire in taxi è proprio da coglioni. Soprattutto quando si ha il biglietto per il treno più veloce del mondo pagato. Questo strano personaggio, età indefinibile, avvolto in un paio di occhiali D&G a mascherina, guida come se avesse dei grossi problemi di integrazione sociale. Salta le corsie senza alcuna logica, ignora completamente le regole della segnaletica orizzontale e del buon senso. Nel frattempo, non contento di esplorare tutte le possibili strade verso la morte stradale, si impegna a tenere vivi tutta una serie di tic nervosi che rendono estremamente pittoresco il viaggio. Sotto gli ottanta kilometri all’ora tira giù tutti i finestrini e mette la quarta. Raggiunti i novanta cambia marcia e tira su tutti i finestrini.

il bello è che fa di tutto per procedere tra gli ottanta e i novanta, ripetendo all’infinito la manovra dei finestrini e cambiando marcia come se il suo braccio destro fosse posseduto da uno strano demonio. A sinistra, nel frattempo, scorrono eterne delle case tutte uguali, modello Londra primo novecento, solo che di sedici piani ciascuna e terribilmente fatiscenti. La stanchezza è tale che mi sembra di avere lo stesso panorama da una vita. Gli occhi mi si chiudono, mi sale la birra, sento le vibrazioni della macchina. Mentalmente ripasso la statistica per cui è molto più probabile morire in macchina che in aereo. Che non fa una piega. Vengo da sedici ore di aereo, morire in taxi sarebbe statisticamente corretto. Involontariamente premo il piede destro sul pianale della macchina, come se potessi frenare io ogni volta che il mio amico muso giallo fa qualche cazzata. Non morirò in una cazzo di Ford degli anni ottanta solo perchè tu sei stronzo, bello. Mentre lo penso mi si chiude l’occhio sinistro. Le vitamine, insieme agli attivatori del sistema immunitario e a una decina di caffè, non riescono a tenere le 29 ore di fila sveglio e operativo. Servirebbe altro, ma noi non vogliamo che serva altro. Sento solo il bisogno di andare al cesso. Di farmi una doccia, di dormire. Ma delle tre cose posso risolvere, in breve tempo, solo la prima. La doccia, insieme al crollo sul letto, è un traguardo lontano. Mancano almeno altre sei o sette ore. Quando sto così, di solito, la ricetta migliore è una birra. O meglio un continuo di birre. E’ come se partissi già ubriaco, aggiungi le birre e non senti la differenza. Solo che la cosa ti fa stare tremendamente calmo. Pianifico di ordinarne una dopo essere andato al cesso. Prima non posso farlo. Potrei morire.

Oggi sono stato tra i primi al mondo a vedere l’alba. L’alba del mondo, perchè più a est di così si torna a ovest. E il sole che sorge nel blu, insieme allo strano panorama della periferia di Shanghai mentre atterriamo, è qualcosa che mi rimarrà impresso.

Devo cercare di ottimizzare le risorse, per sopravvivere alla settimana che, manco a dirlo, deve ancora iniziare.

Quando sto così ho voglia di scrivere tutto quello che vedo. Perchè mi capita di vedere cose straordinare, ma poi mi manca la forza per scriverle.  Mi manca la forza per fare quasi tutto, così divento simile a un animale che tiene attivi solo i principali sensori legati alla sopravvivenza. Sono in grado di difendermi, sono in grado di contare soldi, rollarmi una sigaretta, ordinare dell’alcool e reperire un hotel. Il resto è una vaga nebbia.

 

La Psicologia della Supposta (dietrologia)

Mentre la Signora passa in rassegna tutta la libreria di iTunes, cantando a squarciagola tutti, dico tutti, i titoli presenti esclusi quelli da me introdotti, cerco di lavorare a uno splendido e coinvolgente progetto culturale: mettere ordine tra gli ultimi libri comprati, regalati, forniti e rubati. Ammettevo giusto oggi al buon AdrianoBaroneGrandeScrittore, che questo per me, in questo periodo, è già uno sforzo immane.

"metti Pablo Cialella, Dura La Vita a Milano Città"

"Ma non dire cazzate".

Insomma questa cosa di essere una specie di soffice pandoro, splendente nella sua velatura di zucchero, morbido già alla vista, incomprensibilmente dolce, appoggiato sulla tavola imbandita per Pasqua, non mi fa stare male. Sono semplicemente fuori stagione. Arriverà il mio momento.

"Ti prego i REM mi deprimono"

– inizia a cantare tutta The Great Beyond, senza tralasciare il tono strascicoso di Stipe.

Sono un Pandoro a Pasqua, è vero, ma Natale arriva per tutti. E per i Pandori, Natale è come il giorno del Ringraziamento per i Tacchini. E’ la suprema consacrazione di una intera vita passata, inconsapevolmente o meno, a prepararsi.

Breve interludio degli XX, la band più trasgressiva d’Inghilterra, perfetta per un fine ottobre con pioggia a Milano. Roba per cui bisogna bere molto rhum.

Ho finito di leggere Zia Mame, postfazione compresa. E rimane, al solito, il gustoso vuoto tipico di tutti i post-qualcosa-di-davvero-bello. Che poi Zia Mame sia diventata un’icona omosessuale per un paio di generazioni di yankees, che poi il libro abbia la copertina rosa, che poi la storia sia uno splendido film per trentenni con la lacrima facile appena scaricate da fidanzato secolare, insomma che tutto porti a una mia omosessualità latente, mi spaventa poco. Sul fondo della seconda vasca della piscina, questa sera, mentre ascoltavo il preoccupante cigolio della mia spalla sinistra e con la coda dell’occhio guardavo un enorme culona approcciarsi al bordo vasca, pensavo che la divisione del mondo in due sessi è alquanto limitante.

Dopo un breve giro di Kid Rock tutto si spegne: inizia la delicatissima fase di masterizzazione dell’opera.

Beh, guardo la mensola bianca sopra il letto e aspetto che uno dei titoli che mi guardano, piova su di me. C’è Zafon, con Marina. Ma l’amore per la sua Barcellona è finito dopo L’Ombra del Vento. C’è un libro regalatomi dalla Signora a Madrid, che sembra il miglior candidato, "Vedi Di Non Morire". Poi c’è Fante, che mi sono comprato in preda a un periodo di malinconici ricordi universitari. Ma Fante, se letto in questo periodo, potrebbe spianare la già ripida discesa del sottoscritto verso l’alcoolismo totale. Ci sarebbe Izzo, ma non ho voglia.

E ricado nella Psicologia Della Supposta, che prevede l’immobilismo dopo qualcosa di stupendo, per prevenire brutti seguiti. Così fu dopo aver fatto l’amore con una tale Maria Romana. Ho girato tutta l’estate per Ios felicemente abbracciato a una bottiglia di coca e rhum, evitando con attenzione ogni possibile contatto con l’altro sesso (uno dei sette sessi), per non rovinare tutto. Così fu per quasi due anni dopo aver comprato Live at Wembley dei Queen. Niente avrebbe potuto avvicinarsi lontanamente a quel concerto. Così, cercando di farmi crescere i baffi, non ascoltavo nemmeno la radio. Così fu per mesi dopo Kundera, così penso sarà per parecchio dopo aver visto Bastardi Senza Gloria. Perchè la Supposta si annuncia sempre dolorosamente.

Qualcosa dovrò pur leggere visto che, come il mio amico AdrianoBaroneGrandeScrittore mi ha fatto velatamente notare, non sono per nulla utile all’umanità in altro modo se non nella veste di acquisitore di libri. E in più, in pochi giorni, mi aspettano trenta ore di volo. Roba da finire il Signore Degli Anelli un paio di volte.

Ma sul come si faccia a ricominciare dopo qualcosa di davvero bello non sono certo di aiuto.

Chiuderò il pc e andro davanti alla mensola bianca. Qualcosa mi cadrà in testa.

La Signora ha appena finito la grande opera di masterizzazione. Il volume, che potremmo chiamare Sintesi degli Accostamenti Difficili, prevede nell’ordine:

Amy McDonald: autrice di discreto livello che compare ossessivamente in tutte le playlist di iTunes, in tutti i cd della macchina e in tutte le compilation che passano da casa.

Bebe: di difficile definizione. Va bene a piccole dosi

Cake: un gruppo una leggenda. La Signora voleva toglierli, ma iTunes si è ribellato. La loro presenza innalza di molto il valore del disco

Dolores O’riordan: alla quale io toglierei tranquillamente il microfono. Insopportabile in formazione, figurarsi da solista.

Franz Ferdinand: si beh, ok, va bene, i Franz Ferdinad. Però dopo due o trecento pezzi stancano

Florence and the Machine: ascoltabilissimi ma a me completamente sconosciuti/a/e (?)

Glasvegas: un paranoide che si è arrabbiato con il padre. Anche qui, come per i Franz Ferdinand, vale la legge della moderazione: un pezzo ogni due o tre mesi è più che sufficiente.

The Gossip: a me piace lei dal vivo in tutta la sua colossale teatrale disfatta. Il corpo umano che cede alla gravità. Il brutto che vince sul bello, eppure la voce bella che vince sulle musiche brutte.

Green Day: come dare una svolta a un cd. In meglio

Jack Johnson: ci sta. Ci sta meglio da Marzo a Settembre. In Autunno e inverno è difficile. Come guardare un documentario sulle Maldive da Lodi a novembre nella nebbia.

 Kid Rock: lasciami dire che ti sei risorto da solo. Al merito per Pamela non si poteva aggiungere nulla.

 The Kooks: i Kooks alzano sempre il tono di un cd. Io sono innamorato della pronuncia, delle parole e delle loro pettinature.

 Lili Allen: mah

 Red Hot Chili Peppers: Hard to Concentrate non è una canzone è una poesia 

Tayol Swift: credo di non sapere con esattezza chi sia. Però canta bene

R.E.M.: mi piacevano un sacco quando avevo i jeans con il risvolto e non mi crescevano peli sulla faccia. 

Sheryl Crow: come chiudere un cd se non con una ballata strappa lacrime?

Io non farò mai il critico musicale. Anche qui, preferisco fare il divoratore, l’ascoltatore compulsivo. Mi viene meglio. Per dire quanto l’iTunes della Signora sia lontano dal mio iTunes di questi giorni, io mi sono appena fatto un cd che prevede si i Kooks, si i Green Day, ma anche un’ottima ripassata di storici Metallica, un giro di Iron Maiden d’annata, uno spolverio di Bad Religion, una attenta analisi di No Use For A Name, un piccolo giro di Mad Caddies, due o tre accenni ai Lag Wagon.

Roba, insomma, con cui iniziare la giornata.

 Inutile temporeggiare, la mensola bianca aspetta.

 

Il Cacciatore di Tramonti

Milano

Ho sempre pensato che questa cosa di vivere a Milano mi sarebbe tornata utile prima o poi. Anni di soprusi emotivi, civici e fisici, tonnellate di multe, evidenti rughe per il traffico, disservizi da tendopoli ugandese, bullismo politico e deboscio umano mi sono sempre passati addosso senza lasciare traccia. Io Milano l’ho sempre difesa. Quando ti tirano fuori la ridente provincia, la splendida campagna, la suprema vita agreste, rispondi storcendo il naso ed elencando concerti, teatri, cinema, vita culturale. Anche se poi tutta questa vita culturale ti scivola come le ruote del motorino sul pavee. Quando ti parlano di altre grandi città, tiri fuori con orgoglio la questione del lavoro, dell’elasticità, delle opportunità. E poi te lo ripeti quando ti rendi conto che con lo stipendio di un mese potresti al massimo pagare le multe. Ma tu difendi la tua città. E non puoi fare altrimenti. Sei nato nella sua pancia, vicino al cuore pulsante, godendo della sua pelle più viva. E’ il posto dove sei nato, dove ti sei innamorato, dove ti sei perso, dove hai passato gran parte della tua vita. E’ un posto dove torni volentieri. Questo basta.

Barak Obama

Vado in America da almeno due presidenti. Il passaggio tra l’idiota e Barak Obama non ha cambiato nulla nei miei occhi di turista- lavoratore. Atterrare a Philadelphia è sempre traumatico, mangiare a Los Angeles sempre difficile, camminare dentro il vento di Chicago sempre impossibile. Sognare San Francisco è sempre la cosa più vicina alla realtà. Il Pacifico sotto LA è sempre bello. Però una cosa che l’America, indipendentemente dai suoi presidenti, dai suoi problemi e dalla sua gente, ha sempre avuto è il cielo. Il cielo americano è infinito. Gli americani dovrebbero pagare molte più tasse per tutto il cielo che hanno. Una roba da togliere il fiato. Mi ricordo di essere rimasto a bocca aperta, fermo immobile appena uscito dal piccolo aereoporto di un paesino della Pensilvania, davanti al cielo infinito, grande come tutto quello che puoi immaginare, con nuvole soffici, il sole che spunta. Roba incredibile. E poi il cielo sopra New York, che sembrava Gotham City. Non proprio sopra New York, perchè New York è l’unica città con i palazzi più alti del cielo, con i tetti dei grattacieli che finiscono sospesi tra le nuvole. E poi il cielo della Florida, tutto un pezzo con il mare, tutto azzurro, tutto unito. Insomma, in America ci devi andare per un sacco di motivi oppure non ci devi andare per un sacco di pregiudizi, ma ricordati di tenere gli occhi per il cielo.

Avere Trent’anni

Lentamente ho rinunciato a un sacco di hobbies. In primis furono i modellini delle macchinine. L’amore durò giusto il tempo di far seccare un barattolo di colla. La Ferrari gialla non fu mai finita. E questo è quanto. Poi furono le piramidi di carte. Ne facevo almeno due al giorno, ovunque. Poi un giorno mia madre, sospettando una pericolosa impennata di autismo, mi ha semplicemente buttato tutti e due i mazzi di carte, lasciando incompiuto il grande progetto di ricostriure il Colosseo con le carte. Poi fu il tempo delle Vespe. Riparavo, verniciavo, smontavo, provavo, truccavo, tutto quello che mi passava a portata di mano che fosse marchiato Piaggio. Una dovrebbe essere ancora abbandonata in circonvallazione dopo un misterioso incidente tra sbronzi, in cui la Mitica ebbe la peggio infilandosi in una portiera di una Punto. Poi arrivò la moto, smontare un bicilindrico di vent’anni non è un hobby, è demenza. Leggere non è un hobby, è questione di vita o di morte, come bere rhum e essere fastidiosi con gli sconosciuti. Poi l’età adulta, i conti in banca, il mutuo, il lavoro. 

Il Cacciatore di Tramonti

Questa cosa di cercare, in giro per il mondo, i tramonti, rimanendo a guardare il cielo, come un bambino, fino a che il sole non scompare, me la porto dietro da anni. Come tutti gli hobbies, va coltivata con pazienza. Con il tempo l’esperienza aumenta, riesci a riconoscere un finto tramonto bello, un mezzo tramonto, un tramonto inutile, per tempo. Fiuti l’aria, scruti il cielo, senti il vento. Fin dal primo pomeriggio puoi sapere se ti aspetta un tramonto degno di nota. Tengo una piccola lista mentale di tutti i tramonti incredibili che ho visto. Quello dentro il mare, visto dalla punta della montagna sull’Isola d’Elba. Quello a diecimila piedi, da qualche parte sopra l’Atlantico, quello sull’Etna e quello dentro il centro di San Diego. Ma questa sera Milano ha preparato uno spettacolo davvero speciale. Qualcosa che ti ripaga del freddo, del traffico e del casino.

Ho fermato la macchina, sono sceso e ho visto il sole morire dentro i palazzi. Un cielo lungo, finalmente, rosa, arancione e rosso. I palazzi neri, in totale contrasto. Il sole che sparisce. Respiri, pensi che non lo faccia, questione di secondi, aspetti, guardi, poi è subito sera.

 

  

it’s hard to be a perdente

La sala riunioni ritorna ad essere illuminata a giorno, e dei cinque che fino a poco tempo prima erano immersi nel buio pesto di una ammorbante presentazione sulla felicità universale espressa tramite l’acquisto di costosi prodotti tecnologici di dubbia utilità, non rimangono che le espressioni da risveglio domenicale, con la pupilla dilatata che cerca disperatamente un appiglio. Il più vecchio della banda veste una cravatta che definire improbabile è estremamente riduttivo: uno strano motivo floreale su sfondo blu, con nodo piccolo e fatto male. Si schiarisce la voce facendo muovere i sette menti rotondi appoggiati sopra il collo. Mi guarda per pochi secondi, poi inizia una delle più appassionanti filippiche sul mondo e le possibili ragioni per cui noi stiamo chiusi in una sala riunioni di uno squallido capannone di una squallida zona industriale di una delle città più belle d’Europa, mentre sicuramente qualcuno, più intelligente e scafato, sta semplicemente facendo l’amore in qualche spiaggia a pochi kilometri da qui. Io non ascolto. In verità è difficile che io ascolti nella mia vita. Accade raramente. Non è richiesto dal mio lavoro, e poi ho una tecnica estremamente funzionale per risparmiare il prezioso tempo e utilizzarlo facendo altro. Mentre il vecchio parla mi limito a controllare le facce della sua cricca, le espressioni di approvazione mi suggeriscono che il poveretto tenta in qualche modo di sottrarsi al suo destino, quello di diventare la cosa più ambita, semplice e scontata del mondo: un nostro cliente. Il venditore affossato al mio fianco sente sempre più vicina la possibilità che tutto questo si trasformi in tragedia. Quest’uomo, vecchio, sovrappeso, inabile agli abbinamenti cromatici tra cravatta e camicia, continua a parlare. Prende più coraggio con i minuti che passano. Io faccio il breve riepilogo delle trasferte delle prossime due settimane. Sarò in due continenti, mi sparerò sessanta ore di volo, probabilmente cinque prime visioni in lingua originale, sei o sette cene pressurizzate, due o tre turbolenze intercontinentali dove pregare intensamente, due albe in un giorno, eccetera eccetera. La salvezza ha le dolci sembianze di una ragazza piccola, rotonda e dal viso dolce, che entra quasi strisciando contro il muro per lasciare un foglio a uno dei quattro della claque. La distrazione, per il vecchio, è totale. Il suo discorso non trova più la carica di qualche secondo prima. E’ il momento in cui, volenti o nolenti, bisogna attaccare la preda, sbatterla per terra, stordirla con un morso, e lasciare che la paura la uccida.  Riprendo le facce dei quattro seguaci, tutti sotto la trentina, e con un paio di battute sulle generazioni isolo la preda nella solitudine della sua età. Poi chiedo se sia sicuro di un’osservazione che in effetti lui non ha mai fatto, su un lucido della presentazione che riprendo con sicurezza pescando a caso con il cursore del mouse. Mossa di una bassezza imbarazzante. Faccio i complimenti ai suoi comprimari, lasciando qualche frase a metà e mettendo molta certezza in quello che dico. Una stampa di Picasso mi guarda dubbiosa da una parete. Consegno al tempo il verdetto del nostro incontro, comunicando che per noi si è fatto tardi. Il venditore al mio fianco sembra spiazzato, come un piccolo leone a cui viene tolta la gazzella proprio quando stava per infilarci i denti. Io non transigo. Voglio pranzare lontanto da tutto questo. Voglio sentire il rumore del mare, il sapore del pesce e parlare di qualcosa che non sia questo maledetto lavoro. In verità non vorrei nemmeno essere qui, adesso, in questo posto, con queste persone. Ma questo può succedere a chiunque. Ogni mattina nel mondo ci sono milioni di idioti che si ripetono che nella giungla ci sono le gazzelle che si svegliano e che cominciano a correre. Poi con un forte respiro pensano ai leoni, che si svegliano e iniziano a correre. Idioti che non tengono conto che nella giungla ci sono, ogni cazzo di mattina, milioni di cacciatori che sparano alle gazzelle e anche ai leoni, senza nemmeno correre. Che tu sia leone o gazzella non importa, prima o poi, se passi di qui, una pallottola te la prendi sicuro.

 

Contraband? (rivelazioni)

Aspetta, prima di tutto devo confessarti che in questo momento ho un grande desiderio di mettermi nel mio letto ad ascoltare ad occhi chiusi tutto l’iPod, fino alla consumazione della rotellina del volume. La consumazione della rotellina del volume è, effettivamente, uno degli ostacoli minori se paragonato al fatto che quello che ho davanti non è il mio letto e che la batteria del mio iPod può durare, nella migliore delle ipotesi, per tre canzoni consecutive. Vorrei musica, vorrei la playlist perfetta. Non aggiorno la libreria dell’iPod da circa due computer fa. Ascolto sempre le stesse canzoni da due anni. Un giorno, molto presto, farò il salto tecnologico e aggiornerò tutto. Nuova musica per le mie orecchie. Sul discorso del letto c’è poco da dire, ho imparato a dormire ovunque. Anche se prediligo ancora i letti con materasso, sono un discreto praticante di penniche in salette d’attesa, su ogni tipo di sedile, panchina o seggiolino. L’antica arte di adattarsi propria di tutti i commessi viaggiatori. Ho di fronte una domenica sera solitaria. La Signora, in questo preciso istante, dovrebbe essere seduta in una saletta lounge di prima classe, intenta a mangiare le olive mentre un macho bruno e scolpito le porta dell’acqua naturale a temperatura ambiente. Il mondo che va alla rovescia: io faccio migliaia di miglia in economy, schiacciato tra odori e carni calde e sudaticce, passando la mia Miles and More ovunque (anche in ascensore). Lei, che vola due volte l’anno, e per di più con le mie miglia, è divorata dal dubbio se mangiare il tonno grigliato o i cannelloni, sprofondata in un sedile xl a tre centimetri da una hostess ossessionata dal benessere dei suoi quattro passeggeri di business. Una serata solitaria non del tutto spiacevole. La città è fresca, ho un grosso libro rosa da finire, un iPod Precario da sfondare e otto canali satellitari da guardare allo sfinimento. Il grosso libro rosa è una rivelazione d’annata: si tratta di Zia Mame. Geniale trovata editoriale con cui Adeplphi segna un buon punto contro la melma da scaffale. Divertente, sicuramente da donna, sicuramente veloce, sicuramente d’annata. Ottimo, appunto. Dovessi mai finirlo troppo presto, dovesse mai finire la batteria dell’iPod (molto probabile), dovessero mai trasmettere per la sedicesima volta Harry Potter (su cui vanto il primato assoluto: ho visto tutta la saga in italiano, spagnolo e inglese), posso sempre dedicarmi allo scrivere. La pigrizia vince. C’è gente che ama solo quando soffre. C’è gente che studia solo due giorni prima di un esame. Io scrivo solo quando devo farlo. Non mi verrà mai in mente di mettermi a scrivere questa sera. E non lo farò. Un lungo elenco di scuse plausibili, tra cui la mancanza di birra, la mancanza di tabacco, la mancanza di aria, la mancanza di luce, ma mai la mancanza di voglia, saranno disponibili per la mia coscienza.

La rivelazione è che difficilmente di questo passo potrò mai scrivere il libro della mia vita. Ho troppo da vivere per scrivere. E spesso sono troppo impegnato a sopravvivere per pensare di vivere. Eccetera eccetera. Insomma, dovrai ancora aspettare, per leggere, divorare, sognare, le mie pagine. Vorrei tanto aggiungere una appassionata riflessione sul meccanismo perverso con il quale il Partito Democratico sta facendo fuori la dignità dei suoi tesserati, ma non essendo tesserato, non mi sento in dovere di farlo. Vorrei fare un piccolo pezzo sulla libertà di stampa, ma non essendo stato mai querelato dal Latin Lover di Arcore non posso farlo. Vorrei anche parlare del Milan, ma non essendo più milanista, non posso certo parlarne. Mi manca l’Italia, dove avrei potuto fare tutte queste cose, sentendomi anzi in dovere di farlo. Quando torno faccio la tessera al PD solo per poterla stracciare e farmi ridare l’euro che ho messo per le primarie di qualche secolo fa. Faccio la tessera al Milan solo per non adare a vederlo e mi abbono al Giornale solo per scrivere infuocate lettere contro la Santanchè. Insomma, torno a fare l’italiano medio.

Mi manca solo un finanziamento per rientrare preoccupantemente nelle statistiche istat.

E sti cazzi.

Il dolore di Luigi

Durante una delle ultime eclissi solari, mentre una moltitudine di esseri umani con ridicoli occhiali di plastica regalati da tutte le riviste che potrebbero regalare occhiali di plastica ai propri lettori, stava con il naso all’insù, come ipnotizzata dalla sparizione del sole, io ero a qualche decina di metri dalla costa, molto impegnato a fare l’amore. Questo va premesso quando si dice che i miei mal di testa sono come le eclissi solari, si contano sulle dita delle mani. Roba da segnare sul calendario per ricordarla. Però, durante le eclissi solari, come ampiamente dimostrato dalla mia vita, si possono fare molte cose che vengono decisamente difficili quando si ha mal di testa. In verità, con il mal di testa, è difficile vivere. Quei piccoli, insignificanti, gesti come portare la mano sinistra sulla bocca per toccarsi la punta dei baffi, o anche grattare il tallone contro il bordo inferiore del divano, per provare il piccolo brivido del calzino che sale e scende. Niente è facile con il mal di testa. Ma non siamo qui per il mio mal di testa. Per chiudere il tutto, mi limito a dare una cura davvero efficace per tutti coloro che, affondati dall’improvviso dolore, desiderano porre rimedio in maniera corretta e in pieno rispetto del proprio corpo. Si tratta di assumere dell’ibuprofene, facilmente reperibile nel Moment, insieme a della caffeina, facilmente reperibile nel caffè, il tutto con della nicotina, facilmente reperibile nelle sigarette, accompagnando con un album particolarmente impegnativo come Live in Liverpool dei The Gossip, ad alto volume, facilmente reperibile su eMule, o anche in un negozio di dischi, ammesso che ne esistano ancora. Volendo si potrebbe ricorrere anche a forme più primitive di cura, come il taglio dell’organo dolorante. Non è tuttavia documentato l’esito su soggetti curati con il suddetto sistema.

Volevo accennare l’interessante biografia di Luigi Luigi, lo sfortunato inventore nato nei primi anni del settecento da Carlo Luigi e Antonella Baiano. La storia di Luigi Luigi è una delle più interessanti sia dal punto di vista scientifico sia dal punto di vista biografico. Non passano certo inosservate le sue invenzioni, talmente numerose da dover essere numerate, come il tavolino Luigi XVI, in noce moscata e pecorino, o anche la poltrona automassaggiante a meccaniche rotanti, detta poltrona Luigi XV. Le meccaniche della poltrona, un delicato sistema di carrucole collegate con fili di nappa rubati alle finestre del palazzo di Cavenago Cambiago, eletto a residenza da Luigi Luigi, sono state riutilizzate per collegare il cervello di Enrico Papi alla bocca. Quando Alberto Angela renderà pubblico il suo progetto di invasione silenziosa dell’universo tramite macchine dalle sembianze di stupidi esseri umani, tutti potranno sapere che Enrico Papi, l’Onorevole Bondi, Francesco Facchinetti e molti altri, non solo altro che creature scaturite dalla sadica mente di Angela, chiamato dai suoi seguaci Dottor Quark. Dottor Quark, per il suo piano di dominio dell’universo, ha attinto molto dagli insegnamenti di Luigi Luigi. I due condividono un dramma esistenziale molto doloroso: portano cognomi che sono nomi. Sia Luigi che Angela lo sanno bene, e sono consapevoli delle innumerevoli sofferenze che questo porta anche nella progenie. Solo che Angela non ha avuto il coraggio di Luigi Luigi, il quale alla nascita del suo primo genito, in un cupo mattino di novembre del 1732, fece la geniale scelta di dare come nome un cognome, liberando il piccolo dalla terribile maledizione. Così il piccolo Cazzuolati Luigi non ebbe mai nessun problema, se non quello di sembrare scemo quando firmava nella casella nome scrivendo Cazzuolati e nella casella cognome scrivendo Luigi. Molte delle invenzioni del Luigi furono riutilizzate in ambito bellico. Durante alcune sanguinose battaglie di fine secolo furono utilizzate in massa le trincee portatili e le navi gonfiabili da lui inventate. Accortosi della drammaticità delle sue invenzioni, Luigi Luigi volle che tutti i proventi ricavati dalla vendita dei brevetti fossero riutilizzati per istituire un premio, consegnato su base meritocratica, a chi si fosse distinto per la ricerca e la promozione della pace. Il premio Luigi ebbe la sua prima edizione a Cavenago Cambiago nel 1842, un anno dopo la morte del vecchio Luigi Luigi. Nel tempo, offuscato dal Premio Nobel, cadde in disuso, e in molti sospettano che i capitali trafugati dal nipote, Geronzoni Luigi, figlio di Cazzuolati Luigi, siano stati utilizzati per foraggiare la rivolta di Cavenago Cambiago contro Trezzo Sull’Adda. Una disastrosa guerra per il dominio della Minitalia, già allora il parco divertimenti più inutile d’Europa, e quindi molto conteso dai due comuni. Solo un secolo più tardi gli attriti tra i due comuni vennero risolti con la costruzione della quarta corsia sulla A4 e con la morte dell’ultimo promotore del conflitto, Ferlani Luigi, erede di Luigi Luigi. Una storia che ha offuscato la memoria del grande inventore, morto per un caso di malasanità, essendo stato impossibile al dottor Aristide Bagnoni, il geriatra che lo ebbe in cura negli ultimi anni della sua vita nella clinica svizzera di Cavenago Cambiago, poi distrutta per costruire la Esso Brianza Est con Autogrill, reperire la cartella clinica del suo famoso paziente. Le cartelle cliniche, raccolte per cognome dall’infermiera Luisa Danti, furono ispezionate numerose volte, ma nessuno fu in grado di trovare quella del Luigi, inserita erroneamente in quelle non compilate correttamente. Il povero inventore morì, drasticamente stroncato da un mal di testa, sabato 26 settembre, tra le braccia di sua moglie, Antonella Angela, capostipite degli Angela.

Vado ad aggiungere alla ricetta dell’alcool, essendo l’effetto dell’ibuprofene ormai andato. Preferisco le eclissi. Decisamente. Sarà per i loro capelli biondi, l’accento romano e il costume a fantasia, ma le eclissi mi hanno dato molto più dei mal di testa.

Dedicated to Clod Ka Tarynell, inventore moderno.

Breve storia del cinema per perdenti

Le luci calano, in sala scende il silenzio, partono le reclame. Quanta poesia. Inizia il rapporto più difficile della mia vita, quello con il cinema. Una storia lunga una ventina d’anni, fatta di bassi e bassi. Mai un momento topico, mai una felice sensazione. Sprofondo nella poltrona, accerchiato dalla mia ignoranza devastante, pervaso dai sensi di colpa e invidioso di colleghi, amici, familiari che commentano pellicole e corti durante cene, aperitivi e serate. Si vede la mano di quel regista, ottime le inquadrature, decisamente sorprendente la colonna sonora, impressionante la fotografia. Io annuisco, cercando la bottiglia di rhum più vicina. Mai nessuno che si limita a commentare la storia, mettendosi al mio livello: bella storia, ottima trama, divertente finale. Io ai titoli di coda, se il film è bello, penso sempre a quello che ha scritto la storia. Niente di più. Non mi accorgo di una fotografia sopraffina, di una regia rivoluzionaria, di un sorprendente stacco panoramico. Alle medie, nel turbinio di foruncoli, primi allungamenti di basette, imbarazzanti Reebok Pump bianche su jeans stretto del mercato, ho impegnato tutta la mia paghetta settimanale per uno spettacolo pomeridiano in Duomo. Obbiettivo finale il consumo totale della trachea della allora fidanzata, con la quale condividevo un rapporto profondo e maturo da più di tre giorni, con due incontri davanti a un Mac Donald e tre tentativi di approccio sfumati per timidezza. Dopo essermi lavato i denti sette volte, impregnato di deodorante come un Arbre Magique, censito la popolazione di foruncoli, ho preso il coraggio a due mani e mi sono incamminato verso la vera svolta della mia vita. Ah, l’amore. Peccato che il film fosse Philadelphia. Per chi non lo ricorda, un superbo Tom Hanks che muore alla fine del film di aids, senza tralasciare di rovinare tutti i rapporti umani che aveva. Mezza sala piangeva, l’altra metà era nello stato psicofisico che solo un film triste può creare.  Per anni evitai quei luoghi tenebrosi che mi allontanarono da una sicura limonata, creando un primo substrato di ipocondria. Fu la scoperta di Blockbuster, e dell’intimità del mio soggiorno a farmi lentamente recuperare. Un giorno di luglio di qualche anno fa, al posto di preparare l’esame di diritto pubblico, ero impegnato ad innamorarmi follemente di una mia compagna di corso, la quale, per ozio e odio nei confronti della Costituzione, ricambiava. Giorni magici, pomeriggi perfetti, serate incredibili. Una passione totale, una corsa folle al bacio più bello, un gioco incredibile di vestiti appena slacciati, di parole smozzate, di bicchieri lasciati a metà. Essendo studentessa fuori sede, viveva con altre novantasei amiche del paesello, in trenta metri quadrati. Era statisticamente impossibile stare soli per più di due secondi, e ogni venti minuti mi veniva offerta una canna o un bicchiere di vino del paesello. Belle serate, d’accordo, ma la passione premeva. Passeggiando per Via Torino, innamorati come solo due futuri studenti fuori corso sanno essere, abbiamo incrociato un cinema. Ed è bastato uno sguardo. Ci siamo fiondati in sala, comprando il biglietto, l’acqua e i pop corn i meno di un minuto. Ed è iniziato il film. Magia dell’oscurita, peccato che il film fosse Autumn in New York. Sempre a favore di chi se lo fosse perso, l’espressività di un supremo Richard Gere, una storia di una tristezza immane, l’autunno, la morte, i silenzi, le musiche. Siamo usciti distrutti e casti come due seminaristi. Un delirio. Solo il 18 in Diritto Pubblico mi ha dato la forza per andare avanti. Poi è iniziata la stagione delle Cagate Pazzesche. Con un sesto senso decisamente sovraumano, ho inanellato una decina di stronzate incredibili, un paio di volte uscendo prima della fine a fumare. Mi sento ignorante e tento di recuperare con massacranti sessioni casalinghe sui grandi classici, di cui qualche ora dopo non ricordo nemmeno il titolo. Va così. Niente da fare. Mi rimane sempre un senso di disagio, uno strano presagio, un brutto ricordo. E pago il biglietto come un condannato che consegna gli oggetti personali. Tutto questo per dire che, sicuro della mia scelta, e ancora più sicuro di Matt Damon, ho propinato alla Signora The Informant. Matt Damon, dopo Bourne Identity, Democracy, Fraternity, Serendipity, Morality, insomma dopo la trilogia perfetta per il sottoscritto, è asceso nella ristretta cerchia di attori che considero infallibili. Il trailer sembrava divertente. E poi c’è il regista di Ocean 11,12,13. Una sicurezza. Un mattone, lungo, lento, d’accordo molto carino, ma un mattone. Per film del genere ci vuole adeguata preparazione. La Signora dormiva beatamente dopo venti minuti. Il mio vicino di posto, che poi non so perchè era di fianco a me, che c’erano 338 posti vuoti in tutta la sala, russava profondamente. Le due signore davanti guardavano il telefonino ogni sei secondi. Io cercavo appigli nella mia immaginazione, ma è davvero difficile fare un film lento con una storia lenta, attori lenti, musiche lente. O forse sono solo io che sono troppo ignorante. Sta di fatto che per la prima volta nella storia tra me e il cinema, ho pensato seriamente che uno dei due deve cambiare. Così non può andare avanti.

Io sono un uomo d’immondo

Quello stronzo del libro di Carver si è dimenticato di immettersi nella mia valigia. Anche i calzini puliti si sono dimenticati. Per i calzini poco male. L’assenza di Carver aleggia pesante nella stanza. Non ho sonno. Passo in rassegna tutte le possibili azioni correttive all’incredibile gesto di Carver. Persona decisamente inaffidabile questo Carver. Me ne ricorderò, la prossima volta in libreria. Te la farò pagare comprando un libro della Kinsella. Non mi rimane che la televisione. Tolti i porno, che mi costerebbero troppa fatica intellettuale, passo in rassegna il palinsesto, ballando da una televisione locale spagnola a Mtv tedesca. La lingua tedesca non può essere messa in musica, questo il popolo tedesco dovrebbe saperlo. Appassionato da uno scippo in un vicolo di Barcellona, o almeno così credo di aver capito, cedo lentamente al sonno, sprofondando nel cuscino. Dopo essermi svegliato tre volte in due minuti e mezzo, per controllare di aver messo la sveglia sul telefonino, chiamo la reception e mi faccio mettere la sveglia. Sento il bisogno di dormire, ma il fatto di non poter leggere mi frustra. Riaccendo la televisione e guardo un delirante svizzero che vende coltelli, trapani, seghetti, martelli. L’enfasi è militare, le dimostrazioni molto fisiche. Per fugare ogni dubbio sull’indispensabilità degli utensili, incrocia gli usi e martella con il seghetto tentando di tagliare con il trapano. La Cnn è incastrata in un reportage sul canale di Panama. Sento il cuscino sempre più morbido, sempre più invitante. Controllo la sveglia sul telefonino e mi addormento lentamente, con degli strani rumori di sottofondo.

Tornato in Italia scopro di essermi perso la prima uscita in pubblico del duo Vespa Silvio. Per non cadere nel tranello catto comunista di essere informato male, decido di non informarmi del tutto. Ma rimango pericolosamente sospeso sul baratro dell’ignoranza. E la cosa mi divora. A quanto ho capito, sono state costruite delle casette in legno per le escort del presidente, che finalmente può lasciare villa Certosa al Polacco con il pisello più breve del mondo. Le casette sono state costruite dalla Provincia di Trento, però Bertolaso, passato da uomo ragionevole a incrocio tra Tremonti e Alfano, si è preso il merito di aver messo dentro ogni dispensa le cose indispensabili per la sopravvivenza, tra cui numerose copie liofilizzate del cervello di Bondi, ottimo condito con verdura fresca di stagione. Pare che qualcuno abbia bombardato delle navi piene di rifiuti radioattivi. C’è grosso biasimo dell’opinione pubbilca, che preferisce che i rifiuti tossici rimangano vicino alle coltivazioni di pomodori. Però, finalmente, potremo mangiare i totani alla Cernobyl senza dover importare il pesce e riducendo l’inquinamento. Sento di dovermi informare. Sento l’ignoranza che mi divora, eppure sono mancato dal suolo patrio solo per pochi giorni ed ero informatissimo sulle questioni vitali.

Maledetto Carver, me la pagherai

Quasi Quasi Mi sposo

Ricordo di essermi alzato presto, ancora non faceva caldo. Il cielo non aveva l’ombra di una nuvola. C’era il silenzio che c’è ogni sabato mattina in centro città. Ogni tanto un tram, niente di più. Bevevo il caffè in mutande, appoggiato allo stipite della finestra, guardando nel vuoto. Ricordo di aver vissuto tutto molto lentamente. Di aver pranzato, contro voglia, ascoltando mio padre immerso in un fiume di ricordi. Di aver passato quasi mezz’ora a farmi la barba. Usavo la lametta come fosse la prima volta. Ricordo di aver fatto una doccia di quasi venti minuti, sentendo l’acqua tiepida sulle spalle e aspettando chissà che o chissà cosa.

Poi ho iniziato a vestirmi. Guardando le scarpe lucide, nuove, perfette. Tastando con le dita la camicia inamidata, giocando con i gemelli. La cravatta, decisamente troppo nuova per aver un nodo decente, decisamente troppo unica per essere mai rimessa, combatteva con il colletto. Sentivo le mani quasi tremare. Ma non sono mai stato meglio nella mia vita. Sentivo mio padre vicino, guardavamo la strada guidando piano, come se non ci fossero orari. Arrivati, ci siamo fermati a bere un caffè. Fumando, insieme, guardavamo la piazza, e i ragazzi che arrivavano per il sabato pomeriggio. Sentivo la camicia perfetta, il cotone pulito strisciare sulla pelle. Sentivo le guance lisce, guardavo le scarpe lucide. Respiravo profondo, aspettando. Guardavo mio padre, rasato, perfetto, ordinato.

Passava il tempo, però non passava mai. Fumavamo piano, ci siamo detti poco. I ricordi di mio padre erano i più belli che abbia mai sentito. Parlava di mia madre, sembrava fosse li. I suoi occhi andavano e venivano per la piazza, quasi cercandola. La voce si faceva lenta, le parole più controllate, il tono profondo. Un tiro di sigaretta, una lunga pausa, poi si è messo a posto la cravatta. Giocava con le dita tenendo il fiore all’occhiello, quasi accarezzandolo. Lo sguardo sempre fisso nel mezzo della piazza. Un altro tiro di sigaretta. Il rumore della carta che brucia, nella piazza tutta in silenzio. Poi un tram in lontananza. Il suo silenzio. Poi si è girato, mi ha guardato e ha appoggiato le mani sulla mia giacca. Sentivo il peso delle mani, aspettavo la leggerezza delle parole. Quasi sotto voce mi ha detto: "E’ stata la cosa più bella che abbia mai fatto".

Poi abbiamo finito la sigaretta, spegnendola insieme e giocando con la punta della scarpa. Ci siamo lasciati il tendone del bar alle spalle, e sotto un sole caldo e buono, ci siamo immersi nella piazza, camminando calmi.

"non è la prima volta che andiamo a un matrimonio", scherzavo. Lui rideva, poi ci siamo fermati. Guardando le colonne, il portone, i fiori, ho finito:

"ma è la prima volta che vieni al mio matrimonio".

Ridevamo, fermi immobili, come due cadetti in parata. Poi siamo entrati in chiesa.

Ed è stata la cosa più bella che ho fatto fino ad oggi.

Giusto giusto tre anni fa.