Quale Rhum Bevo io, quale rhum bevi tu

Cercavo un libro di poesia. Non cercavo un libro in particolare, ma avevo una vaga idea. Ho incontrato una poetessa, mi ha fatto comprare il suo libro. Ci siamo parlati. Abbiamo parlato della Scigheira, di Catalano, di Milano. E di poesia. E' una bella signora, le sue parole sono eleganti, gli occhi sinceri, e il libro decisamente bello. Sto ancora cercando il mio libro di poesia. Di contro, oltre che con il libro di questa signora, sono uscito dalla libreria con un libro di Raffaele Nigro. L'ho comprato per il titolo, non ti preoccupare, nemmeno io avevo la più pallida idea di chi cazzo fosse Raffaele Nigro. Con i libri è così. Per questo è la passione più bella del mondo. Quando proprio credi di aver letto tutto e toccato il cielo del giallo/noir con la Vargas, ti piomba Wislow tra le mani. Quando credi di aver finito, e placidamente osservi i tuoi libri ordinati secondo la personale classifica: i migliori del novecento, scopri di aver infilato nella tua libreria meno di un millesimo di tutto il novecento. Devi ammettere che, ad esempio, con le macchine da corsa oppure con i francobolli c'è molta meno possibilità di rimanere francamente stupiti.  E poi un suggerimento per un buon libro può arrivarti dal più idiota dei tuoi colleghi, perchè i libri sono così, si fanno prendere da tutti e si fanno leggere. E le storie che i libri raccontano si fanno trasportare di voce in voce. E magari ti arrivano al momento giusto. Poi, continuando a camminare attraverso il centro, cercavo una bottiglia di rhum. La mia storia d'amore con il rhum è come la mia storia d'amore con i libri. Cercavo un buon rhum, non avevo in mente nulla di particolare, se non un rhum di cui mi avevano parlato. Viene dalle Barbados. Il rhum è come un libro, devi sentirne il bisogno. Ci sono periodi in cui il Bacardi basta e avanza al tuo palato, ci sono periodi in cui la tua sete è complessa. Questo rhum viene dalle Barbados. E' forte, aspro, caramellato e bianco. Rhum fine per palati fini. Poi in fondo, qualche volta va bene qualsiasi cosa, basta che sia rhum, o basta che sia un libro.
Non ho trovato il rhum, ma ero pieno di cose da festeggiare. Solo uno stolto potrebbe farsi trovare impreparato dalla vita, con un sacco di cose da festeggiare, ma senza rhum. Ma a casa mia dorme, coperto da un portabottiglia di raso, eredità del doloroso capitolo: "ho fatto la lista nozze ma mi hai regalato quel cazzo che volevi tu, e nello specifico è davvero un regalo del cazzo", una preziosa bottiglia di rhum per questo genere di emergenze. Che di alti e bassi nella vita ce ne sono parecchi, ed è un peccato non festeggiare gli alti, che poi ti tocca bere quando navighi nei bassi. Il libro di Raffaele Nigro ha tutti i difetti per essere un libro che non comprerei mai: non so chi cazzo sia Nigro, ha la copertina rigida, costa uno sproposito e non ha lo spessore per entrare in nessuno dei buchi che mancano per riempire la mia libreria. Però nel titolo compaiono sia la Pivano che Hemingway. E allora spendi tutti i soldi, senza pensarci. Come davanti a un bicchiere di rhum. In compenso, il libro di poesie si intitola: mi rifiuto di essere più alta di un fiore, e la bella poetessa si chiama Giovanna De Carli. Invito a comprare, perchè non c'è più bel gesto che comprare un libro di poesia oggi.

Inoltre rispondo all'anonimo commentatore che chiede qui che rhum si beva. Sarò conciso, qui si beve rhum. Il rhum è rhum. Ci sono periodi della vita in cui qui si beve Vizcaya, Mount Gay, Barcelò, Barcelo Imperial, Pampero Reserva, Tortuga, Diplomatico, El Dorado, Zacapa, Caroni, Botran. Ci sono anche periodi in cui non riesci a farti dare niente di diverso da un cazzo di Bacardi. (cercalo, si scrive cazzodibacardi, tutto attaccato. Solitamente lo trovi negli stessi posti dove ti danno pessima musica e gente che si sente molto figa. Fai attenzione, quando bevi cazzodibacardi solitamente incontri persone che bevono cazzodibacardi). Io, personalmente, sono affettivamente legato a un rhum in particolare. Ma, come con i grandi scrittori di cui non conoscevi nemmeno il nome, per rispetto bevo tutto.

PS: non comprare mai rhum o libri in internet. E non comprare mai libri nello stesso posto dove compri il rhum. Nello stomaco, poi, si mischia tutto, ma diamine diamoci delle regole.

La Schiena di Siena Parte prima

Ci sono moltissime cose da fare a Siena. Ad esempio, sentirsi a casa. Finalmente. E, sospirando sommessamente, accucciati nel letto a guardare le travi, dire: finalmente. Oppure si può camminare per i vicoli facendo finta di essere in un posto come un altro. Si possono cercare i rumori delle colline, guardando dall'alto delle mura, oppure si può cercare un muro che non racconti una storia lunghissima. Si può camminare, praticamente fino alla fine del tempo. Camminare a Siena è diverso dal camminare nelle città del mondo, lontane dall'ombelico di tutta la storia.

Io e la Signora, passeggiamo con il rispetto dei nostri passi. Beviamo da grandi bicchieri di vetro, lasciandoci alle spalle tutti i progetti che ci hanno inseguito da Milano. Fumiamo nell'ombra di un vicolo. Guardiamo il rosso di Siena, di tutti i tetti e di tutti i mattoni, diventare porpora nella sera nuvolosa.

E lentamente prepariamo il nostro ritorno.

Come riconoscere un rompicoglioni

devo fare una premessa: questo post sarà molto lungo. Lo so già prima di scriverlo. Una delle regole, non scritte, di questo posto, è che ogni pezzo deve essere scrivibile in circa cinque minuti e leggibile in circa sette. Quest'ultimo dato è pesantemente condizionato da troppe variabili e non è mai stato preso seriamente. In ogni caso questo post sarà lungo. Lo so già. In primis perchè esporrò un concetto a me molto caro, quello dell'arte di riconoscere i rompicoglioni. E poi perchè il mio mac è bloccato su una misteriosa funzione di iPhoto. Che un mac è sempre figo tranne che quando ti si inchioda. E non si inchioda mai, va detto. Tranne che quando si inchioda. Pare che un mac inchiodato possa essere tolto dalla sua condizione di "inchiodato" semplicemente lasciandolo fare. Come con l'amico sballone che si è ingoiato quattro funghetti allucinogeni e vede grossi crocifissi che lo inseguono per vallate di marzapane mentre lui scappa a bordo di un gigantesco espositore di deodoranti. Puoi solamente lasciarlo fare. Poi passa. Pare che il mac sia nelle stesse condizioni. Ho deciso di lasciarlo fare fino a questa sera. Poi utilizzerò il metodo che ho sempre usato con tutti i pc che ho avuto. Lo provo a riavviare e se non lo fa lo sbatto con forza contro uno stipite. Ma, come gesto di fiducia in Steve Jobs e in tutti gli sballoni hippie di San Francisco e di tutta la California, ho deciso di lasciarlo fare. Solo che, non rimane molto della mia vita in un fine pomeriggio in cui dovevo fare sei cose, tutte e sei con il mio mac. E' inverno, è buio, è il 27 dicembre. Tutte condizioni che precludono qualsivoglia attività. E poi mi ero fatto un programma, cazzo. Noi ossessivi compulsivi abbiamo bisogno di un programma. E che il programma sia seguito. Cazzo. Domani, ad esempio, ho tutto il pomeriggio per comprare poesia sudamericana. Domani, non oggi. Oggi avevo tutto il pomeriggio per lavorare al mac. Il mio programma mi lascia molta libertà. Comprare poesia sudamericana prevede che io possa comprare dei libri di Neruda, oppure che io voli in sudamerica per comprare Neruda stesso. Ma, di sicuro, non si può invertire l'ordine dei giorni. E' fuori dalle mie capacità mentali. Quindi non mi resta che aspettare che il mio mac smetta di cavalcare vallate di marzapane a bordo di un espositore di deodoranti. Quando la vita mi tende il tranello peggiore, ovvero mi costringe ad aspettare, si innesca uno dei più pericolosi processi chimici che il mio corpo sia in grado di mettere in atto: inizio a pensare. Per questo faccio in modo di aspettare il meno possibile. Prendo aerei e treni un minuto prima che le porte si chiudano, salto le code del supermercato fingendomi incinto, non vado in posta nemmeno sotto tortura, e al prelievo del sangue arrivo tre ore prima che apra, fottendo tutti i vecchi della zona. Come in tutte i natali della mia vita, anche il 24 dicembre 2010 sono uscito, in largo anticipo, a comprare i regali. La cosa finisce, sempre, nello stesso modo. Ho due o tre buone idee. Le eseguo con impeccabile precisione, e poi mi fisso di dover leggere il giornale bevendo il caffè in un bar del centro. Un bar vicino alla mia libreria. E poi finisco in libreria. E mi dico che c'è ancora un sacco di tempo, e che posso tranquillamente comprare dei libri per me. Che tanto mancano dodici ore a Natale e che in dodici ore si può attraversare il mondo, figurarsi se non si può comprare una dozzina di regali di natale. Finisce sempre bene: riesco sempre a comprare due o tre libri per me. Sui regali, fortunatamente le persone che ho intorno sono sufficientemente mature da comprendere la mia situazione, oppure si incazzano da morire. E allora, semplicemente, ci perdiamo di vista. Roba da poco. Questa vigilia ho comprato un libro divertente, di quelli di formazione aziendale che ogni tanto compro per sopperire al fatto che non mi sono mai laureato in Economia e Commercio e che mi sento complessato. Un libro piccolo, breve, ma estremamente saggio. Un saggio, oserei dire, per riassumere. Nel libro, oltre a un sacco di accenni a concetti che prevedono l'acquisto di altri libri degli stessi autori, come da consolidata tradizione in questo genere di libri, e oltre che un sacco di ricerche che danno ragione agli autori e alla loro tesi, c'è anche una divertente classificazione delle persone utili, arricchenti, intelligenti e le persone pessimiste, inutili e dannose. Il libro li denifisce radiatori e fogne. Ovviamente, caldeggia la frequentazione di persone radiatori. Trovo molto appropriato l'utilizzo del codice binario per la classificazione delle persone. E' una tesi che porto avanti da anni, e che mi porta, tra le altre cose, a giudicare una persona nei primi cinque secondi in cui la conosco. Alla lunga comporta alcuni effetti collaterali decisamente secondari, come l'avere meno di duecento amici su Facebook e l'essere definito uno stronzo, egoista, egocentrico e un sacco di altri complimenti. Ma sono effetti davvero secondari. Uno dei pregi indiscussi di questa comoda classificazione è il non perdere tempo con persone inutili. Questa cosa di perdere tempo con le persone inutili è uno delle principali fonti di introito delle compagnie telefoniche e degli studi di psicoterapia, quindi comprendo che la mia teoria, per quanto rivoluzionaria, sia alquanto impopolare. Riconosciuta una persona come inutile, è ragionevole smettere immediatamente qualsivoglia tipo di comunicazione. Con educazione, per carità, ma con deciso piglio autoritario. E' buona educazione lasciare che il rompicoglioni finisca il discorso, ma poi è sufficiente andarsene. Difficilmente capirà di essere un rompicoglioni, ma sicuramente vi darà dello stronzo e vi eviterà in futuro.
Qualche piccolo rimorso, rigurgito di una coscienza cattolica, potrebbe soggiungere ai principianti. Ma, in fondo, basta pensare, anche al neofita di questa pratica, che la vita è fatta di tempo, poesia, carne, amore e parole.

Ora, fortunatamente il mio brusco carattere allontana quasi autonomamente le forme più comuni di rompicoglioni, ma alcuni striscianti mutanti della specie riescono ancora a insinuarsi nella mia vita. In fondo, con questi ultimi, si può sempre essere stronzi per davvero. E' poco caritatevole, ma da un sacco di soddisfazioni.

Sul come riconoscere i rompicoglioni, vero oggetto di questo sproloquio, devo purtroppo glissare amaramente. In fondo, l'arte di evitare i rompicoglioni è una dura palestra. Metti la cera, togli la cera. Metti la cera, togli la cera. Starà a voi, con il rischio di eliminare più del quaranta per cento della rubrica telefonica, scegliere se vivere meglio o se lentamente morire dentro un inutile vortice di banalità emotive. Non posso certo svelare alle masse l'arte sopraffina, ma posso dare l'unico consiglio che può mettervi sulla retta via.

Ascoltate il doppio di quanto parlate, ma ascoltate solo cose interessanti. Che sia politica, sport, una recensione, l'elenco delle fermate del metrò, una persona Yeah lo rende sempre un discorso interessante.
Cercate punti di vista diversi dal vostro, ma mantenete ossessivamente la vostra idea. Sbagliata, ma è sempre vostra. Non date mai una seconda possibilità a nessuno. Una persona Yeah non ha bisogno di seconde possibilità. Cercate divoratori di vita, state lontani da quelli divorati dalla vita. Portate sempre la gente verso un cambiamento, ma siate più veloci di loro a cambiare.

Se sentite necessità di leggere ancora consigli di questo genere, o siete avidi consumatori di stronzate New Age oppure avete seriamente bisogno di cambiare vita. In entrambi i casi, consumate molto rhum, aiuta.

In fondo, ci sono moltissime strategie per tenere alla larga i rompicoglioni. Molti sono stati i maestri dell'arte suprema. Tutti morti, come tutti gli altri uomini, prima o poi. Ma nel mentre, passando per stronzi si sono goduti la vita.

Come impacchettare una racchetta da tennis vol. 1

Si, a meno che tu non sia fanatico dell'ortodossia cattolica, sei ancora in tempo. A metterti fretta, correndo sotto la pioggia, infilato in tram pieni come treni indiani, o in code di macchine che ricordano il traffico di Taipei all'ora di punta, oppure in coda sul marciapiede di una via del centro, camminando lentamente, a metterti in tutte queste situazioni sei stato solo tu. Hai ancora tempo. E il tempo che ti rimane andrebbe usato per fare la cosa più importante di tutte. No, non il pacchetto con la carta rossa e il fiocco d'argento. Nemmeno il cd masterizzato con le canzoni di Natale, per dare atmosfera quando apri i pacchetti. Hai tempo per scrivere. Fallo. Un uomo intelligente fa un sacco di domande e parla molto. Un uomo saggio ascolta un sacco di risposte e le scrive. Prendi una penna, una matita, una tastiera, e mettiti a scrivere. Dai un senso a quei pacchetti. Fa che un cappello da scemo, pur rimanendo sempre un cappello da scemo, abbia la sua dignitosa presentazione. Le tue parole sono la distanza tra un regalo e un dono. Scrivi alle persone che ami. Prova a pensarci, non sono poi tante. Si conteranno sulle dita di una mano. Mettici tutte le parole che avresti voluto dire, tutte le sensazioni che ti sembrano scontate. 

Scrivere ti darà il potere di fare qualcosa di sensato. Parlerai all'anima di chi leggerà le tue parole, darai colore a un profumo, darai spessore a una foto, potresti, ma qui si tratta di bravura, dare passione anche a un pessimo vino. 

Quest'anno ho pensato alla mia vita e alla vita delle persone che amo. Sulla mia mano avanza un dito per contarle. Allora ho pensato di regalare loro la poesia della nostra vita insieme. 

Cuffie microscopiche per ascoltare la migliore musica del mondo, quella che ascoltiamo insieme. Scarpe comode per camminare insieme. Libri per leggere insieme. Vino, perchè la poesia spesso va bagnata con un po' di ricordi, e il vino esala ricordi anche dagli animi più chiusi. 

Poi, volontariamente, mi sono infilato nel centro della mia città. Ho preso un tram che sembrava una scatola di sardine. Ho preso un caffè da un euro e cinquanta e ho aspettato che la gente mi spingesse dentro un negozio. Vendeva maglioni. Ho preso un maglione. Poi ho respirato l'odore di pioggia e di cinesi, guardando la scala del Museo del Novecento. Quanta poesia in un nastro di asfalto. 

A Natale siamo tutti più buoni, pensavo ascoltando una signora che parlava nel suo iPhone con voce talmente alta che tutto il vagone del metrò era, alla fine, al corrente della difficile scelta tra una cornice e un vassoio da portata. 

Poi, osservando un papà, con l'occhio spento e una racchetta da tennis sotto braccio, ho letto nelle sue occhiaie tutta la frustrazione di un lavoro, una casa e una città che gli vanno stretti. 

E, ascoltando il respiro delle gallerie, ho pensato: ma come cazzo si impacchetta una racchetta da tennis?

Non solo mi sembrano migliori, ma i libri, in fondo, dal punto di vista strutturale, permettono anche a un cane da riporto di fare un pacchetto di tutto rispetto in meno di un minuto e mezzo. 

Surf It Fritz.
Potrebbe essere il Natale migliore della vostra vita. 

So much to Say

Ci sarebbe troppo da dire. Ecco il punto. Arrivi fino in fondo alle cose, e poi ti ritrovi nel pieno di un piazzale di un autogrill, in una mattina in cui l'aria taglia come un coltello, a guardare un punto remoto oltre la ferrovia. La nebbia quasi nasconde la palla rossa che dovrebbe essere quello che rimane del sole d'inverno nel milanese. La prima sigaretta della mattina è sempre una sveglia troppo forte. Quando smetterò di fumare, giuro che lo farò, non smetterò certo di fumare la prima sigaretta della mattina. La chiamerò "l'ultima sigaretta della giornata" e mi godrò l'aspro, odioso, grumo d'aria calda che trapassa la gola. Non che guardare le ferrovie dagli autogrill sia un alibi sufficiente per lasciarsi passare la vita addosso, ma ci sono certi momenti in cui è decisamente meglio fermarsi a fissare un punto indefinito e lasciare che esca tutto. E' un modo come un altro per risparmiare sulla psiconanalisi e spendere quei soldi in modo diverso. Magari una sana botta di shopping compulsivo, che poi al maschile si traduce sempre in camicie azzurre su misura e maglioni scontati nel prezzo, nel colore e nel loro infeltrirsi appena vengono avvicinati alla lavatrice. Magari un sano bicchiere di rhum in un bar infilato in un vicolo di qualsiasi città, lasciando la mancia e un dito di rhum, perchè l'anima passa sempre a riprendersi l'ultimo goccio dei suoi vizi. In fin dei conti, alla voce "buttare via soldi per compiangersi", la psicoanalisi rimane il modo peggiore. Ci sarebbe troppo da dire è il titolo di quello che vedo oltre quel punto indefinito vicino alla ferrovia. Ho trent'anni più uno, ho una casa, che è un luogo interiore, ma ci pago un gran mutuo emotivo che mi costa sangue e fatica ed è quasi peggio di un bilocale in centro, ho un lavoro, spesso io sono il mio più grande lavoro, ho una salute minata solo dalla mia ipocondria, ma soprattutto ho la capacità di trovare un punto preciso oltre la ferrovia e rimanere a fissarlo, disarmato, per quasi dieci minuti. Solitamente faccio il punto della mia vita in contesti che facilitino l'ottimismo sfrenato. Ritengo decisamente importante aggiungere che, nel mentre di questa delicata analisi, la mia mano destra tiene saldamente un erogatore per il diesel, infilato nel serbatoio della mia unica, inseparabile, anima di ferro. Mia sorella, con immancabile precisione, mi ha chiesto, come negli ultimi venticinque anni, la letterina a Gesù Bambino. Che è il suo codice personale per chiedermi che cosa voglio per natale. Che è l'unica mia valida alternativa alla carrellata di pigiami e libri strani, stock di calzini di spugna, mutande bianche e altri attentati alla mia persona. Per qualche minuto, dietro i miei occhi, sono balenati alcuni oggetti sospesi in un limbo verde. Una pipa, dei gemelli di madreperla, una cravatta, due tette, una spiaggia, tre libri, un quaderno nero. La prima volta che sono salito sulla mia moto, accarezzando il serbatoio nero e girando lentamente la manopola del gas, ho capito che non me ne sarei fatto nulla di tutto il resto. La prima volta che ho accarezzato la sua schiena, sfiorando le gocce di sudore nel caldo di luglio, ho capito che non me ne sarei fatto nulla di tutto il resto. La prima volta che mi sono trovato in piedi dentro un onda, con le montagne e il porto che mi venivano incontro, ho capito che non me ne sarei fatto nulla di tutto il resto. Pensavo di aver letto tutto dopo aver finito Kundera. Poi mi è successa la stessa cosa con Marquez, con Pennac, con Miller, con Fante e Buckowsky, con la Vargas, con Neruda e con Tropper, con Ferlinghetti e con Eggers. Poi mi sono accorto che non finirà mai, ma in fondo non cè un gran bisogno di altro. La prima volta che mi sono trovato a saltare dentro a un marasma di persone davanti a un palco, maledetti No Use for a Name, ho pensato che sarebbe potuto finire tutto lì. La prima volta che ho scritto una poesia, ho davvero finito di pensare ad altro. E un sacco di altre prime volte. In fondo, tutto quello che ho bisogno è di avere tutto questo. Di avere il mio corpo, e di aver smesso di aver paura di usarlo per ballare, cantare, scrivere, parlare, nuotare, correre. Di avere la mia anima, che crede che sia sempre tutto finito in un libro, in una canzone, in un dettaglio di uno sguardo, ma in fondo si aspetta sempre di essere davanti a una nuova prima volta. In fondo, forse perchè tante cose stanno cambiando nella mia vita, proprio mentre me ne sto a fissare una ferrovia da un autogrill, è inutile scrivere una lista di regali. Tutti questi natali, e le primavere che sono seguite, e gli autunni che sono arrivati, e le estati che sono piovute in mezzo, mi hanno insegnato a non aver paura di sognare. A non aver paura di chiedere. A non aver paura di avere paura.

Da fottuto egocentrico catto comunista, i regali che volevo davvero me li sono già fatti da solo, in fretta e furia. Perchè non saranno certo questi dieci libri e due cravatte a dare un senso alle persone che me li portano. E allora, benvengano i calzini bianchi di spugna, i pigiami immettibili e aderenti, i buoni per un week end di viaggio regalati a uno che si ferma solo il sabato e la domenica. E' la poesia degli occhi di chi me lo sta dando tra le mani, gli occhi che aspettano quella grande cosa che distingue un amico da un figlio di puttana, l'aspettarsi un dono ma non sapere cosa sia.

Ci sarebbe troppo da dire, quest'anno. E mai come quest' anno non ho voglia di parlarne. Dei miei desideri. Come se parlandone si potessero sgretolare.

Grazie del tuo regalo, che in fin dei conti sei tu.
Per quanto riguarda i calzini di spugna bianchi, non li metto più da quando ho scoperto che non si limonava nemmeno a pagare con i calzini di spugna bianchi. E adesso che spendo mezzo stipendio per una cravatta e un paio di gemelli, non metterò certo un paio di calzini di spugna bianchi. E non vado in nessun luogo dove i calzini di spugna bianchi si possano indossare. E ho una scarsissima considerazione degli uomini che vestono con i calzini di spugna bianchi. Anzi, direi che un calzino di spugna bianco potrebbe anche precludermi un rapporto di amicizia. In fondo, fosse per me, i calzini di spugna bianchi  potrebbero anche toglierli dal mercato. Ma poi verrebbero a mancare quei chiari segnali di distinzione tra una persona di buon gusto e una di pessimo gusto, come dei grandi, spugnosi, intramontabili, scintillanti, calzini di spugna bianchi.
 

A volte le promesse andrebbero mantenute

Mi ricordo che lo chiamavano Ciccio. Era uno dei membri effettivi della compagnia del Campo, che poi erano quelli che dettavano legge di giorno e di notte. Al campo, di giorno, si giocavano partitelle truccate dalla paura di finire nel mirino di quelli, appunto del campo. Di sera, in sala giochi, si conquistava a fatica un posto davanti al Tetris per poi doverlo magari lasciare a uno di quelli del campo. Essere della compagnia del campo era, senza ombra di dubbio, molto più vantaggioso di qualsiasi altra cosa. Ciccio era il loro scemo del villaggio. Il prezzo da pagare quando si ha un fisico vicino alla forma della pera perfetta, un buon senso di appartenenza che sfiora il sadismo e delle tute da ginnastica molto fuori moda. Ciccio veniva preso per il culo da tutta la compagnia del Campo, ragazze comprese. Ah, le ragazze del Campo. Quelle si che erano ragazze. O per lo meno così ci sembrava. Non potevamo rimanere molto a guardarle. Erano tutte fidanzate con qualche ragazzo del Campo. Qualcuno dal soprannome estremamente cool, con il giubbotto giusto, i soldi al posto della merenda portata da casa. Eppure proprio quelle merende, una rosetta con dentro due etti di marmellata alle fragole e burro che farebbe impallidire il colesterolo in persona, sarebbero state la nostra salvezza. Era tutta una questione di sopravvivenza estiva. Da giugno a settembre. Giusto il tempo di un estate. In fondo, con gli occhi di uno che non ha quindici anni e non si trova nella compagnia sbagliata, nel paese sbagliato, al momento sbagliato, una cosa da nulla. Questione di vita o di morte per chi, come noi, era dalla parte sbagliata, con quindici anni, un bagaglio di brufoli da far invidia a una mappa tridimensionale delle alpi, e tutta la sconfinata certezza della propria posizione.

Poi fu la scoperta del basket. Giocavamo tutto l'inverno, tutti i giorni, dopo i compiti. Mettere quella cazzo di palla dentro il canestro era questione di principio. Tutte le sante sere. E poi, con la primavera, sempre più tempo. Ci si allenava anche il sabato, e la domenica si giocava tutto il pomeriggio. Giocare a basket a Milano negli anni ottanta significava fare in un anno tutto il triennio di mediazione culturale della statale. Si sceglieva il campo, come in un videogioco, in base al livello di difficoltà che si voleva affrontare. I filippini del parco Solari, veloci, scoordinati, tantissimi, avevano i palloni migliori. Della Nike. Poi si giocava in circonvallazione, contro i ragazzi delle scuole private figose. Poi si giocava con i neri del Sempione, contro lo strapotere della natura. Poco, pochissimo, tempo per cose tipo feste, ragazze e birre. Era una questione di allenamento, corsa, fiato, addominali, braccia, mira. Finiva che arrivavi a scuola con le dita tutte fasciate, le caviglie dolenti, e l'idea fissa di provare ancora quel tiro da tre.

Arriva giugno, e la fine della scuola. Otto ore di basket, con il sole, con il caldo, senza pensieri. C'era da sfidare i ragazzi di San Siro, quelli che se finivi per vincere, finiva sempre a botte. Si correva per la città in bicicletta, con il pallone legato dietro, e pochissimi pensieri se non quello di vincere. Semplicemente vincere. E poi, tornare in montagna. Guardare il paesone dalla macchina e domandarsi se mai sia esistito un canestro tra queste valli. E poi trovare il canestro proprio al Campo. E ritrovare Ciccio, sempre a pera, sempre più fuori da ogni moda con quelle tute che sembravano giganteschi pigiami, ma con l'orecchino scintillante. E Ciccio che propone di giocare a basket. e la compagnia del Campo che goffamente inizia a giocare a basket.

E, come in tutte queste storie, riconquistare prima che giugno fosse finito, rispetto, ragazze e Tetris a furia di tiri da tre, di blocchi e stoppate. E scoprirsi più forti, più grandi e decisamente più veloci.

E ritrovarsi la sera, fuori dalla sala giochi, a fumare le prime rosse, di nascosto da tutto e da tutti, e vedere lei, lentamente avvicinarsi e chiederti un tiro. Tutto d'un tratto, vorresti contare i minuti che ti separano dal paradiso, i secondi che ti separano dall'infarto, le ore che vorresti durasse questa sigaretta. E tu, che ancora confondi il dopobarba con il profumo, che ancora confondi l'amore con un canestro, senti forte il suo odore, che poi imparerai a chiamare profumo. E' Ciccio ad avvisarti delle botte che, prima o poi arriveranno. Sembra più spaventato lui, come se li sentisse, gli schiaffi, su di lui. E poi giornate che corrono troppo veloci, giocando, ma poi fermandosi a parlare con lei. Quando trovare un argomento non era un problema, ma trovare una sigaretta poteva essere un'impresa.

Poi, una sera di un sabato di luglio, fuori dalla festa degli Alpini, nascosto tra gli alberi della pineta, mentre tutti cercano di far durare una sigaretta tutta una notte, ti vedi arrivare lei. Che non hai mai notato come una minigonna di jeans potesse stare bene. In fondo non hai mai notato nemmeno che potessero esistere dei capelli così belli. Tutto inizia, tutto finisce, in un bacio. Sentire le labbra, e perdere il controllo delle mani, delle gambe, e del colore della pelle. Maledette guance rosse. Tutto, poi si sarebbe capito, può iniziare e finire con lo stesso bacio.

E dal quel momento cercarla, ovunque, continuamente. Cercare lei, le sue labbra e quella sensazione incredibile di onnipotenza che ti viene a quindici anni e senza un soldo oppure a cinquanta quando ne sei pieno.

Ciccio non l'ho più rivisto, probabilmente si sta rifacendo una vita dopo un'adolescenza da gregario. Speriamo abbia almeno imparato a vestirsi e si sia tolto l'orecchino.

Lei l'ho rivista oggi. Sembrava di rivedere sua madre. Ci ho messo un po' a riconoscerla, ma ritroverei quegli occhi ovunque. Non per gli occhi in se, ma per la sensazione che si sono portati dietro per tutta un'estate. Me li ricordavo come li ho trovati. Poco dopo, nel soffice letto di nuvole e ronzio dei motori, sospeso sopra il Mare da qualche parte nel mondo, sprofondato nel mio sedile, ripensavo a quegli occhi. E mi è venuto il sapore del panino con la marmellata, l'odore di una giornata di basket sulla pelle, l'aria fresca nei polmoni dopo una corsa per arrivare in orario a casa. Il Signore degli Anelli, l'odore di muffa della nostra casa, i compiti di matematica e l'incredibile certezza che tutto potesse durare per sempre, gli Articolo 31 e i Metallica, il male alle dita per aver suonato la chitarra tutta la sera, non saper chi fosse Battisti ma saper suonare tutte le canzoni, il vino caldo e il freddo della notte di settembre, quando tornando a casa lentamente, avevo capito che si trattava di un'estate solamente.

un posto in cielo

Mi ripeto, come un mantra, "non potrà piovere per sempre", mentre cerco di tenere il fiato per non allargare la pancia. Sono infilato sotto una tettoia di quasi venti centimetri, maledicendo la lunghezza dei miei piedi, mentre guardo malinconico le scapre su misura che si bagnano. Penso alle molecole d'acqua che penetrano il prezioso intreccio di cavallino. Sulle scapre di cavallino posso tenere una lezione universitaria, visto che so come si lucidano, come si nutre il cavallino dopo una lunga giornata di lavoro, come lo si tiene in forma per evitare le fastidiose piege, come si lavora la punta per tenere alla larga le righe. Ho una piccola mania ossessiva per le scapre eleganti, tanto da aver inserito il livello di lucidità della scarpa nelle tre prime posizioni dei criteri di giudizio di una persona in ambito lavorativo, appena dopo la rasatura e il colore della cravatta. Sento le gocce di pioggia infilarsi nel collo, proprio per finire nella schiena. Novembre, maledetto. Sta piovendo da giorni, esondano fiumi, straripano ruscelli, ci sono certi sottopassi dove organizzano tour per sommozzatori, eppure non sembra voler smettere. E io sono a cento metri dalla mia macchina, sotto un diluvio torrenziale, sicuro che smetta. "non pioverà per sempre". Però adesso ce la sta mettendo tutta. Io non uso ombrelli, non ne ho mai avuto uno. Forse alle elementari, ma non ricordo. Alle medie ne ho persi due sul tram, per andare a scuola. Non esisteva ancora la definizione di mobbing, così ho detto di averli persi e non che i due idioti di terza media che facevano il viaggio con me hanno lanciato il primo proprio alla fine di Piazza della Repubblica e il secondo se lo sono tenuti. Controllo ancora su Facebook che le loro vite siano tristi e ignobili come le ho sempre immaginate. Poi al liceo prendere la pioggia è diventato di colpo figo. Avere il quaderno Monocromo bagnato e inutilizzabile era un chiaro segno di superiorità intellettuale. La massiccia dose di ormoni prodotti dal mio corpo mi rendeva fondamentalmente indenne a ogni tipo di evento atmosferico, e la pioggia mi scivolava semplicemente addosso. All'università la pioggia era un'ottima scusa per infilarsi sotto l'ombrello di qualche compagna di corso. Magari andava nella direzione opposta. Ma era virtualmente nelle tue mani. Per dovere di cronaca, la tecnica dell'ombrello non ha mai funzionato. Poi è iniziato il lavoro ed è arrivata la macchina. Ho fatto un rapido conto dei kilometri fatti in dieci anni di lavoro qualche tempo fa. Ho felicemente superato, senza contare le migla aeree e ferroviarie, il milione di kilometri. Anni di diesel, cravatte e centri commerciali. Anni in cui, nei giorni di pioggia, si trattava semplicemente di parcheggiare al coperto.

A oggi non ho un ombrello di proprietà. Possiedo un paio di ombrelli in condivisione con La Signora. Uno è rosa, talmente piccolo che mi spunta il naso. L'altro si sta lentamente decomponendo, appoggiato sul calorifero all'ingresso due o trecento diluvi fa.

Qualche volta, come nei film, mi piace anche camminare sotto la pioggia. Tipo una volta ogni settemila giorni di pioggia. Essendo terrificantemente metereopatico, non vedo niente di positivo in una giornata di pioggia. Essendo residente al Nord e metereopatico, tendo a non vedere nulla di positivo nella vità da ottobre a marzo. Una lunga stagione di letargo motivazionale, dove mi limito alla sopravvivenza stretta. Mi piace la pioggia d'estate, quella calda di fine giornata. Mi piace guardare il mare mentre piove, perchè sembra un circolo infinito di acqua sull'acqua e poi adoro immaginare i pesci che se ne fottono. Mi piace la pioggia nelle fotografie. La pioggia e il bianco e nero sono perfetti, come la schiuma e il cappuccino.

Resto spalmato sotto la piccola tettoia, con lo sguardo perso nel vuoto, tra l'edicola e il fiorista, mentre mi ripeto che alla fine smetterà. Forse si tratterà di giorni, forse di mesi. Sopravviverò, come il santone indiano che è rimasto sotto l'albero senza mangiare. Sento il bisogno di nicotina, ma è impossibile assumerne, a meno che non mi dia fuoco all'abito, bruciando anche il tabacco. Ho bisogno di pisciare, potrei pisciarmi addosso per spegnere l'abito in fiamme dopo aver aspirato un paio di boccate di fumo. Tutto intorno il mondo viaggia, armato di poderosi ombrelli, come se nulla fosse.  Lentamente, come previsto, la pioggia aumenta sensibilmente. Da temporale si passa a fottuto temporale. Anche i proprietari di ombrelli hanno qualche problema perchè una leggera brezza gelata manda le gocce in giro, sfidando la gravità. sento i polpacci fradici.

E' in quel preciso istante, mentre il mio corpo si sforza di non pensare ai polpacci fradici, alla tintoria per l'abito, al fallimentare investimento personale di presentarsi a una riunione come se fossi appena passato sotto la doccia vestito, in quel preciso istante arriva lei. Mi cammina incontro, con passo deciso. Mi arriva a meno di trenta centrimetri dalla faccia e mi guarda. Una signora di una certa età, come tutte le signore dopo i cinquanta e con quei ridicoli cappotti che comprano le signore dopo i cinquanta. Mi guarda. La guardo. Piove, puttana galera.
Alla fine, piove veramente troppo, ma anche la vecchia ha diritto a entrare alla "Geriatria Ronzoni, primo piano a sinistra", penso mentre mi allontano dalla mia piccola tettoia, infradiciandomi.

 

Banane, polvere, mignotte, musica, vino e Frank Sinatra

Guardavo alla televisione un servizio sui barboni della città. Guardo sempre la televisione, mi aiuta con la lingua. E poi sembra tutto nuovo. Parlavano dei barboni della città, facevano vedere le facce solcate dal tempo. Poi mi sono addormentato, sognando di essere un agente in missione, imprigionato in una piantagione di banane, costretto a lavorare sui banani per raccimolare i soldi per tornare a casa. Poi mi sono svegliato, con il forte bisogno di ragionare davanti a una abbondante colazione. Adoro la frutta dei buffet degli alberghi di quarta categoria. E' chimicamente affine a una droga. Bevo caffè che sembra piscio di un diabetico, e penso che in fondo sognare di essere un agente in missione imprigionato in una piantagione di banani non è poi così normale, che che ne dica Freud. Merda, chissà come si chiamano le piantagioni di banani: bananeti? Bananeto è foneticamente irresistibile, e mentre lo penso penso che non sia molto normale pensare che "bananeto" sia foneticamente irresistibile. Tutto questo qualche settimana fa. Non troppo tempo fa, quasi un nonnulla.

Mi sveglio mentre l'aereo sbalzella nel cielo terso, per atterrare. Mi svegliano i movimenti bruschi, e mi ritrovo a conoscere perfettamente le colline, le case, le piscine, le strade. Guardare il mondo dall'alto, e sentirsi a casa. Poi salgo sulla metropolitana, trascinandomi addosso la grossa valigia. Penso al paradiso, a come sarà. Mi piace ricordare il momento appena prima della nascita di una storia. Quando l'amore ti sembra coincidere esattamente con il paradiso. Nella forma, nella sostanza, nel colore, nei profumi, nel lento e sinuoso movimento delle sue mani, quello è paradiso. La mia famiglia è nata dal paradiso. Complesso, infatti mi sveglia di colpo uno strattone della metropolitana. Il vagone sembra avere i conati di vomito. Scendo, salgo una innumerevole serie di scale, a piedi, poi fermo sulla scala mobile, mentre accanto mi passa tutta la vita che ha fretta di correre su una scala mobile. Poi arrivo al mio bar. Hanno una vecchia macchina del caffè della Spaziale. Roba che tira qui in zona. Miracoli del marketing di prossimità. Intanto, la vecchia macchina sputa fuori la cosa più simile a un espresso che si possa avere in questa città. Me lo bevo di corsa poi vado a pagare. E il cameriere mi saluta e mi chiede come sto. Che è quasi una settimana che non mi vede. Poi esco, mi accendo una sigaretta e respiro forte l'aria di una città che sembra sempre di più la mia città.

Alla sera, finito di mangiare, cammino per il centro. Riconoscere le facce dei barboni è una specie di deejavu. Nell'ipod Frank Sinatra strilla. Here we're all working, along Mississipi. Mi sembra quasi maleducazione sapere tutto di loro, delle loro disperate confessioni davanti a una telecamera, e non presentarmi. Tiro dritto, fino alla piccola piazza davanti al mio hotel. Questa città ha un centro molto definito. Un posto chiaro, dove chiunque può dire: sono in centro. Pieno di insenature, come un placido fiume. Insenature di vecchi palazzi, decrepiti e sporchi. Un fiume che erode lentamente il vecchio, rompendo gli argini in nome del nuovo. In queste case fatiscenti, da questi balconi rovinati dalla pioggia, si affacciano le puttane tristi. Sono puttane, lo capiresti anche da solo. Lo capiresti dai loro shorts, dalle tette ostentate fuori da provvisori top scadenti. Sono ragazze, vecchie, bambine, tristi. Cercano con lo sguardo gli uomini soli. Ostentano carne cadente. Puttane tristi. In pieno centro. Adoro bere l'ultimo bicchiere di vino nel bar proprio davanti alla piazza. E' un vino tremendo, acido, scadente, sporco come il bicchiere dove me lo servono. Lo devi bere di fretta, prima che il tuo fegato ricordi al tuo cuore che sei pur sempre un uomo, e che avrai diritto a un cazzo di vino decente. Lo bevo osservando gli uomini soli, rallentare il passo, furtivamente, e scegliere velocemente in questo mare di tristezza. Scopano con delle puttane tristi, in un posto decisamente triste. Mi fa impressione riconoscere le facce di alcune di queste puttane. Ricordo i loro visi, e osservo i loro movimenti, mentre cacciano sul viale. Pago, lasciando la mancia, nella speranza che possano comprare un vino migliore. Lo faccio sempre. E bevo sempre lo stesso vino.

Poi, preso dal freddo, cammino veloce verso il mio piccolo ritiro. Quei metri quadrati che assomigliano a qualcosa che conosco perfettamente.
Il vecchio portiere di notte è furbo abbastanza da non fare mai domande a nessuno, ma anche da ricordarsi sempre di salutare. Mi vede, mi saluta e mi chiede dove sia stato in questi giorni. Rispondo qualcosa, prima di infilarmi nell'ascensore per sparire sotto la mia trapunta.

E ripenso a due cose: la piantagione di banani e Garcia Marquez e le sue puttane tristi.

Mi addormento leggendo Don Winslow. Sto bruciando le tappe, correndo sulle pagine di Frankie Machine, poi della Pattuglia dell'Alba e adesso sul Potere del Cane. E' uno spasso trovare un buon autore tutto nuovo e mangiarsi lentamente tutto quello che ha scritto. Ti passa la fame di buoni libri, e in più ti diverti.

Poi mi chiedo cosa cambierà nella mia vita, mi chiedo dove sia casa mia. Porto tutto nel cuore. Ho una casa, fatta di persone e sentimenti. E la porto in giro per queste città.

C'è polvere in questa stanza, faccio fatica ad addormentarmi.

io e te tre metri sotto terra

Io non mi occupo più di politica da quando, più o meno, la politica non si occupa più di me. Per un tacito accordo, vessatorio in alcuni punti, mi limito da dare allo stato l'enorme gettito fiscale richiesto. Pago gli alimenti, ok, ma non vediamoci più. Così, come una ex moglie avida e grassa, lo stato si intasca metà di quello che guadagno, senza mai disturbare. Uso i servizi che mi spettano, annotando i circa trent'anni che separano l'amministrazione pubblica dal progresso. Paziento mentre consultano un database remoto usando un pc di dieci anni. Uso la sanità pubblica, tanto qui da noi è un feudo ciellino. Mi piace far lavorare i ciellini. Vado a votare, per tre valide ragioni: poter rientrare nella mia scuola elementare, nella mia aula in fondo al corridoio di destra. Quanti ricordi. Poi, è una grandissima occasione, da più di un ventennio, per osservare il regime da vicino. E infine perchè desidero che la sinistra nella mia circoscrizione elettorale non sprofondi sotto lo 0.08% a cui è legata dai tempi di Occhetto. Siamo in sedici a votare sinistra. Se quattro vanno in macchina insieme, immaginiamoli su un maggiolone cabrio, mentre fumano erba cantando i Modena City Ramblers, così tanto per distogliere l'immaginario dalla tristezza di Bersani, dicevo, se questi quattro vanno in macchina insieme e fanno un incidente prima del seggio, e altri due, in bici perchè sono convinti che ci sia troppo smog, si fermano a soccorrerli, siamo spacciati. Crolla la sinistra a Milano. D'altronde chi vuoi che si fermi a soccorrere quattro fattoni su un maggiolone. Beh, dicevo, io sto lontano dalla politica, lei sta lontana da me. Osservo il regime, guardo i caroselli in centro, mi fermo ad ascoltare i leghisti al semaforo che straparlano degli zingari che fottono le biciclette. Per quanto riguarda la politica locale, butta male da molti secoli. Pillitteri, Formentini, Albertini e la Moratti. E vuoi ancora che ci creda? Apprezzo tantissimo l'intrepida intelligenza emotiva con cui la Moratti riesce a manifestare gli importanti concetti con cui delizia la cronaca locale. Quando passo dal circolo del PD nella mia zona suono sempre il clacson. Innanzi tutto per svegliarli, che è ora di cena, e poi perchè così sentono che qualcuno li saluta. Sono in quattro, e in quattro fanno settecentododici anni. C'è una fortissima specializzazione sulle prostate, ma a parte un paio di incroci con strisce, autovelox, barriere militari, chiodi nell'asfalto, cecchini ai bordi, trincea di vigili armati, per proteggere i sei bambini che sono rimasti nel quartiere, non hanno fatto un cazzo. Prima si trovavano davanti alla chiesa, a dare i volantini con la falce e il martello. Adesso stanno davanti all'Esselunga a dare i volantini con la quercia.  Ha più lettori il volantino della pizzeria egiziana all'angolo. Ma in fondo, io e la politica locale non vogliamo incontrarci più, quindi non mi interessa.

Vivo a ottocentoquaranta metri dall'aereoporto. Distanza percorribile con diversi mezzi: i mezzi pubblici, appunto. Rappresentati gloriosamente da un autobus, una sola linea. Con tutti i pregi e tutti i difetti dell'autobus a Milano. Puoi, ad esempio, comprare il biglietto a bordo, ma costa 50 centesimi in più. Come una prevendita di un concerto. Oppure puoi andare con la macchina. Il parcheggio di fronte agli arrivi costa 90 centesimi per quindici minuti. Per forza che poi dobbiamo investire nell'oro. Se siete forti in matematica almeno quanto Tremonti quando calcola il nostro debito pubblico, converrete con me che si tratta di duemila e passa euro al mese. Costa come un loft in centro. Ci sarebbero anche la bici, la biga, il carretto della frutta, ma sono tutti mezzi vietati sull'unico viale che porta all'aereoporto. Ci sono i taxi. Diciotto Euro, diciottoeuro, dieciottofottutieuro, per ottocentoquaranta metri. Trentaseimilalire. Ventuno dollari, cento ottanta delle monetine cinesi.

Nel 2015, quasi vent'anni dopo le principali città europee, l'aereoporto potrà essere collegato con una linea metropolitana. Non è ancora chiaro se la cosa, cioè il collegare un aereoporto a un centro cittadino con un trasporto ecologico, su rotaia, interrato, a basso costo, possa in qualche modo tornare utile. Non c'è, in Italia, nessuna testimonianza in merito. Ancora una volta, Milano, sarà città pioniera nel progresso italiano. C'è stata una piccola discussione su quale aereoporto collegare, visto che tanto si faceva una linea metropolitana. Malpensa è più grande, c'è più spazio per fare le biglietterie, e poi inizia per emme. MMM, metropolitana milanese malpensa. Solo che, cazzo, alla fine Malpensa è più Varese che Milano. vai tu a capire che cazzo ci fa un aereoporto internazionale di Milano a Varese. E allora niente, ci mettiamo il treno ad alta velocità. Punto. L'altro giorno a Roma, a bordo del mio fedele frecciarotta, ho sentito l'annuncio del Napoli-Malpensa. Che cazzo ci va a fare uno di Napoli a Malpensa? In ogni caso, Linate è uscita vincente dalla sfida. Avrà la sua metropolitana, giusto in tempo per un evento, l'Expo, che si terrà esattamente dalla parte opposta di Milano, a uno sputo, si fa per dire, da Malpensa. Seguiranno a ruota, il wi fi sperimentale, a pagamento, in alcuni centri del centro centrato sul centro, ovvero su casa Moratti e l'importante installazione di altri settanta varchi elettronici dell'Ecopass, quell'area di interdizione al traffico inquinante dove se non c'hai l'esenzione non conti proprio un cazzo. Sono esenti pure i furgoni del 71, che vanno a nafta, e devono andare a Marghera a prenderla perchè non la fanno più così inquinante nel resto d'Italia.

E tu dirai, ma non vi eravate lasciati tu e la politica?
Hai ragione, ma in fin dei conti, come vedi, c'è ancora grande Intesa. Vado, che quando sono a Madrid prendo la metro anche per pisciare e comprare il giornale, per compensare.

 

Prometeo


Prometeo non voleva proprio saperne di andare alla settimana della Moda. Andava avanti e indietro per il lungo corridoio che dava sulla camera di Donna, ripetendo ad alta voce: "La settimana della moda, bah". La cosa non aveva l'effetto desiderato e anzi Donna procedeva imperterrita nel truccarsi. Ci metteva sempre un tempo indefinito, incalcolabile, lunghissimo, a truccare gli occhi. Gli occhi di Donna erano scuri, come i suoi capelli, abbastanza grandi da poter contenere tutto il desiderio di vita, troppo grandi per poterli nascondere dietro a una bugia. Prometeo allora si decise a vestirsi. Ci sono delle decisioni improrogabili, pensava allacciandosi i mocassini, che vanno prese al momento giusto. Dare ragione a Donna, d'altronde, ed accontentarla portandola in quella girandola di gente vestita in modo ridicolo e feste ridicole per gente vestita in modo triste, gli avrebbe consentito di portarsi a casa la possibilità di un sabato eccezzionale come ricompensa. Erano già due mesi che sognava di poter passare tutta la mattina al concessionario lungo la statale. Adorava l'odore di macchine nuove, il profumo della pelle, degli interni, del cruscotto. Avrebbe anche avuto, secondo lui, bisogno di una macchina nuova. Ma aveva aperto troppi finanziamenti. Uno per il cellulare, quello con la tivù, uno per la Tv a Led, che faceva bella mostra in soggiorno. Lo schermo era troppo grande, ma a lui sembrava meglio. Dopo il concessionario avrebbero potuto pranzare al Centro Commerciale. Lì c'era tanta gente, troppa, ma si poteva scegliere tra molti fast food. E poi c'era anche il reparto di tecnologia del supermercato. C'era sempre qualcosa in promozione. Magari non indispensabile, ma in promozione. Donna, di suo, non aveva chiesto nulla da quando erano rientrati dalle ferie. L'ultima settimana di vacanza in Sardegna aveva passato buona parte del tempo a fare Vip Watching sul piccolo molo del porto, mentre lui beveva birra guardando le belle ragazze a passeggio. Forse non sarebbero stati male insieme, si era detto, a parte la storia dei nomi. Nomi strani, è vero. Ma intanto erano insieme inossidabilmente da quasi due anni. Le aveva anche comprato un anello.
Donna aveva finito di truccarsi e si stava mettendo la giacca, mentre suonò il campanello. Andando ad aprire, faceva scivolare le ballerine sul pavimento appena lucidato. Era una cosa che faceva fin da bambina, diceva. Prometeo si alzò, mettendosi a posto la camicia di Frenkie Garage, nuova di zecca, dentro i pantaloni. Uscendo dalla stanza riuscì solamente a sentire un urlo soffocato provenire dalla porta. Donna era sdraiata, con il viso contro il pavimento, appena lucidato. Sopra di lei una misteriosa scritta al neon, con due mani, tentava di afferarla per il collo. Prometeo non riusciva a capire come fosse possibile che una scritta al neon avesse le mani. Ma non fece in tempo a domandarsi nulla, perchè un grande cestino di Windows si stava avvicinando con fare minaccioso percorrendo il corridoio a passo veloce. Il cestino aveva i piedi. E anche questo, pensò Prometeo, non era del tutto normale. Sembrava stralunato e paralizzato dal dubbio mentre il cestino di Windows cercava di inghiottirlo.
Poi, in un attimo, fu una luce tremenda, gialla. Non un giallo intenso, un giallo a bassa definizione si sarebbe detto. Dalla luce spuntò, con passo fermo, Ken Shiro. Prese il cartello al neon e lo gettò lontano verso la cameretta. Prometeo osservava la scena da sotto il cestino di Windows, che lo aveva inglobato e cercava di scappare. Fu con un calcio rotante che Ken Shiro tolse il cestino di torno, schiacciandolo con forza tremenda contro il muro. E fu allora, nello stesso istante, che comparve Chuck Norris. Spinse Ken Shiro contro il muro del corridoio, che esplose in una nuvola di calce. "io ho inventato il calcio rotante, giapponese del cazzo", urlava Chuck Norris. Solo allora si accorsero che l'insegna al neon con le braccia stava fuggendo, trascinandosi. Era grossa, e c'era scritto: "Fotostampe in 30 minuti".
Delirante, pensò Prometeo. Sulla porta, l'insegna venne fermata dal consulente ING Direct di Prometeo, che armato di zucche rotanti iniziò un duello all'ultimo sangue contro Chuck Norris.
Donna ansimava, sdraiata a terra, ricoperta di calce. "Mi hanno rovinato il vestito, Prometeo" urlava.
Solo l'avvento di tre dei quattro KISS (mancava Paul), riportò la situazione all'ordine. Chuck Norris e Ken Shiro scapparono dalla finestra, saltando sul tetto della 79, quella che va al Cimitero Monumentale. Andava la Cimitero Monumentale, visto che, con il tetto sfondato, si era semplicemente schiantata contro il muro del capannone del Borgoni Ezio, il carpentiere della zona. L'insegna e il cestino di Windows si fecero largo tra le zeppe dei KISS, scappando dalla porta.
Finalmente avrebbero potuto andare alla Settimana Della Moda, pensò Prometeo. Per nulla al mondo si sarebbe perso la Settimana della Moda, sapendo di poter chiedere in cambio un'intera mattinata al concessionario sulla statale.