Passami il costume, Robin!

Da piccolo, quando mi spaventavo per qualcosa, mia madre mi si sedeva di fianco, con le gambe strette nelle sue gonne, e mi accarezzava, con la mano destra, dicendomi:

Prendiamo il costume, quello da super eroe che hai nel cuore, e affrontiamo questa cosa da veri super eroi.

L’altro giorno riordinavo un cassetto. Sono quel genere d’uomo che infila nei cassetti tutto quello che avanza, scontrini, biglietti, oggetti, monete, ricette, quaderni, fotografie.

Ho ritrovato una foto di mia madre e della sua migliore amica, che parlano, sotto gli alberi in un chiostro. Mi ricordo tutto, il posto, i profumi, il maglione rosso di mia madre, largo, caldo, morbido, quando ci infilavo la testa piangendo.

Quando mia madre è morta, mi sono rimaste molte foto, molti ricordi, qualche rimpianto, due pensieri brutti, e un costume da super eroe, nel cuore.

Non lo uso più.

Ma ci penso.

E’ un costume che cresce insieme a me, mi calza sempre perfetto, a volte lo provo, in camera mia da solo, di notte, quando non riesco a dormire.

Ha un mantello soffice, e due splendide ali gialle sulla schiena.  A volte, ad essere sincero, cambia colore.

E’ pur sempre un costume da super eroe.

Credo che sia abbastanza standard, questa cosa di cambiare colore e essere sempre della taglia giusta.

Io sono morto due volte, fino a oggi.

Ho quasi quarant’anni, due vite me le sono giocate. Tutte e due le volte, mi sono dimenticato il costume, non ho fatto in tempo a prenderlo.

Poco male.

Ieri sera, prima di spegnere la luce, ho guardato quella foto di mia madre.

E ho pensato al mio costume.

Passami il costume, Robin, ho detto.

Che lo metto da subito, mi son detto.

Così la prossima volta mi trovo pronto.

 

 

A Natale, ovviamente

Pensare a com’era bello, il caldo del parquet della camera, il buio della notte della Vigilia, Milano e le sue notti di Natale, di semafori lampeggianti, strade deserte, freddo,  a volte neve.

Poi ti fermi un secondo, e pensi, il peggio sta passando. Non è proprio passato, ma sta passando.

Il Natale fa un po’ male, quando cresci, se cresci, perchè sei tu che ti metti lì, seduto come un pensatore greco, a scavarti nelle ferite con la lama affilata del rimpianto, con il pugnale degli errori. Sono armi che si imparano ad usare troppo tardi.

Sono sdraiato su una poltrona da barbiere, in un negozio nuovo di zecca, pieno di gente che da più attenzione alla sua barba che alla sua vita.

Mi fa sempre ridere un sacco, questa cosa degli uomini che spalmano prodotti per la cura dei peli ad altri uomini.

Ma poi mi perdo in quest’ora di attenzioni eccessive per le mie basette e per i miei peli, come se prendessi una pausa da tutto questo lottare, combattere, amare, correre.

Mi incazzo meno, quando ho la barba ordinata. Forse, mi piace credere, mi incazzo meno quando sono ordinato.

Mancano una manciata di giorni a Natale, quella settimana prima in cui da ragazzo sognavi ad occhi aperti, immaginando l’incredibile dei regali. Quella settimana in cui adesso, da uomo, oltre a curarti della tua barba per non far arrabbiare la tua fidanzata, che trasandato non vai bene, vorresti nasconderti dietro a un valido alibi, un’influenza, una piccola polmonite, insomma qualcosa che si possa risolvere poi per il 27, per scomparire dolcemente, sottrarti alla tortura di questi pranzi, di queste cene, dove si fa un sacco fatica a pulire il pesce dalle lische, a pulire le chiacchiere dalle solitudini, a sorridere davanti a una storia che non fa ridere ne pensare.

Esco, nel freddo gelato, con una barba in ordine e le mani giunte e cammino.

A me i bilanci mi escono facili.

Perchè sono uno che non ha mai smesso di fare bilanci. Soppesare cose, analizzare emozioni, capire le persone, affrontare le difficoltà, trovare risposte. Sono cose che mi vengono facili, quasi quanto dimenticare un appuntamento o una cena. Sono io. Così.

Salgo in macchina, e mi viene una voglia incredibile, pungente, drammatica, di andare al mare.

Adesso.

Sarà buio e freddo, ci sarà solo il rumore assordante delle onde, e il vuoto che riempie il cuore, quello del mare d’inverno.

Me lo diceva anche mia madre, la vita va vissuta per amare.

Mi guardo nello specchietto retrovisore e sorrido.

Sono bravo a far bilanci.

Sorrido.

Sono anche bravo a prendere gli errori degli altri e trovarci una via di uscita.

Sono anche bravo a ridere insieme a chi piange.

E mi ritrovo qui, a pochi giorni da Natale.

No, non sarei sincero a dirti che sono felice. Sono sereno, sto bene, osservo le piccole tempeste che minacciano la mia barca, mentre accarezzo il legno, è stato un anno davvero difficile, per una barca così piccola.

Ecco.

Vorrei andare al mare.

Per fermarmi.

A Natale, ovviamente

J. Pole e la mezzanotte di Natale

J. dormiva, provava a dormire, la sala buia illuminata a tratti dall’albero di Natale, luci bianche sulle palle argentate.

Non svegliatemi, voleva dire.

A chi?

La coperta blu, il divano bianco, i mobili, nel buio.

Non pretendo di essere niente di più di quello che sono.

Sono io, sono la mia domanda di vita, sono le mie risate sottovoce, sono le mie paure, sono il mio corpo che invecchia piano, sono le voci che mi sembra di sentire in casa, quando so benissimo di essere a casa

da

sola.

Avanti J., sembrava dirle il destino. Esagera. Prova a piangere. Lascia cadere le mani sui fianchi, come quando esausta urli nel telefono che non ce la fai più.

Avanti, è Natale, piangi.

Un sospiro, quello che anticipa le lacrime.

E un sorriso.

Anche Natale, per fortuna, è passato.

 

 

Nonostante tutto

  • Prima che mi addormenti ti devo confessare una cosa
  • mi spaventi quando dici che devi confessare.
  • E’ il senso del peccato, è una roba dovuta alle mie origini. Devo solo dirti un segreto.
  • dimmi.
  • io continuo a sognare.
  • io continuo, nonostante tutto, a sognare.
  • E’ solo che questo nonostante, che di fondo sembra una parola piccola, diventa sempre più ingombrante. E potrebbe confondere. Perchè uno potrebbe sentirsi debole e pensare che il nonostante, prima o poi, ci ucciderà tutti. Nonostante. Invece io continuo a sognare.
  • sono felice
  • anche io. Mi sono seduto su una panchina gelata, ieri notte, faceva davvero freddo, la città era deserta, è una città che non conosco, un clima che non conosco e non capisco, insomma un nonostante, ad esempio. Anche il tempo, diventa nonostante, se tutto ha un peso. E ho pensato: io sogno ancora. E sogno tanto.
  • credo sia collegato all’amore. Io amo. Amo da morire. Sempre lo ho fatto  e sempre lo farò. Nonostante.
  • ha fatto più vittime il tuo amore di una guerra.
  • vedi? Nonostante tutto, sono ancora qui.
  • tu si.
  • Io e anche chi ho, a modo mio, amato. Io amo per costruire, la mia rabbia esiste per distruggere. Ma nonostante la rabbia, io amo. Io sogno e amo.
  • cosa sei tu?
  • un piano rotto, in un aeroporto, che suona lo stesso, facendo la sua musica per qualcuno.
  • un dottore stanco che nonostante tutto sorride a un vecchio malato
  • un accordo che chiude la canzone giusta. Al momento giusto.
  • …. tu chi sei?
  • non lo so, ma io sogno. Cose semplici, come l’amore. Come la felicità. Nonostante tutto.

L’amore ci estinguerà

(monologo in tre atti, lunghi uguali, senza interruzioni, se il Teatro lo consente senza nemmeno luci di scena se non una piccola luce, calda, mi raccomando che l’attore è nudo. Sull’attore non ho preferenze. Che abbia, ve ne prego, una voce calda. Che le voci calde, addolciscono anche le storie più brutte. Ci sarà una canzone, alla fine, che sostituirà i saluti al pubblico. E, per finire, un prezzo politico per il biglietto. Un po’ perchè il teatro è di tutti, e un po’ perchè bisognerebbe tornare a vederlo ancora. Che come il vino, decanta).

L’amore ci estinguerà. Lo penso davvero.

Lo penso mentre mi accendo una sigaretta. Avevo smesso. Ho ricominciato.

L’amore ci estinguerà, una roba tipo quella dei dinosauri, la Grande Estinzione dell’Uomo.

Le malattie ci decimano, ma ci danniamo per trovare una cura. Ci curiamo, ci ammaliamo di nuovo, poi moriamo. Come tutti. E’ il nostro destino.

Nascere, vivere, morire.

Amare è una cosa diversa.

E’ una scelta. Che ci porterà all’estinzione.

Non c’è cura, anzi più andiamo avanti, più deliberatamente lo facciamo.

Ci estingueremo per amore. Delizioso.

Avevo smesso di fumare. Nell’ultimo anno lo ho fatto quattordici volte, contate. Mi sono stancato dell’odore, del sapore, del gesto, della dipendenza, eppure sono qui, nudo, sul terrazzo, nel buio, a fumare davanti a una pianta di aloe, si chiama Norberto, che sta sopravvivendo con estrema fatica al suo primo inverno. Stava meglio nel vasetto dell’Esselunga, al caldo dell’Esselunga, o nelle amorevoli mani di qualche vecchia signora fissata con lo Yoga, l’Aloe, il Dalai Lama e tutto il pacchetto di cazzate orientali che solitamente addolciscono le solitudini urbane.

Comunque sto fumando. Pensando. In verità sto lasciando uscire pensieri, preoccupazioni, sogni infranti, dubbi, paure, proiezioni psicotiche sulla fine, imminente, del mondo, senza opporre resistenza.

Lo chiamo: fumare nudi sul balcone.

Perchè non sono bravo a dare i nomi alle cose.

Mi chiamo Franz, ho trentotto anni, da quasi due sono separato. Di questo parliamo, quando ci ritroviamo a fumare nudi su un terrazzino che affaccia sulla tangenziale, incurante del freddo e dei vicini di casa. Parliamo di sapere chi sei, che cosa vuoi, e perchè sei qui.

Mi chiamo Franz, ho trentotto anni, e sono convinto che l’amore, per come lo intendiamo, ci estinguerà. Per nostra scelta, lo stiamo decidendo noi. E noi ci estingueremo. I dinosauri, comunque, non sono mica stati così consapevoli. Si sono estinti per cause esterne, magari anche incazzandosi. Noi no. Lo scegliamo.

La separazione, per riassumere una cosa che difficilmente si riassume, figurarsi se si spiega, è uno strano misto tra un fallimento e un lutto.

Un luttamento.

Ed è la prima delle grandi questioni. Due cose non sono capace di gestire nella vita. I fallimenti e i lutti. Come la maggior parte degli uomini, della mia generazione perlomeno.

Ho vissuto tremendi attimi di terrore per un’insufficienza in Geografia, ed ero quello che alla fine di un colloquio di lavoro andava comunque in bagno a controllarsi la cravatta, per fare buona impressione anche sulla receptionist. Fallire è un’ipotesi, non sono un idiota. Ma è un’ipotesi che ho sempre gestito in modo particolarmente folkloristico.

Sui lutti, mi sia concesso, siamo un po’ tutti impreparati. La cosa più sorprendente, di ogni lutto, è l’eredità emotiva. Quella che non ti aspetti. Quel sasso che ti si poggia sull’anima, che poi impari ad andarci in giro, ma che fai di tutto, appena succede, per toglierti di dosso.

Mi chiamo Franz, e da quando mi sono separato resto fermo, spesso, in piedi, nudo, in contesti dove non dovrei, secondo il costume comune, esserlo, nudo intendo, a pensare e a osservare il mio corpo.

Quasi mi prendessi una pausa.

Come i pugili, tra il terzo e il quarto round. Sentono il pubblico, sempre più lontano, sentono l’allenatore, una voce indistinta ma famigliare, sentono la fatica, la paura, la stanchezza, e si staccano.

Esperienza extracorporea, il pugilato.

E anche la separazione.

Lo so, perchè ho fatto entrambe le cose.

Anzi, credo che una delle cose che più ha fatto innamorare mia moglie sia stata proprio il mio naso rotto, e quello sguardo bovino, da calo glicemico più che da performance atletica, che avevo dopo gli allenamenti di boxe. Uscivo, mangiavo bresaola, e bevevo cuba libre. Quantità enormi di bresaola e di cuba libre. Difatti, quattordici anni dopo, ho un intestino in condizioni precarie e un tessuto muscolare tenuto in piedi da proteine e alcool. Però non ho paura di prendere botte, se vogliamo trovarci un lato positivo.

Io mi sono innamorato delle sue scarpe verdi di vernice, con uno stretto tacco a spillo. Roba forte, soprattutto se indossata di martedì pomeriggio, come se niente fosse.

E come se niente fosse, ci siamo innamorati.

Tutte le separazioni partono così.

E in mezzo ci sono le storie, di uomini e donne. Il vivere. Ecco, il vivere un amore, ci fotte.  Un po’ perchè non ci nasci capace, imparato, sereno, nel vivere un amore. Un po’ perchè l’uomo, proprio perchè uomo, ha una innata capacità di fottersi, tassativamente da solo.

Si chiama talento.

E io ne ho da vendere.

Me lo hanno spacciato come una cosa positiva, come un fattore differenziante, ma in verità è una dorata prigione di lucidità e follia.

Mi spiego meglio. Il talento è quella capacità di discernere le cazzate, comprendere che si tratta, in effetti, di cazzate, e di farle, deliberatamente, ma che dico, appassionatamente, una dopo l’altra. Quasi a sfidare il destino.

Spoiler: il destino vince sempre.

Mi chiamo Franz, è quasi mezzanotte, ho trentotto anni e un giorno in più, nessuna intenzione di suicidarmi, anche se fumare nudi su un terrazzo assomiglia a una delicata forma di autolesionismo, anzi una grande voglia di vivere, e una serena convinzione:

l’amore ci estinguerà.

Ed è per questo che voglio raccontarvi questa storia. Non per lasciare commuoventi testimonianze, ne per scrivere seri moniti e nemmeno per denunciare una drammatica situazione, seppure l’incedere insolente della calvizia da stress, una odiosa pancetta da alcool, e le mie strampalate abitudini, tra cui stare nudo, siano buoni indizi di quella che la maggior parte delle persone definirebbero una drammatica situazione.

Non ci vedo niente di drammatico, se non per la questione dei capelli. Che puoi dirmi tutto quello che vuoi, ma fanno tanto, in quei trenta secondi in cui una persona ti giudica la prima volta che ti vede, i capelli. Un bel taglio di capelli è quasi meglio di un bel vestito, e gli uomini calvi sono costretti, dal destino e dagli ormoni, a deviare la strategia di conquista della fiducia su armi secondarie e meno precise.

Comunque, non pensavo di uscirne pelato, non pensavo nemmeno di uscirne, a dire il vero.

Ed eccomi qui.

A gestire un luttamento, facendo la cosa più ragionevole che si possa fare: fumare nudi davanti a una piccola pianta di aloe.

A me, perlomeno, sembra molto ragionevole.

(continua, per forza, più che per scelta. Ma qui si può fare una pausa, per riscaldare l’attore e per permettere che si fumi, lasciate che il pubblico si alzi ed esca. Uomini e donne. Che si guardino, con indifferenza, anche se entrambi, accendendosi le sigarette, stanno pensando perchè sono ancora insieme. Non perchè, scusate, ma:

come è possibile?

Ecco, una pausa utile. Che è valsa il prezzo del biglietto).

 

November (Escort a Milano)

Mi manca il mare, quando Milano spara il cielo grigio piombo, infinito, come se Dio avesse dedicato più tempo del dovuto a spalmare la tinta, con una cura da pasticciere con una sacher.

Quindi mi manca il mare otto mesi l’anno. Certo, Novembre è il momento, insieme a febbraio, in cui sento la lancia della malinconia puntare forte nel costato. Sembra così lontano il mare, a novembre, che quasi ti perdi, dentro una coda in Tangenziale, dentro una riunione, dentro un aperitivo.

Ho imparato a gestire la malinconia, nessuna tecnica speciale. La fotto, illudendola. Preparo tranelli per la mia malinconia, prendo l’olio dei ricordi, lo spargo sul pavimento dell’anima e lascio che ci scivoli sopra. Appena si riprende, appendo pensieri leggeri alle pareti del cuore, tendendo i fili dei discorsi, e aspetto che ci inciampi.

Insomma sopravvivo. Con filosofia, più che con classe.

Ho sempre meno paura di vergognarmi, sempre meno capelli, sempre meno sorrisi da sparare a caso, le tre cose credo vadano di pari passo.

Mi abituo alla musica commerciale, alle smorfie di disgusto, alle donne con gli stivali, al cadere delle foglie, all’odore di chiuso e ai riscaldamenti sparati come se si dovesse crescere piante tropicali, invece siamo solo dentro un supermercato.

Viene buio presto, buio pesto, mi ritrovo a sperare che arrivi l’ora del sonno, prima del dovuto, non riesco a pensare a niente, mi perdo nei parcheggi dei supermercati.

Ho bisogno di far mangiare il cervello, così leggo, studio, scrivo, cerco, penso. Mi agito come se fossi certo di morire domani.

Forse, non vivessimo a Milano, sarebbe diverso. Forse non vivessimo sospesi tra un fallimento e le paure del prossimo, sarebbe diverso.

L’uomo non è definito dai suoi sogni, ma dalle sue paure.

A novembre, stranamente, le paure fanno più rumore,  come sassi in una scatola vuota.

Sono a corto di metafore, tra le altre cose. Per questo poi ci metto molto di più a scrivere, a novembre.

Ho paura, a volte. Per questo mi sento meglio definito, con l’arrivo dell’inverno.

La paura mi definisce meglio di quanto abbiano fatto i miei sogni.

Ragionamenti convulsi, ma pensaci. Sono le tue paure a dirti dove puoi arrivare, non i tuoi sogni. Poi si tratta di fottersi le paure, o forse fottersene. E sorridere ai sogni.

A tal proposito, del fottere le paure, del fottere in generale, sono un paio di settimane che ragiono sulla questione escort.

Saranno i miei capelli sempre più radi, sarà la mia pigrizia, sarà l’insicurezza che prende noi uomini verso una certa età proprio quando a voi donne invece vi prende una insaziabile voglia di rivincita contro le rughe e contro i vostri partner, ma riflettevo sul fatto che sono, a tutti gli effetti, un cliente target delle escort.

Separato, quarantenne, con poco tempo, con poca fiducia, con un fastidioso strato di cinismo proprio intorno alla vita, maledette maniglie dell’amore emotive, sono l’uomo che dovrebbe andare a puttane. Sull’etere e poi in casa, perchè per strada fa freddo, fa squallido, fa noioso e poi alla mia età temi sempre il controllo della Polizia, complice il realismo pessimista, che compromette anche la più promettente delle erezioni.

Sicché dovrei, sempre a rigor di logica, bazzicare siti intasati da turisti arabi, americani e indiani, per trovare l’amabile compagnia di una splendida ucraina, o forse croata, o forse brasiliana, o magari italiana, con lingerie deliziosa, profumo delicato, tacchi decisi, modi affabili, tariffe decisamente irragionevoli, per poi ritrovarmi impigliato in un pompino teatrale e in quattro, dicesi quattro, colpi di cazzo prima che lo squallore si impadronisca della coscienza.

No, andare a puttane non fa per me.

Riformulo.

No, pagare per delle puttane non fa per me.

Ci tengo molto, sia ben chiaro, alle puttane.  Ma non sono pronto a pagare per avere qualcosa che invece posso conquistarmi. E’ tutto lì.

Conquistarmi, per altro, facilmente. Difatti, vivendo a Milano, epicentro di molte rivoluzioni culturali, tra le quali l’approssimativo lassismo sessuale delle ultime generazioni e di qualche milf di ritorno, pagare è proprio da stronzi che si adagiano su un compromesso morale: perdere.

Ecco, se quindi sei venuto qui per cercare Escort a Milano, ovviamente hai perso tempo. E sei anche incazzato. Perchè ti ho fatto perdere tempo.

Comprensibile.

Ti invito a riflettere. Perchè pagare? A Milano, soprattutto?

Non farlo.

Non essere arrabbiato con me. Ti sto facendo quello che Novembre fa a me: quel senso di incazzatura e tradimento delle aspettative che solo i mesi inutili come novembre sanno dare.

Ciao.

 

 

Andres

Nuno aveva spalle larghe, muscoli tesi sempre infilati in maglie aderenti, polsi piccoli e mani grandi e nodose, che appoggiava, come un pianista, sul tavolo di formica del Bar Nova, il primo tavolo dopo la porta, dove una volta c’era il telefono appeso al muro, adesso una pubblicità di gelati, con i prezzi ritoccati su pezzi di scotch di carta bianca, pennarello nero.

Restava al tavolo dalle 18 alla chiusura, tutte le sere, tranne il venerdì, giorno in cui andava davanti alla parrocchia di San Sepolcro, sedeva sulla panchina di fianco alla fontanella, e restava per un ora a guardare la facciata.

In paese lo chiamavano Andres, senza una particolare ragione.

Avrà iniziato qualche vecchio. A volte nella vita succedono cose senza una particolare ragione, senza una storia eccitante alle spalle, senza una serie di eventi. Succedono cose. Che a spiegarsele si fa molta, inutile, fatica. E allora è meglio darle per assodate.

Come per la storia del nome Andres. Andres e basta.

Anche al Bar lo chiamavano Andres, anche se sul quaderno a quadretti dove segnavano i sospesi era scritto Nuno, con una serie di 1,5 scritti di lato.

I bicchieri di vino, tassativamente rosso, tassativamente pagati al giovedì, almeno quattro a sera.

Senza una particolare ragione, quindi, lo chiameremo Andres, come tutti facevano.

Era arrivato in paese sette anni prima, scappando dal Portogallo, dove era arrivato scappando da qualche isola caraibica, come se la storia delle sue fughe non avesse mai avuto un inizio.

Vendeva coltelli, pentole Inox e ricariche a gas per accendini, su un tavolo pieghevole, al mercato del martedì. Difatti era arrivato di martedì. E poi si era fermato.

Senza una ragione particolare. Girava i mercati, e con il passare del tempo aveva aggiunto anche calzini bianchi di spugna, in pacchi da cinque, e limoni. Che crescevano nel giardino della sua casa, alla fine della statale, prima che il paese prendesse forma.

Aveva un furgone bianco, segnato dalla ruggine, un Mercedes, tozzo e basso.

Andres non aveva famiglia, sembrava anche abbastanza sicuro di non volerne comunque una.

Una volta si era quasi innamorato di una delle ragazze del tabaccaio, la seconda figlia, Irene.

Amava, Irene, restare a servire dietro al banco lasciando la maglia aperta di due bottoni, sorrideva, Irene, degli sguardi di tutto il paese, delle mance degli uomini e dei sospiri delle donne. Aveva capelli castani, boccoli ordinati, labbra rosse di rossetto, guance rosa e sembrava poter domare il segreto dei segreti: l’amore.

Andres comprava sigari, e guardava Irene.

Irene prendeva i sigari dallo scaffale di legno tarlato e luccicante.

Poi si girava e sorrideva.

Andres faceva a pugni con quel sorriso, con quella maglietta, con quelle guance, come tutti. Solo che Andres, forse per le sue fughe, forse per il suo nome, sapeva incassare meglio. Ed era stata Irene, per una volta, ad abbassare gli occhi.

I miracoli succedono tutti i giorni, avrebbe detto Don Alvaro, il Parroco, che ben conosceva Irene, le sue magliette, e l’epidemia di sguardi curata in chiesa, a furia di avemaria e candele accese fuori dal confessionale.

Andres e Irene avevano iniziato ad aspettarsi. I sigari, come spesso succede anche ai marinai, erano diventati una scusa.

Poi Andres è come se si fosse risvegliato, da un sogno, di colpo.

Aveva preso i sigari, e guardandola le aveva detto:

  • conviene, per il futuro che vuoi tu, che ti sposi il Dottore o il Commercialista. Beati loro, che vedranno dietro a quella maglietta, e dentro a quelle guance.

E poi era uscito.

Tra le altre cose, smettendo di fumare sigari.

Cosa che non era passata inosservata in paese. Un po’ perchè Irene aveva smesso di sorridere, allacciava due bottoni in più, ascoltava canzoni con accordi in diminuita alla radio, e rispondeva male.

Un po’ perchè erano in molti a sperare, spettegolare, sognare, di una storia tra quello strano zingaro e la figlia del tabaccaio, da sempre emerito cattolico, nazionalista, ricco per linea ereditaria e vizi dei paesani. Sarebbe stata una bella storia di cui parlare, pensavano le donne. Beato lui, pensavano gli uomini, che dello sguardo se ne erano accorti eccome.

Così una sera, nel silenzio e nelle prime nebbie tra la campagna, che confondevano il panorama, i lampioni gialli e le ombre veloci e chiuse nei cappotti, mentre Andres stava per uscire dal Bar Nova, che ormai aveva la serranda quasi calata e le sedie girate sui tavoli, il Sindaco lo aveva fermato quasi sulla porta.

  • portoghese, dimmi una cosa: cosa è successo poi tra te e la figlia del Giussani, il tabaccaio?
  • Ha un nome – aveva risposto Andres.
  • Irene, lo so.
  • E anche io ho un nome – aveva continuato
  • Andres, giusto?
  • No, ma va bene lo stesso
  • Dimmi cosa è successo, che tutti ne parlano, da quando è successo, quasi fosse la cosa più importante dai tempi della Grande Guerra.

Andres allora aveva messo le mani nelle tasche del cappotto, respirava facendo piccole nuvole di vapore e si era messo a guardare negli occhi il Sindaco

  • io ho una teoria  – aveva detto. Che assomiglia a una formula matematica o a una strategia di guerra, o a una grande verità.
  • Parli fin troppo bene, per un venditore di coltelli
  • perchè leggo molto
  • cosa leggi?
  • oltre alle istruzioni sulle scatole dei coltelli, i libri che trovo.
  • vai avanti, portoghese
  • La mia è una teoria che riesce a resistere a tutte le volte che ci ripenso. Come una lumaca, esce dopo i temporali, la mia teoria esce dopo che mi innamoro. In un certo senso, è una grande verità, di quelle che chi le scopre dovrebbe togliersi la vita in modo teatrale, quantomeno sospetto, per finire sulla cronaca nera, pagina dispari di un giornale letto dal dentista.
  • non ti seguo, portoghese.
  • perchè tu fai il sindaco con la stessa ambizione con cui le puttane della statale fanno l’amore con i vecchi. E non ascolti. Peccato, Sindaco. Il tuo lavoro, come quello delle puttane, se fatto bene è un bel lavoro. Comunque, la mia teoria è semplice e diretta. Ed è la ragione per cui ho smesso con Irene una cosa che ci avrebbe poi portato oltre gli sguardi, oltre il bancone, oltre i sigari e le guance rosse.
  • La amavi, portoghese?
  • certamente. So riconoscere l’amore e i coltelli di buona qualità. Spesso sono pericolosi allo stesso modo. Ecco la mia teoria: l’Amore ci porterà all’Estinzione, come l’asteroide ha fatto con i dinosauri. Non è innocuo l’amore, questo lo sapete anche voi che rotolate in matrimoni di convenienza fatti di discussioni, frasi spezzate, speranze disidratate e noia mortale. L’amore è un’arma pericolosissima nelle mani di un bambino bendato.
  • ma che diavolo dici…?
  • L’amore ci estinguerà. Come con i dinosauri… fidati di me.
  • E io ci voglio stare lontano, non voglio esser complice di una cosa così. L’estinzione dell’uomo dipenderà dall’uomo. Che ama, distruggendosi.

Così aveva finito, e senza salutare se ne era andato. Il Sindaco, diretto al Circolo vicino al Municipio, aveva riso di quella strana chiacchierata tutta la notte insieme a due assessori e al bidello della scuola elementare.

Andres il pazzo.

Andres, invece, era tornato a casa, aveva preso le sue cose, il furgone bianco, ed era partito.

Senza più tornare.

 

 

 

Perdendo cose (Racconti Strambi di vento e d’amore)

C’era una donna che aveva comprato degli zoccoli, neri di pelle, con piccoli fori, che lasciavano passare sogni e luce.

Un vecchio, mi sentivo, a guardare questi zoccoli e desiderare che il mondo si fermasse, insieme a quella donna, e i suoi zoccoli.

Vai via, avevo detto, per dire rimani.

Una forte Tramontana, quel vento che scopre le montagne a Milano, disordina le puttane sui viali, fa pentire i preti che appendono coccarde.

Rimani, volevo dire.

Per quanto, sembrava aver chiesto, con quegli occhi tristi che sembra che il mondo le si giri nella pancia, come la bora di Trieste.

Le guardo lo sguardo, stringendo i pugni, che soffre lei e io soffro, che lei ha paura e quasi ho paura anche io, che paura non ne ho mai.

Allora, solo allora, ci siamo accorti che era arrivato l’autunno, con il buio presto la sera, con il vento, la Tramontana, fresco la sera, con il vino rosso che scalza il bianco, con le coperte, da tirare litigando nel sonno, con le paure che portano pensieri e i pensieri che ricordano le paure.

E ci siamo detti, aspettiamo.

Ceniamo, come amanti, come padre e figlia, come amici, come fidanzati, come parenti, come conoscenti, come cazzo ti pare, ma ceniamo, che ho fame.

Era meglio rimanere a letto, dice lei, che pensa sempre quello che dice e dice sempre quello che pensa.

A volte senza pensare.

Era meglio rimanere al mare, rispondo io, che penso sempre a quello che dice lei e dico sempre quello che lei vorrebbe sentirsi dire, perchè assomiglia alla verità.

Sembrano gli schiaffi della Bora, quelli che ci diamo con le parole, sembrano i baci dello Scirocco, quelli che ci diamo guardandoci in silenzio.

Una chitarra scordata, una candela quasi finita, come il curry, due piatti dipinti, ecco, ceniamo, dico io.

Parliamo facendo l’amore, dice lei.

Con gli zoccoli, propongo io.

Gli zoccoli mi servono per essere desiderata, dice lei, per essere posseduta mi basta il tuo sguardo.

E io so che è così.

E io so di essere sazio.

Che cena.

Le sere di Tramontana, quelle sere terse che spettinano le puttane, che asciugano l’aria, che scoprono le montagne, che fanno tirare le coperte, che lasciano speranza nella luna, sono le sere migliori per credere nella vita.

Beviamo ancora vino bianco, illusi dell’estate. Sorride, l’estate, guardando noi due.

Se muoio, muoio felice, dico io. Lo penso davvero. Lei mi guarda e sorride.

Sere di Tramontana. Difficili da raccontare. Di zoccoli, sesso, serenate immaginate, finestre chiuse, luci spente e candele finite. L’autunno sembra una fine, ma è sempre un inizio.

Sei un bicchiere strano.

Più bevo di te, più sete mi viene.

Saranno gli zoccoli.

 

Bolle

Senza paura che rimanessero così, aggrovigliati, avevano lasciato che i loro destini non solo si incrociassero, ma quasi si fondessero in qualcosa, appunto, che assomigliava a un gomitolo di vite, di progetti, di sensazioni, di dubbi. La vita li aveva fatti incontrare davanti al sottopasso che portava dal quartiere del Carcere ai campi. Graffiti, un forte odore di piscio, buio pesto, e il rumore della Autostrada sulle loro teste.

J. camminava da solo, attraversava i campi per tornare a casa, tutti i giorni. Strada sconveniente, diceva sua madre. Non farla, diceva suo padre. E’ pericolosa, dicevano tutti.

Ecco fatto.

Quattro, intorno a lui in pochissimi istanti. Uno urla, sono stranieri. Anche se urli, qui sotto non ti sente nessuno, fai solo casino e respiri solo più piscio. Ma serviva per rendere l’idea.

L’idea era quella di prendere portafoglio, soldi, bicicletta a J.

Che era, è, sarà, una grandissima testa di cazzo.

Le teste di cazzo, per dovere di cronaca, in una qualsiasi situazione dove una persona normale lascerebbe correre, non lasciano correre. E’ nella natura delle teste di cazzo.

J. rispondeva, urlando. Nessuno sentiva niente.

Un pugno. Forte. Ecco come si risponde alle teste di cazzo.

Edoardo, Esposito Edoardo Maria, classe 1982, fisico asciutto, testa grande, ricci neri, occhiali fuori moda, era entrato nel sottopasso proprio mentre il pugno partiva con un ampio movimento del braccio, qualche secondo prima di schiantarsi sul naso di J.

Aveva visto: J. cadere dalla bici, i quattro tizi prendere la bici, i quattro tizi scappare, J. rimanere a terra.

Anche per uno come lui, nato e cresciuto nel quartiere a ridosso della prigione dove tutto suggerisce di farsi i cazzi propri, fin dalla tenera età, era troppo per non intervenire.

Edoardo non è un coglione. Ma nemmeno un codardo. Si butta sui quattro, senza un progetto ben preciso. La stessa tecnica che userà più volte nella vita, tanto da essere quasi il suo marchio di fabbrica. Buttarsi sulle cose senza un piano. Tipo sposarsi con Susanna, conosciuta tre mesi prima, su una spiaggia nel sud della Francia.

Il risultato è una specie di incidente tra un tizio secco e magro e quattro tizi con una bicicletta.

I quattro tizi scappano. Resta la bici, per terra. Edoardo, per terra. J., per terra.

Il primo ad alzarsi è Edoardo.

  • Hey, come stai?

Urla.

J. non si muove.

Brutta roba, pensa Edoardo.

Prende la bici e si avvicina.

Esattamente da quel momento, sedici anni fa, J. e Edoardo Maria, poi ribattezzato da J. EspMar, si sono trovati avvinghiati in un destino comune.

A oggi contano una decina di fidanzate in due, due ex mogli, abbastanza ingombranti, abbastanza arrabbiate, abbastanza pericolose, moltissimi capelli in meno, qualche acciacco che come avvisaglia di tempeste peggiori ogni tanto blocca una schiena o un sorriso, due moto, scassate e arrugginite, con le quali hanno fatto praticamente il giro del mondo sognando, e qualche viaggio sconfinando verso il mare. Moltissime birre, tantissime chiacchiere, una infinità di sigarette, molti lividi, qualche pianto, giorni di pioggia passati senza ombrello e giorni di sole passati a dormire.

Un gomitolo di destini, due vite, la serena certezza di non avere nessuna idea di come fare le cose, ma farle insieme.

  • bolle di sapone
  • che cazzo dici J.?
  • i nostri progetti.
  • cosa?
  • i nostri progetti sembrano bolle di sapone. Uno dei due soffia, l’altro li accompagna finchè esplodono. Comunque esplodono.
  • bella metafora cazzo.

Seduti davanti a una birra, alle 17.27 di un martedì pomeriggio di ottobre, parlavano di bolle.

La parte più interessante delle loro vite, quel gomitolo, sarebbe iniziata quella sera stessa.

E’ stupendo vedere gli uomini, impreparati, andare incontro ai loro destini.

 

 

Fenomenologia della Scarpa da Donna: quello che gli uomini non dicono

Ho imparato a convivere con quello che hanno definito un disturbo primario dell’attenzione da anni. Cioè, prima che dessero un nome così altisonante a quello che io chiamo: vedo bene le cose, io mi ci ero già abituato. Noto particolari, affondo la mia attenzione come una lama in cose che gli altri non ritengono importanti, e le ricordo. Ricordo un tono di voce, ricordo un profumo, ricordo un concetto, ricordo numeri, a caso madonna, ricordo un orecchino, uno smalto, un vestito. Finisce tutto in un calderone, una specie di pentolone nella mia mente, che non controllo. Mi tornano addosso, i particolari, quando meno me lo aspetto. Ma ci ho fatto l’abitudine.

Lei entra in sala riunioni con un’ora e mezza di ritardo. Un’ora e mezza di noia, riempiendo il vuoto con chiacchiere mortalmente noiose. Io odio la noia. Con la quale, ultimamente convivo spesso.

Una ordinatissima, monacale, coda di cavallo, capello biondo, viso tondo, occhio verde che ricorda il mare, un vestito curato con un dubbio motivo leopardato, E’ così triste, il leopardato. Così Raffaella Carrà quando Canale 5 faceva innovazione e stavano costruendo Milano Due. Ecco, il leopardato mi ricorda il socialismo.

Niente di speciale. Stretta di mano, sorriso, sediamoci.

La scimmia pensa, la scimmia fa. Io non la controllo. Noto tutto. Profumo fruttato, collo ordinato, un brillante alla mano destra, orecchini di perla, mani curate, polsi piccoli, parla piano, accento di fuori. Labbra carine, mento a punta. Caviglie piccole, piedi piccoli, è piccola lei direi, infilati in un paio di scarpe.

Le scarpe.

Parliamo di scarpe da donna? Lo facciamo davvero?

No, aspetta. Cerca di capire prima il mio punto di vista. Noto, con lieve disappunto, un alluce con un unghia poco curata, un piccolo segno sulla caviglia e un tallone secco. Noto una piccola sbeccatura nel tacco a spillo e il colore della vernice sembra quello di un cofano di una Golf rumena, di quelle con lo stereo e i cerchioni grossi.

Il mio punto di vista sulle scarpe da donna è lo stesso di Di Caprio in The Beach, quando arriva, appunto, alla spiaggia. E’ un esplosione di emozioni, per me, una scarpa. Belle o brutte, ma grandi emozioni.

So apprezzare una scarpa da tennis, una ciabatta, una ballerina, una scarpa da mignotta da tangenziale, convivo abbastanza bene anche con gli stivali.

Il problema, come saprai, è che noto tutto.

Ora, osservo le sue scarpe, senza nemmeno togliere lo sguardo quando lei mi guarda. Lasciare appoggiato uno sguardo è una delle cose che adoro fare. Così, per diletto e dominio.

Vernice beige, plateau, tacco a spillo. Colore opinabile, concetto chiaro. Una spassionata voglia di confermare l’indomita passione per il cazzo.

Troppo diretto?

Ok, una forte propensione ad esprimere una femminilità accentuata e maliziosa.

Meglio così?

Parliamo davvero di scarpe da donna?

Ok, espongo quindi breve curriculum personale: fidanzata del liceo con master internazionale in ballerine, fino ad arrivare a quelle di Burberry, che sono l’appassimento dei vasi sanguigni del pene di un uomo, tanto da essere considerate, in alcune nazioni, come una patologia andrologica. Passo alcuni anni dell’università focalizzando molte delle mie attenzioni su altri elementi, come seni elefantiaci o propensione delle mie frequentazioni a brevi, ma intensi, rapporti orali in brutte utilitarie che uno quando ci ripensa maledice la FIAT, quindi ammetto di aver avuto alcune fidanzate con calzamaglia a righe e Doctor Martens. Solo in tarda età ho sviluppato un gusto e un senso logico per questo misterioso accessorio.

Sono in grado di sostenere una conversazione con una donna, capire le differenze tra uno stilista e l’altro, apprezzare un tacco, condividere l’eccitazione per un colore, sfiorare con le dita un velluto nero da cerimonia. Insomma, ho studiato.

La scarpa in effetti è un elemento capace di fare cose strane. Tipo zittire una sala riunioni, concentrare le attenzioni di una festa in discoteca, ridurre in brandelli l’orgoglio di un uomo, fottere i buoni propositi, cancellare pronostici.

Le donne lo sanno, eccome.

Alcune donne, perlomeno.

Ad esempio, l’indossare una scarpa di vernice con plateu, alluce fuori, durante una riunione di lavoro, adducendo una forte propensione al cazzo, o come dite voi una grande autostima sessuale, è abbastanza eccessivo, quantomeno inappropriato, un po’ fuori luogo. A meno che non siate nella sede di PornHub. Sia come dipendenti che come attrici.

Cioè, anche le donne, spesso, dimenticano le potenzialità di un’arma come la scarpa.

Ora, il galateo vorrebbe che l’amore, l’affetto, le attenzioni, superino particolari come una scarpa. E di fondo è così.

Le donne superano ostacoli ben peggiori, davanti all’amore per un uomo. Calzini puzzolenti, peli sulla schiena, narici bovine, odori sospetti.

Insomma, a noi tocca solo saltare l’ostacolo di una brutta ballerina, per correre felici verso il traguardo dell’amore.

Ma, la domanda che molte donne si fanno è: cosa capiscono gli uomini dalle scarpe che indosso, che ho acquistato compulsivamente in quantità eccessiva, dilapidando una carta di credito già traballante?

Ecco. Facile:

Infradito: partiamo dal basso della piramide sociale delle scarpe. L’infradito. Ok, se indossato a dicembre a Norimberga comunica solo che siete inglesi o americane, quindi ubriache, spesso propense a rapporti occasionali interrotti da rutti al sapore di IPA Ale. Se indossato in stagioni più ragionevoli, è un elemento ordinato senza pretese, un labrador dell’estate insomma, fedele compagno di una vita, sempre adatto e molto piacevole. Adorabili le varianti artigianali per le quali sborsate cifre ridicole. Le comprate come ricordo di un’estate, e le indossate quei venti giorni che separano l’estate appena passata che volete ricordare e l’autunno.  L’infradito espone il piede alla sua massima visione. Consigliabile quindi indossarlo solo se avete dei piedi mediamente presentabili. Cioè le dita a salsiccia di maiale sono bruttarelle da vedere. Anche i calli sui talloni. Anche il tatuaggio sopra il culo, ma questo non c’entra.

La Scarpa da Tennis: vero e proprio manifesto dell’indipendenza femminile, la scarpa da tennis si divide in tre grandi famiglie. La sneaker da corsa, che tradisce il fatto che vi siate iscritte in palestra (abbonamento annuale, frequentazione bimestrale, con anche relativa cottarella per personal trainer bonazzo) e che amiate la corsa. Ora, tranquille, sappiamo che non amate la corsa, ma siete succubi del marketing Nike con le tipe strafighe in Leggins viola e maglietta gialla.  Poi ci sono le sneaker di moda. Che hanno un problema con la moda. Nel senso che la moda, per le sneakers dura più o meno il tempo di un paio di Marlboro Rosse fumate di corsa. Quindi i vostri cento ottanta euro per le sneaker basse bianche belle, adorabili, carinissime, sono, tecnicamente, soldi buttati nel cesso. Nel peggiore dei modi. Ma se vi fa stare bene, fatelo. L’uomo percepisce la sneaker da donna con lo stesso pathos con cui osserva le piastrelle di Bisazza. A voi manda in sollucchero, a lui definisce con chiarezza cosa sia davvero l’indifferenza. La terza macro categoria sono le All Star. Le All Star, basse e di colori accettabili, sono un lasciapassare per ogni occasione. Se le Superga Bianche tradiscono un passato conflittuale con le scuole cattoliche, le All Star sono invece l’olio di palma di ogni guardaroba femminile. Sempre presenti, in ogni scarpiera, sono un lasciapassare per le scanzonate camporelle, dai diciotto ai cinquanta. Ecco, ai quaranta, magari. Davvero, fermatevi a un certo punto. Lo chiede la dignità.

La Scarpa Bassa. Qualsiasi scarpa bassa. Chiariamoci. Abbiamo un sistema linfatico troppo semplice per gestire mocassini, britanniche, tematiche, pailettes, punte, punte tonde, tacco Church, zoccoli olandesi, e così via. Accettiamo le scarpe basse perchè, di fondo, ci ricordano Sailor Moon, le collegiali, un certo soft core piacevole, una atmosfera di malizia dolce e docile. Forse perchè ci fanno tornare bambini con voi che volete tornare bambine. Troppi bambini, ne converrete, sono di intralcio tra adulti. Insomma, dosatele. Non arrabbiatevi troppo, non capiamo la differenza tra la collezione di Marisa di quest’anno e quella di Lou Lou dell’anno scorso. Sono scarpe basse, ci ricordano che volete anche andare al cinema, mangiare pizze, sedervi sugli scalini di una chiesa, insomma ci ricordano che il baby doll è una piacevole eccezione in una vita di normalità. In ogni caso, troppe scarpe basse tradiscono un conflittuale rapporto con il padre. Meglio due sedute dall’analista che un guardaroba sbagliato.

Lo Stivale: ora, all’interno della categoria stivali troviamo tante, troppe, sotto categorie. Lo stivale è l’arma di distruzione di massa dell’autunno. Ci ricorda che è arrivata la stagione delle piogge e del casino per spogliarvi. Togliendo i modelli da nigeriana sulla provinciale, spesso messi anche da donne che non si prostituiscono di professione, gli stivali possono comunque anche essere sexy. Personalmente adoro quelli da cavallerizza, di cuoio, marroni. Perchè mi ricordano la Spagna. Capisco che non è un ragionamento logico, infatti non lo dico spesso in giro.  Comunque lo stivale, ricordatelo, è percepito dal maschio, in relazione a quello che indossate sopra. Stivale e gonna? Stivale con jeans dentro? Stivale e basta? Insomma niente di speciale, lo stivale è solo uno dei colori di una tavolozza che può diventare uno splendido quadro o un pessimo dipinto. Fate voi. Occhio solamente al look Testimone di Geova, stivale alto e gonna lunga di panno. Quello è brutto vero, poverette.

La scarpa con il tacco. Il tacco. Ecco. Io faccio parte di quel genere di uomini che definiscono cani quelli sopra i 10kg. Adoro i maltesi, ma sono gatti nel corpo di un cane. Allo stesso modo, sotto un certo livello, un tacco non è un tacco. E’ un avanzo di plastica, anche brutto da vedere, a dirla tutta. Il tacco basso non serve, come i peli superflui, o come il secondo foglio delle bollette, quello quasi bianco. Ti chiedi perchè te lo abbiano spedito, ma non trovi una ragione. Come con il tacco basso. Detto questo, la scarpa con il tacco è un delizioso universo, di pianeti diversi, tutti abitabili dal desiderio maschile. Ci sono alcune scarpe con il tacco che sono dei veri e propri interruttori sessuali, accendono la serotonina e il testosterone. Cioè a voi sembrano eleganti, a noi sembra di avervi già spogliate. L’unico rischio vero è il cadere nella caricatura di un troione della Portuense. Dico sempre, quando siete sedute in negozio, e vi osservate la caviglia curiosando nel vostro immaginario, ecco, in quel momento, chiedetevi: le indosserebbe un travestito? Se la risposta è si, il rischio è alto. Inoltre la scarpa con il tacco porta l’uomo, è incontrollabile davvero, a guardare il culo. Succede. E’ una specie di collegamento subliminale, inevitabile. Quindi se negli ultimi quattro mesi vi siete appassionate di quella deliziosa torta al cioccolato che mangiate con le amiche mentre bevete la tisana al finocchio drenante, e il vostro culo inizia ad avere una sua identità geografica autonoma, sappiate che indossando un tacco indurrete l’uomo a guardarvi il culo. E a trovarci tutte le torte che credevate di aver smaltito. Il tacco, le sue infinite varianti, è una freccia scoccata nel cuore del mondo, apre le porte ai sogni, racconta storie, fa immaginare intere vite passate insieme. E’, detto praticamente, un’arma. Occorrerebbe il porto d’armi, di fatti. Almeno un breve corso, per saperlo indossare. Ad esempio, la camminata da bufalo ferito della Savana è bruttarella da vedere. Il tacco va portato, va saputo guidare. Se proprio non riuscite nell’esperienza di affrontare una camminata di due metri senza sembrare dei grossi mammiferi feriti e spaventati, suggerisco di valutare alternative. Il plateu, che tanto va adesso, ricorda sempre, lo dico senza dubbio, che avete una grande passione per gli atti riproduttivi. Il plateu è il fil rouge tra togliervi un delizioso perizoma e il tempo passato a convincervi di farlo, che, indossando un plateu, dovrebbe essere poco. Il plateu spuntato fa vedere le dita. E’ come se fosse una VIP card per un mondo di immaginazione sessuale. Ecco, senza che ci rimaniate male, ma l’immaginario di riferimento del plateu è Brazzers.com. Niente Cenerentola o principesse Dinsey, è più pornazzo con finta sceneggiatura di segretaria mobbizzata, scrivanie di mogano, testicoli depilati, luci alogene e occhiali sul naso.

Niente, niente al mondo, supera una donna con una camicia da uomo e i piedi nudi che gira per casa, sorridendo. Detto questo le scarpe sono frecce del vostro arco dell’amore.

Io vi adoro, quando vi osservo davanti a una vetrina. Capisco come vi potete sentire. E’ la stessa sensazione che gli uomini provano davanti all’On Demand di Sky che da tutti i super eroi Marvel. Cioè Iron Man 3 per la settima volta, o gli Avengers per la quarta volta?

Però, sappiatelo, è un arma pericolosa, che spesso è come se ve la puntaste addosso.

Ovviamente è un post che deve rimanere nei 30 minuti di lettura, ho quindi eliminato sabot, stivaletto basso, infradito con il tacco e altri abomini partoriti da omosessuali che puntano ad azzerare la felicità eterosessuale.

Ma ricordatevi che le notiamo, le vostre scarpe. Solo che capiamo quello che vogliamo noi.

Use Plateu Sista! Life is too short for Ballerine!