Il Potere dinamico della Levapunti

Vorrei tanto dire che sono esasperato dagli andamenti incerti degli indici azionari, e nel contempo dalla fluttuazione euro-dollaro. Vorrei, anche solo per dire "esasperato" e "fluttuazione". In verità vivo intensamente. Punto. Faccio scatole colorate, in cui infilo attestati, post it, biglietti da visita, raccoglitori, studi di mercato, ricerche e ovviamente un po’ di cancelleria. Che senza la pinzatrice e il tagliacarte ho paura di non riuscire ad affrontare il domani. La scrivania si svuota, rivelando spazi incontaminati che mi ricordano quando sono arrivato qui. Ho anche il visto per l’Arabia Saudita che non è ancora scaduto, me lo metto in borsa, non si sa mai. E quel cartello "Everyone brings joy to this office, some when they enter and others when they leave", che fa tanto hardcore e che finirà sepolto in box o in qualche armadio, ma che è ancora sporco di Bud Light perchè fu, prima di essere cartello, comodo tavolo per un lauto pasto fuori dall’aereoporto di Orlando, quando si decise di mangiare per terra, piedi nudi e cravatta slacciata, aspettando quel maledetto Virgin Atlantic. Smantello lentamente il muro dei trofei, dove si snocciola tutta la mielosa vita attraverso fiere e convegni. Un piccolo cimitero di badge, eclettiche lapidi alla memoria del "c’ero anch’io". Come migrazioni stagionali, ricordano gli infiniti passaggi: settembre Amsterdam, ottobre Berlino, novembre Dusseldorf e Chicago, gennaio Dubai, marzo Orlando, aprile San Francisco, maggio Chicago. Attestati di passaggio. A salvarmi c’è il cortile mezzo deserto, con il sole che punge. Devo ricordarmi di prendere anche le forbici e l’evidenziatore verde, che davvero senza la mia cancelleria ho paura di non farcela.

Ite Dimissa Est

Percorro quei dieci metri di corridoio in cui i Kandinsky illuminati dai neon ricordano terribilmente uno studio di gastroenterologia. Niente a che vedere con il povero Vettriano stampato su carta riciclata che penzola sopra la mia scrivania. Pavimento lustrato a specchio, linoleum asettico che mi fa canticchiare "Linoleum" dei NOFX. Dalle grandi finestre arriva la luce filtrata a spaghetti dalla tenda rossa e bianca. Mi metto a posto il nodo della cravatta, controllo i polsini e do un colpo di fazzoletto alle scarpe, poi busso, quasi avessi la mano morta, scivolando sulla plastica della porta, forse sperando di non essere sentito. Due minuti dopo sono sprofondato nella poltroncina davanti alla grande scrivania, mentre gioco con un sottobicchiere in radica con data e dedica che avrebbe il suo naturale posto nello scaffale degli oggetti più orrendi della storia. Dare le dimissioni è una questione di pancia, d’olfatto, di cuore e di polmoni. Respiro piano, tenendo un ritmo quattro quarti che sembra il migliore per tenere a bada la tachicardia che sta per esplodere. Guardo negli occhi, diretto, perchè così mi è stato insegnato da mio padre. Però certe volte tenere lo sguardo è un lavoro in salita. Le parole scorrono, condendo ragionamenti e questioni, rilevando episodi, spulciando il passato e pronosticando il futuro. Sento caldo, forse sudo, mantengo esternamente il controllo minimo, evitando di manifestare sensazioni. D’altronde è quello che faccio più spesso. Esco dopo due ore, uffici deserti alle sette di venerdì, solo qualche cervellone al pascolo e qualcuno che non se la sente di tornare in trincea a casa. Cammino più leggero, povero Wassily, a me ha sempre fatto cagare, ma l’abuso che ne fanno negli uffici e negli studi medici lo lega sicuramente all’universo dell’umana sofferenza. Arrivo alla scrivania e sfiorando piano i tasti del piccolo Dell, quasi a non volerlo rovinare proprio adesso, metto la password come se fosse l’esposizione di una reliquia. Cerco le foto, che ogni tanto ripasso, di questi due anni. Ritrovo la camera di Dubai, grande come casa mia, rivedo la Hunday porpora con la quale ho fatto il giro della Florida senza mai vedere il mare. Sento gli odori di Johannesburg, il caldo di Orlando, il freddo di Chicago, la noia di Filadelfia, il cielo di New York. Di colpo la pioggia di Berlino, l’albergo di Colonia, Schipol e i chioschi per fumare, Zurigo e la sua dogana. Sento ancora il culo che si stringe sopra il piccolo Canadair che punta il piccolo paese di Erie tra campi e nuvole. Mangio di nuovo i giganteschi gamberi, le mashed potatoes a quintali, sento l’Enterogermina che mi chiama come sempre. Ho il culo che fa male come su tutti i sedili rovinati delle Economy su cui ho dormito. Sprofondo in un flusso di coscienza, rimanedo a guardare il grosso brad della Ridente Multinazionale che domina lo schermo. Ho fatto, al conto esatto, trecentosessantamila miglia in diciotto mesi, a quanto dicono le due carte Frequent. Ho guidato in almeno una ventina di stati nel mondo, rimediando una cinquina di multe. Fermo il nastro, rollo una sigaretta, chiudo tutto. Appoggio ordinatamente le Chiavi Del Potere, l’accesso libero alle macchinette con la bevanda al gusto di the al limone, metto le penne nella latta del caffè Illy, e prendo la strada del parcheggio aziendale. Tutto ha un inizio e una fine. E’ che spesso non sei tu a decidere i quando. Arrivano, come arrivano le bollette, come arrivano i numeri al lotto. E docilmente metti in fila le sensazioni e infili tutto in quella valigia strapiena che chiamano coscienza.

P.S. I love my Copy

Ebbene, è inutile parlare in questo luogo della sovrastimata figura del Copy, anche perchè girovagando sullo splendido contenitore di umanità che è Splinder potresti reperire almeno mille blogs di disperati Copy che si lamentano, descrivendo a fondo la loro professione, o quello che vorrebbero fare. Per essere un Copy di successo, nella Milano che conta, devi possedere una laurea in un università-sigla (IULM, IED, GNAM, SLURP), uno stage in una agenzia famosa, della quale ami ricordare i terrificanti trattamenti e l’ignoranza diffusa, un taglio di capelli sempre all’avanguardia e un iPod da tenere sempre nelle orecchie (contentente gruppi di tua conoscenza, roba indie, folk, roots, cool). Il nostro Copy è pagato a cottimo, come impone il regime di feudalesimo intellettuale. Lui scrive un claim, lui prende i soldi. Lui scrive un header, lui prende i soldi. Anche se, come sovente accade, lui scopiazza un claim, lui imita un header. Possiede, ovviamente, un iMac, del quale elenca le grandi potenzialità neanche fosse un adepto con in mano il libro di Ron Hubbard. Guarda dall’alto in basso la manovalanza del marketing, me compreso, e adora ricordare i suoi anni bui a Londra, quando per sbarcare il lunario faceva il pizzaiolo, come altri seicento milioni di italiani. Smanetta su internet per gran parte della giornata, per poi affondare nei meandri della scrivania verso sera, quando ormai le batterie dell’iPod stanno dando segni di cedimento. Ultimamente sforna almeno due comunicati stampa al giorno, nei quali sostiene di aver infilato trucchi, tranelli, tricks, feeder, jointer, e un sacco di minchiate che ha sentito quando lavorava nella prestigiosa agenzia in centro, alla quale si recava con una splendente vespa 50special che possiede dai tempi del liceo. Soffre di grandi sbalzi d’umore quando, come per la recente operazione scontata di guerrilla marketing che ha invaso le metrò di Milano e Roma, trova in internet queste "boccate d’aria nell’asfissiante panorama italiano". Dice di voler andare in Brasile, dove la creatività è davvero pagata, ma poi ce lo ritroviamo sempre tra le palle ogni lunedì, giorno nel quale ama gironzolare con La Repubblica sotto braccio per gli uffici, con marcate occhiaie a debito del lungo week end passato tra mostre, vernici, cocktail, Arci, concerti, e MDMA. A parte qualche errore grammaticale in inglese, che giustifica come distrazione momentanea, i suoi comunicati non fanno una piega. Forse qualcuno li legge anche. Usa saltellare verso la mia scrivania con i suoi preziosi lavori verso le novezerodue oppure le diciottoquarantaquattro, quando non sarei in grado di opporre resistenza a nulla. Mi spiega, studiando la mia reazione facciale, perchè la terza parola della quarta riga, secondo il sacro vangelo di J.C. Levinson, inizia con una consonante, per ribadire l’aria estremamente positiva sottolineata anche dall’uso del Gill Sans e di una spaziatura abbondante. Ha scelto di mettere una domanda, proprio alla fine del primo paragrafo, che deve suscitare (quando dice deve, scorre con l’indice sinistro una mensola virtuale a mezz’aria, come a spolverare i suoi concetti), deve suscitare un rapport positivo. Non a caso ci ha lavorato venti ore negli ultimi due giorni, saltando anche la presentazione della rassegna delle opere di un qualsiasi omosessuale russo contemporaneo in una galleria proprio dietro a Brera, che ancora sente di aver fatto una cazzata, ma questo è troppo importante. Davvero, questa volta si è superato, soprattutto alla luce dei due spiccioli che prende e delle continue vessazioni culturali di cui è oggetto (capisce benissimo che il mio cervello necessita di sei minuti per digerire "vessazioni culturali", infatti i sei minuti che seguono li investe in concetti banali e cazzate). Inoltre, manco a dirlo, ha fatto un gran lavoro dal punto di vista concept anche per future rivisitazioni. Poi si spegne, finisce il gettone, come per i Phon in piscina, proprio sul più bello. Si abbandona nelle sue espressioni sciatto-intellettuali, guardando con disprezzo la mia cravatta, stemma degli schiavi aziendalisti, alla quale oggi contrappone una maglietta verde pisello con scritto Diesel & Co di traverso. Si spegne, non dice più nulla, attende che io provi a contestare una qualsiasi parola, un qualsivoglia passaggio, il titolo che lo ha tenuto in piedi tutta la notte. In diciotto mesi non ho mai detto nulla, forse mi crede muto. L’unica cosa che davvero non tollero è quell’abuso di post scriptum stile pen friend. Ma sto pagando ancora il dazio di averlo fatto notare. Mi limito a godere del variopinto spettacolo che inizia pochi minuti dopo l’arrivo dei comunicati sulle scrivanie del Pollaio. Areoplanini, posaceneri, segnalibro, pallottole, filtrini, fogli per appunti, ma soprattutto, piegati in quattro, degli ottimi spessori per questi maledetti tavoli che ballano. Tavoli che appoggiano, beati loro, sull’arte di saper comunicare.

P.S: per capire l’uso didattico del post scriptum dovete, come me, uscire dal tunnel dell’ignoranza e acquistare J.C. Levinson "Guerrilla Marketing" Ed. Castelvecchi, che alla pagina 96 considera il post scriptum un "arma". Di macellazione ai testicoli, aggiungo io, che non sono altro che un povero pirla.

P.S.2: forse ha ragione. Dopo un po’ ci prendi pure gusto.

P.S.3: ma non credo che un p.s. possa davvero cambiare l’esito.

P.S.4: aiuto non riesco a smettere.

Ho vinto qualche cosa?

Il penultimo premio che ho vinto nella mia vita è stato Salomone, un pesce rosso malato, portato fieramente a casa nella trucida busta di plastica trasparente. Avevo dodici anni, si e no, Salomome meno di un mese. La gatta, che sembra non centrare ma è la protagonista, quattro e mezzo. Salomone fu posto in una grande palla di vetro, con sassolini e alga di plastica. Lo salutavo prima di andare a scuola e poi appena tornavo. Per lasciarlo alla mia altezza, mia madre lo aveva messo sul mobiletto del bagno. Così per stare con Salomone passavo ore in bagno. I pesci mi piacciono, dicevo. I pesci sono anche meglio degli uomini, dicevo. A dodici anni dicevo, insomma, cose più intelligenti di quelle che dico adesso. Poi un giorno la gatta si è mangiata Salomone, lasciando evidenti tracce sul pavimento della cucina e tentando di vomitare per tutta la serata. Mia madre, per consolarmi, le tirò due grandi botte sul culo, ma la mia vendetta fu articolata negli anni. Poi, dopo Salomone, non ho più vinto niente. Alla tombola di natale a casa dello zio mi addormentavo sempre, alla lotteria aziendale, mille biglietti duemila premi, non ho portato a casa nemmeno un centro tavola di pizzo. Alla pesca benefica della parrocchia non partecipavo, perchè c’era il rischio di vincere qualche angosciante cazzata. Al Casinò ho vinto, eccome se ho vinto. Ma ho anche perso, eccome se ho perso. Dopo quella sera a San Sebastian, in cui mi sono giocato tutto il budget delle vacanze sul rosso e sul nero, finendo nei peggiori ostelli di tutta la Galizia per il resto di agosto, per rimettermi in pari ho vinto tanto, ma non a sufficienza. Vinco, giusto per dovere di cronaca, tutti i giochi stupidi del prime time televisivo, qualsiasi cosa si tratti. Sono una specie di Uomo Gatto Onniscente. Eredità, Pacchi, Ruota della Fortuna, Identità, a volte indovino anche i titoli del tg5. Però non vinco un cazzo, quindi non vale. Beh, oggi ho vinto un premio, anzi un award, perchè si parla di roba americana. Mica cazzi. Ecco, a parte i cinque minuti in cui il mio possente Ego si è gonfiato a dismisura, a parte il brindisi presso la Direzione con tanto di complimenti conditi di sana invidia da parte di qualche collega, a parte l’inevitabile peso che graverà sul curriculum e sull’imminente richiesta d’aumento, or ora son qui a chiedermi io che cazzo me ne faccio di un premio americano. Tradotto in pratica si tratta di uno splendido attestato, da ritirare in quel di Dallas. Nemmeno un dollaro, nemmeno un nichelino, e io che sono sempre più pragmatico, mi ritovo a cercare un po’ di spazio sul muro dietro alla scrivania, per appendere l’attestato americano su carta filigrana. Ma la cosa buona è che ho ripensato a Salomone e ai suoi eredi, i nobili pesci che hanno abitato il provvisorio acquario davanti alla mia scrivania, sopravvivendo alle estati senza mangiare e agli inverni con finestra aperta per il fumo. Voglio quivi ricordare gli splendidi Andata e Ritorno, coppia stupefacente e innamoratissima, da cui ho sempre voluto dei figli e forse li ho anche uccisi pulendo l’acquario. Il mitico Erode, splendido esemplare campato quasi sette anni e poi sepolto nel wc con rito abbreviato per evitare il pianto mio e di mio padre. La grande Sabrina, divoratrice di cibo e piante di plastica, impavida e luccicante, trasferita nella fontana del parco della Guastalla  per incomprensioni con Rodolfo, esemplare fragile e sensibile, che mi ha dato tanto e a cui, sembrerebbe, la Tatangelo abbia voluto dedicare la canzone di questo Festival. Mi gonfio della mia vana-gloria, eccedo nel pubblicizzare i miei successi e comunque chiedo di brindare con abbondanza. Io lo farò.

In lovin memory of Salomone, my first redfish killed by an asshole and stupid european cat. I want to commit this Award to Salomone and to every redfish in the world. God bless America.

Il Gatto Mammone On Line

Una delle grandi strategie di sopravvivenza in una Ridente Multinazionale qualsiasi è contare sul numero. E’ scientificamente dimostrato che gli esseri umani, di entrambi i cinque sessi a oggi conosciuti, se agglomerati in gruppi, si comportano più o meno come degli ovini. Più o meno perchè nessun essere umano ha dimostrato la capacità di produrre lana. I gruppi possono essere più o meno numerosi, eterogenei per razza, età e provenienza. La folla, insomma, è un grosso animale impazzito. Quale miglior ambito di una grande, invadente, multicolore, multinazionale? Tra i pallidi corridoi di linoleum, scorrendo le centinaia di porte che si aprono su loculi e sale riunioni, attraverso il dedalo di scale secondarie dove proliferano leggende metropolitane e amori clandestini, in questo contesto urbano decisamente singolare si annida, avvolta dalla routine quotidiana, una piccola folla. Che non può mai dimostrare di essere animale stupido e incotrollabile, perchè saggiamente tenuta in piccole frazioni. In queste piccole frazioni, in questi anonimi gruppetti, in questi sospetti agglomerati di sottoposti è solito insinuarsi il Gatto Mammone, un comunissimo battere che attacca i tessuti più deboli aggrappandosi al lavoro degli altri. Il Gatto Mammone vive alle spalle dei colleghi, partecipa a riunioni, conduce amabili presentazioni, svolge le sue mansioni al minimo, timbrando il cartellino con un’ossessione svizzera e una metodicità anglosassone. Il battere può convivere con il quotidiano e rutilante incedere della Ridente Multinazionale, ed è quindi lasciato proliferare anche perchè tiene lontani virus e agenti patogeni peggori come il Sindacalista Comune e il mortale Agitatore Sesantottino (microbo in estinzione, evolutosi grazie agli OGM in "Operaio Forzista" o anche Silvius Adorantes). Il problema diviene fastidioso quando il Gatto Mammone occupa dei ruoli che prevedono delle azioni rapide. La sua indole, da grasso gatto domestico, non gli permette di predere nessuna decisione se non quella di soffiare quando si sente minacciato. Il mio Gatto Mammone preferito è uno dei nostri IT Manager, gentilmente inviato due volte la settimana in perlustrazione negli uffici. Tra le sue funzioni quotidiane c’è la diretta assistenza per problemi, piccoli o grandi, legati all’uso delle infernali macchine calcolatrici. Adora vestire con camicie aderenti a grandi quadri, come i rappresentanti di saldatori a caldo, e ama molto incedere con passo lento, quasi a sottolineare la sua natura di Gatto Mammone. Come la maggior parte dei tecnici pc, ignora la soluzione ai più comuni problemi che si possono manifestare su una macchina, ma abusando di termini tecnici spesso inventati riesce a prendere tempo, dileguandosi verso un altro ufficio. Può contare su una diffusa ignoranza,e anni di esperienza gli hanno insegnato a distinguere i vari livelli di preparazione. Tempo fa è sparito Power Point dal desktop, forse nascosto dietro la collina di Windows. Ad alcuni ha precisato che "i nani che ci sono dentro il computer sono in sciopero", ad altri ha detto "che un problema di login può spesso causare questi innoqui eventi" ad altri ancora ha sottolineato "che l’effetipi è configurato su un ruuuter che ha un ipi derivato da una sorgente linux che si appropria dei codici del oesse se non sono upscaling". Cronologicamente, c’è stato un periodo in cui credevo nel suo ruolo, e scrivevo accorati appelli perchè mi fosse dato un mouse non satanista (il mio primo mouse era posseduto e andava in giro da solo sullo schermo, senza muoversi sul tavolo, talvolta cliccando su icone e pagine a suo piacimento). Poi ho chiesto una tastiera in cui funzionasse la elle, in agitazione sindacale per via della mia preferenza alla sua vicina, la kappa. Poi, in una anonima sala riunioni californiana, ci fu il black out del piccolo portatile, la cui batteria cinese non ha più superato i sei minuti di attività. Robetta, insomma, per un genio delle reti e dei cablaggi strutturati, la cui partita Iva sopravvive grazie a anni di sapiente e camaleontica vita. Ma oggi, quando aprendo la mia mail ho scoperto di essere Anita Walser e di avere nella mia rubrica Jonas, Jilde, Edwin, Guy e altri settecento sconosciuti, ho sentito forte il bisogno di una risposta, di qualcuno che mi aiutasse, di un agile e giovane promessa dell’accatipislashslash che mi tirasse fuori da questo merdaio. E allora ho scritto al suo Capo, perchè la speranza è l’ultima a morire.

from:anita.walser@ridentemultinazionale.com

to: capotecnico@ridentemultinazionale.com

Gentile Capo,

sono Franz, ma come vedi qualcosa non funziona sul mio picì. Puoi aiutarmi?

from:capotecnico@ridentemultinazionale.com

to:anita.walser@ridentemultinazionale.com

Gentile Anita,

sono grato della richiesta, ma l’ufficio di sua competenza è quello di Dusseldorf, che ci legge in copia.

Complimenti per l’italiano perfetto!

Aspetto con fremito che arrivi la sera, perchè solo il rhum può cancellare certe ferite

Serenissima, l’autostrada con la vita intorno

Scendo dalla mia macchina e già mi accorgo dell’errore filosofico che sta a monte. Essa non è mia. Non è di mia proprietà, ma ho un uso locatorio temporaneo, grazie a un patto di sangue della Ridente Multinazionale e della Prestigiosa Società di Noleggio, quella con l’ufficio in aeroporto dove gli inservienti sembra che abbiano preso un portellone di un Boeing sulla testa. Sono tra il torpore tipico del tossico post eroina e lo scazzato da impiegato statale, solo che vestono con bizzarre cravatte che riportano i colori della Prestigiosa Società di Noleggio e sono contornati da locandine e cartonati di neri e asiatici sorridenti ritratti mentre espletano le pratiche per ottenere un uso temporaneo di un veicolo. Immagina di parlare con uno scoglionato con una cravatta gialla e nera mentre alle sue spalle un efebica nera sorridente ti ammicca scendendo dal suo SUV lucido e splendente, gambe mozzafiato e sole splendente sullo sfondo (quanto Photoshop nel mondo, forse troppo). Insomma l’oggetto non è mio, e ci mancherebbe. Non comprerei mai una macchina che ha tutti i pulsanti funzionali identici. Ho bisogno di colori, immagini allusive, pulsanti di dimensioni differenti, rotelline e quant’altro. Mi trovavo molto bene con la mia Panda 750 CL, anche se lì era gioco facile, essendo presente solo una blanda leva per il caldo freddo dell’aria (leva non collegata con alcunché, ma l’effetto placebo era davvero piacevole). Non sono uno di quelli fissati che ascolta il rumore che fa una portiera, maschio anomalo, non ho particolari collegamenti erotico sessuali con le cilindrate e le capote. Funzioni necessarie per il mio autoveicolo sono l’emmepitrè e il condizionatore, poiché da febbraio a novembre sudo come un cavallo in corsa, e amo ascoltare Punk O Rama (volume 1,2,3,4) a palla. Mi rendo perfettamente conto della grande quantità di facili scopate che ho perso a causa del mio girare per Milano sfrizionando con il mio Pandino, siete voi che non potete nemmeno capire quanta umanità nascosta ci sia in un bacio romantico su una Panda, senza nessun rumore di autoradio a disturbare e con quel fruscio dovuto alla plastica rigida dei sedili, peraltro facilmente lavabili ergo estremamente igienici. Ma stiamo divagando. La giornata, a causa della misteriosa poltiglia di pulsanti identici, era già partita decisamente male. Passate due ore in autostrada cercando di mettere gli anabbaglianti ho scoperto, nell’ordine, il pulsante dei tergicristalli del vetro posteriore, che non hanno mai smesso di andare, la radio, che si è sintonizzata su Radio 1 per tutta la mattinata, le quattro frecce, o anche stop d’emergenza, che sono riuscito a disattivare cercando l’aria fresca, che sono riuscito ad accendere cercando il volume del navigatore, che non ha mai funzionato se non quando sono arrivato, momento in cui perentoriamente mi ha chiesto di fare inversione a U il prima possibile. Ma non è questo il punto. Spossato dalla guida del moderno mezzo, ho fatto sosta in un Autogrill, nel quale ho passato una ventina di minuti tentando prima di aprire il portellino della benzina (ma poi ci ha pensato un simpatico benzinaio che con un velato accento ungherese ha precisato di conoscere almeno una delle mie parenti più strette, con la quale dice di aver avuto anche il suo bel da fare), e poi cercando di chiudere la macchina con uno dei cinque pulsanti sulla chiave. La macchina suona una simpatica marcetta da allarme antibomba. La macchina apre il portellone posteriore. La macchina tira su e giù i finestrini lampeggiando. Decido di lasciare aperto il tutto, portandomi dietro la borsa. Menù mattina, quanti ricordi, Corriere, breve passata ai cessi, sigaretta e già la giornata sembra prendere una piega differente. Riesco anche a sentire gli uccellini in cielo, anche se poi identifico il travestito che da dietro un camion cerca di adescarmi con questi strani versi. Risalgo a bordo, accendo inserendo la tessera in un buco e schiacciando uno dei pulsanti, che per fortuna riporta la scritta “start”. Essa borbotta tutto il suo desiderio di inquinare per centinaia di migliaia di kilometri prima di rassegnarsi alla rottamazione. Siamo pronti, lievemente in ritardo, per ripartire. E qui cade il nocciuolo (nocciuolo, o my gosh) della questione. Nell’atto della retromarcia urto rumorosamente qualcosa. Allorché prima di tutto cerco delle vie di fuga per scappare. Poi penso a una fuga a piedi, alle conseguenze penali, alla mia vita distrutta. Mentre sogno una vita da fuggitivo, sento un caldo accento veneto che intona un Gospel di prima tradizione proprio fuori dal mio finestrino. Il rumore proviene da un simpatico vecchietto, alto quasi quanto un calendario della Canalis, con un simpatico cappello da agricoltore, delle simpatiche rughe da agricoltore, un insieme di gilet, camicia a quadri, pantalone in finta flanella, stivale con fango ornamentale che mi fanno supporre che si tratti di un ex primario o banchiere. Egli urla delirante, ma in veneto. Non riesco a capire la maggior parte delle cose, anche se dal suo indice appoggiato sul mio sterno, credo che si tratti di una cosa tra noi due. Dopo qualche minuto egli mi svela il corpo del reato, una originale Opel Corsa del settantaquattro, di un colore indefinito ma vicino all’asfalto, che sembra aderire perfettamente con la mia mostruosa macchina a noleggio. Dentro la simpatica vettura storica c’è una allegra signora, che suppongo avere qualche relazione con il rurale anziano che non stacca l’indice dal mio cappotto. Si crea un variopinto capannello di rappresentanti e camionisti, alquanto interessati alla questione. Alcuni guardano compiaciuti il danno, altri attendono la svolta televisiva, un pestaggio, una pistola, una fuga rocambolesca, qualcosa che renda le loro inutili vite improvvisamente baciate dal lusso della testimonianza. Il vecchio rustico provvede a informarmi che intende chiamare le forze dell’ordine. Provo a spiegare che mi sembra un po’ esagerato, ma ormai ha già in mano un Alcatel di almeno dieci anni fa, sul quale digita un numero prima di appoggiarselo al cappello. Pochi minuti di urla e poi lo sguardo soddisfatto di chi, dopo una vita di merda, finalmente si riprende quanto dovuto. Spiego che, trattandosi peraltro di un bene non mio, non ho nessun problema nel compilare il modulo Amico, ma egli si è richiuso in macchina, e non intende abbandonare la posizione. Nessuno ci caga più, perché non è morto ancora nessuno, e rimaniamo soli per una ventina di minuti, giusto il tempo di avvisare la Prestigiosa Società di Noleggio, il cui operatore mi da la certezza di non aver capito assolutamente nulla, e il mio Cliente, che se ne sta a centoventi miglia marine di distanza. Al loro arrivo, i due agenti della stradale, fanno di tutto per far capire che sono il braccio duro della legge. Il primo, scendendo inciampa nel cordolino dell’aiuola e il secondo parcheggia nell’unico posto dove avrebbe potuto dare fastidio, sollecitando l’immediata reazione di un camionista slovacco che, al sicuro dietro il finestrino, gli conferma di volerlo amare da dietro, ma alla slovacca. I due si avvicinano sospettosi e con passo calmo. Il vecchio li localizza e si fionda giù dalla macchina indicandomi. Io sorrido, nella speranza che per questa Quaresima sia tutto. Una voce proprio sopra la pubblicità della San Carlo mi dice “Non essere blasfemo, non hai ancora visto niente”. Il poliziotto pasticcione, senza inciampare, mi rivolge uno sguardo e un movimento di mento. Lo ripete. Lo ripete. Lo guardo perplesso. Lo ripete. Poi si sbilancia: “E’ sua?” “Si” “Cumenti ibretto tente”. Produco tutto ciò che è in mio possesso mentre il vecchietto fa lo stesso appoggiato al cofano della sua Corsa, senza smettere di urlare qualcosa in veneto. Aspetto pazientemente che l’agente comprenda il verso di apertura del portadocumenti, pieno zeppo di loghi della Società di Noleggio, prendendo i documenti della macchina, pieni zeppi del logo della Società di Noleggio. “Ma è noleggiata”. Quasi deluso procede verso la sua macchina e, seduto al posto del passeggero, finge di avere delle comunicazioni con qualcuno. Torna, mi da in mano il tutto “apostograzie”. Passa una macchina con Giuliano Palma con “che cosa c’è”. Mi avvicino alla macchina del simpatico agricoltore. Qualcosa non va, come sottolinea il paladino della giustizia stradale. L’ultima revisione è stata fatta durante la prima Repubblica, a giudicare dalle pieghe del libretto in piena era Forlani. Solo il carbonio 14 potrebbe però dare una data precisa. Egli si mette a inveire in veneto verso il poliziotto, che dedica alla cosa ancora un minuto prima di dare il suo verdetto: “Senda, anzi sendite entrambi. Qui il signore, che è quello che ha effettuato la chiamata alla centrale, è passibile di sanzione per mancata revisione dell’autoveicolo. Quindi se facciamo verbale, dobbiamo condestare anche questa contravvenzione. Ritiro libretto, conduzione domicilio, secondo articoli centevent e codice stra paragrafi ancorato dodici a destra. Consiglio agli entrambi inderessati di procedere con modulo di cosdadazione amichevole, come previsto”. Il vecchio replica, l’agente con la pazienza della legge espone meglio il caso, semplicemente snocciolando l’ammontare della contravvenzione. Il vecchio codifica il tutto con un calcolo mentale chili di zucchine/migliaia di euro. Poi è questione di attimi. Sale in macchina. Accende. Retro. Prima. Prima. Prima, almeno a diecimila giri, quasi a venti all’ora. Riparte così, lasciando il sottoscritto e le braccia della legge basiti. Impiego una decina di minuti a spiegare a Inciampo, che nel frattempo, a giudicare dall’alito, si è fatto quattro caffè, che non me ne fotte nulla. Se ne vanno, me ne vado anche io, con un piccolo gibollo sul culetto della macchina e tutto il tempo di pensare a come farlo sparire.

It’s raining men, Alleluja!

Arrivo con un lieve ritardo, assolutamente ingiustificato e fuori luogo. Ma si sa, il lunedì mattina è già una vittoria riuscire ad arrivare. Per via della costante pioggia ho le scarpe sporche, i capelli bagnati e puzzo di fumo più del solito. Provvedo sulla strada per la Grande Sala, recuperando un fazzoletto con il quale pulisco scarpe e asciugo capelli, non in quest’ordine. Per la questione fumo gioco in casa, fiondandomi nell’ufficio dei Serpeverde, un paio di dirigenti commerciali prossimi alla pensione che nel difficile tragitto tra la maturità e la vecchiaia vengono mobbizzati sia a casa sia al lavoro. Non potendo fumare in ufficio, sono diventati azionisti della Vivident, acquistano i preziosi barattolini da 75 confetti in società e ne consumano molti di più di quanto sarebbe umanamente pensabile. Mi infilo due confetti in bocca e ne tengo uno di riserva. Controllo la cravatta, preparo un sorriso accettabile, spengo il telefono e mi infilo nell’anticamera della Grande Sala. Sento già il fastidioso vociare, l’orrendo accento quasi comico, l’odore dei profumi presi in aereoporto. Entro, c’è di peggio nella vita, o almeno credo. Wong, Wang e Wing, come i tre piccoli porcellin, sono alti uguali, in tre non arrivano ai due metri e mezzo, sono vestiti uguali e dimostrano l’esistenza di associazioni cromatiche impensabili anche per un daltonico. Hanno già bevuto il caffè, si sono spazzolati tre quarti dei pasticcini del buffet, due bottiglie di naturale e una spaventosa quantità di mentine. Collezziono biglietti da visita, tornano sempre utili per togliere il ghiaccio dal vetro, per fare filtrini, per le gambe traballanti del tavolo o per un riciclo. Dal lucido uno al lucido sedici non fanno una piega, annuendo ogni volta che li guardo, come se stessi dicendo loro una grande verità.

"E come potete constatare dal nostro fatturato lordo prima delle tasse, il Signore verrà sulla terra verso metà del 2009, a dispetto dell’Apocalisse di San Giovanni, ma in pieno accordo con i trend di mercato".

Mi domando sempre, mentre il nastro registrato con la mia voce spara numeri e date, quali effetti possa avere sul cervello umano una sovraesposizione alle presentazioni aziendali. Cancro? Epilessia? Oppure, come confermano le facce, un semplice torpore, una drastica riduzione delle funzioni vitali.

"Dai dati confermati su un benchmarking fatto dal nostro R&D, lo Spirito Santo accompagnerà il Signore in questa visita, rievocando la Pentecoste".

La verità che annuncio è talmente grande che sono portati a prendere appunti. Sul lucido diciassette hanno un sobbalzo. E’ sempre difficile digerire il diciassette e quelli che seguono. Per questo occorre un abile negoziatore, un profondo conoscitore del gioco, un uomo di esperienza comprovata, un navigato eroe aziendale, oppure uno stronzo con un sacco di pazienza. Seguo il copione, interrompendomi e chiedendo se hanno domande. Wing, o forse Wong, insomma quello con la cravatta dal titolo "Perdizione Cromatica della Verginità Intellettuale", contesta i dati. Eh già, lo fanno tutti. Eh certo, come darti torto. E’ nel copione. Tutti sono restii a prenderlo in culo, almeno la prima volta. Poi ci si fa l’abitudine. Devo solo allentare la presa. Offro un caffè, più profondamente offro una pausa per permettere ai tre porcellini di confabulare in cinese uno straccio di risposta. Io vado fuori, fumo due sigarette. Piove, merda. Al mio ritorno sono pronti, lo si vede sulle loro facce. Wang, o forse Wing, quello con la camicia a "tabellone della Ruota della Fortuna", mi dice di essere francamente sorpreso. Dice proprio "francamente", frankly. Che tenerezza. Gli do ragione, e come darti torto caro Weng. La vita è fatta a scale, l’importante è scendere in fretta quando c’è da evacuare. Wung si stupisce, forse è la prima volta che qualcuno gli da ragione. Anzi, come sottolineo nel lucido diciotto, e a seguire nei dieci che lo separano fino al ventotto, è quantomai probabile che i vangeli apocrifi siano una bufala. Ma si sa, sono tutte supposizioni. Chi siamo noi davanti a tanta verità? Wang, l’ultimo porcellino a prendere la parola, ha la faccia di uno che si è fatto dieci ore di volo per prendere un inculata a Milano, sotto la pioggia. Per questo si trastulla nervosamente con la sua giacca "Non Sono Scozzese ma vorrei sembrarlo". Amici del buongusto nel vestire, è giusto che sappiate che, in questa squallida recita, non siamo che comparse. Invece loro la prendono sul personale, rispondono con una presentazione a tinte forti, grafica anni ottanta, uso base di Power Point, che mi da giusto il tempo di rspondere a un paio di mail. Mentre sto per partecipare a un’asta su eBay per un Fossil davvero figo, Wang finisce di parlare e attende speranzoso una risposta. Parto dalle origini, per prendere tempo e avvicinarmi al pranzo, offerto dalla Ridente Multinazionale, in un prezioso ristorante italiano a menu fisso, tre portate, Morellino di Scansano, naturale e caffè settanta a testa. Insomma, Mosè, i Dieci Comandamenti, la storia conosciuta, noi, voi, il Capitalismo moderno, l’amore. E poi chiudo, un minuto a mezzogiorno, dicendo che francamente, proprio frankly, sono anche io perplesso, ma le strategie sono infinite come le vie del Signore, e spesso a noi oscure. Prima che Weng scoppi a piangere mi permetto di invitarli per un prezioso pranzo, non prima di una visita guidata alla nostra facility. Poi, fatevi forza, questa sera sarete già a diecimila piedi, rotta del Sol Levante, per ritornare a casa. Wong non ci sta. Vuole fare l’eroe, vuole sacrificarsi per la causa, chiede un udienza con il Sommo Pontefice. Che però non riceve i primi stronzi che passano. Straordinariamente, sua Maestà si presta per un pranzo in comune. E quindi io ho finito. Posso dire conclusa una difficile negoziazione strategica per un fit in componentistico che aderisca ai nostri forecast. Sti cazzi. Posso tornare a Pinball. Piove, porca merda.

Arrosti, cravatte e collant – teologia del pandant

Una delle ricorrenze più importanti della liturgia laica del capitalismo moderno è la Cena di Natale Aziendale. Solitamente questo momento liturgico avviene poco prima del Natale stesso, nella settimana che precede la chiusura, in una serata tra il mercoledì, il giovedì e il venerdì. La differenza tra i tre giorni è presto spiegata: la data principe è il giovedì, perchè il venerdì prima delle ferie nessun dipendente verrebbe mai a cena, e mercoledì è troppo in mezzo alla settimana e corromperebbe lo spirito dei lavoratori. Lo scalino successivo è il mercoledì, principalmente perchè il giovedì non c’era posto. L’ultima spiaggia è il venerdì, anche se c’è la certezza che la cena vada deserta. I luoghi devono possedere due prerogative: essere capaci di offrire una cena di mediocre qualità e tollerare variazioni dell’orario di chiusura dovute a dirigenti molesti, ubriacati a colpi di prosecco e nero d’Avola. Una delle ragioni principali per cui una Azienda è disposta a spendere cifre importanti per far mangiare i suoi dipendenti risiede nella forte volontà di manifestare senso di squadra e benessere diffuso. L’occasione vede protagonisti alcuni personaggi tipici del teatro di borgata, fino a poco prima del carpaccio di salmone scambiati per perfetti idioti, impegati mansueti, ma grazie allo straordinario potere del Prosecco capaci di performance impensabili. Va in onda anche l’occhiata languida, con la quale colleghi di sesso differente, ma anche colleghi del medesimo sesso, o così sembra, si comunicano il reciproco desiderio di un frettoloso amplesso nel parcheggio sul retro del ristorante, a lume di lampione. Si consuma anche la tragedia delle premiazioni, fantozzianamente spalmate nel ristretto spazio tra il carrello dei bolliti e il panettone con la crema calda. Attestati di merito e elettrodomestici cinesi vengono distribuiti ai meritevoli, agli anziani e a quelli che hanno fatto qualche cosa di straordinario ( anche se la cosa più straordinaria, che è il quotidiano presentarsi alla scrivania, non viene considerata tale, anzi è richiesta d’obbligo). Arrivisti e carrieristi danno il massimo per sedere di fianco ai dirigenti, che danno il massimo per stare seduti vicino alle stagiste giovani, che fanno il possibile per stare sedute vicino alle segretarie, che si ammazzano per sedere di fianco ai carrieristi e agli arrivisti. Il cerchio si chiude perfettamente e solo i ritardatari rischiano di finire nei tavoli dove siedono emarginati, polemici e sindacalisti. Nel dopocena, insolitamente confortati dall’ottimismo respirato, in molti si lasciano andare in pericolose confidenze, barcollanti ricordi di univerisità e primi anni di lavoro, consigli ai più giiovani, frecciatine ai più vecchi, chiare richieste di aumento, biascicate nell’orecchio del responsabile gerarichico, troppo impegnato nel simulare un cavallo azzoppato da un ostacolo mentre balla la baciata divorando con gli occhi l’animatrice che impartisce ordini da Valtur nel microfono troppo alto. Con Disco Inferno si chiude il momento sociale, e tutti si concentrano sulle reali possibilità di finire la serata risultando brillanti, capaci, leader. Tormentate danze della pioggia, intervallate da sigarette in camicia nel cortile del ristorante, compromettono interi uffici, polmoniti e sciatiche sono il flagello di questo popolo. Il repertorio musicale è quello di una vita: picchi e ovazioni si registrano su Io Vagabondo e su Gianna e i Beach Boys vengono usati come Carbonella per riattizzare gli spiriti stanchi. Tra un "abababa babaduens" e un "evribadi les sorfiiiin" le ore si fanno piccole come le palpebre dei meno giovani, che resistono per dimostrare di non essere anziani, con la prostata a scoppio e la palpebra gravitazionale. Due scuole di pensiero, da me praticate in tempi e modi differenti, animano lo spirito delle prime linee: infradiciarsi di alcool, mixando tutto con tutto, evitando tassativamente l’acqua e ingollando interi vassoi di aperitivi. Oppure una monastica e irriducibile acqua Panna, per poter osservare il mondo mentre affonda. Il trenino ("brigiii de bardoooo bardooo – a e i o u, ipsilonne") dura almeno quattro brani, e solo la Canzone del Sole, distoglie le umide mani dai fianchi del malcapitato davanti. Assolutamente da evitare, per lui, la cravatta simpatica con motivi invernali, anche se tua moglie tanto la caldeggia (perforza, così è sicura della tua involontaria fedeltà. Cravatte con Babbo Natale, queste moderne cinture di castità). Assolutamente da evitare per lei, il sandalo con tacco 11, con cucitura del collant in vista sopra le dita dei piedi. Molto caldeggiato, per lui, spolverare al tavolo aneddoti su figli e viaggi di lavoro. Un padre di famiglia che si da all’azienda è il condimento di ogni insalata aziendale. Molto consigliato per lei un discorso allusivo su un passato, neanche troppo remoto, dove costumi libertini e notti folli facevano la parte del leone nel planning settimanale. L’allusione arrapa il capo alticcio più della reale possibilità, un po’ come il vedo non vedo. Consigliato ai più intelligenti, il defilarsi lentamente verso il quarto trenino, poco dopo la Lambada, ma mai prima dell’inizio del Conto alla Rovescia del finto capodanno. Alcuni consigli pratici per il day after: uso massiccio di dentifricio, da ingerire in continuazione come fosse latte condensato. Fingere grande operatività, maneggiando plichi e faldoni. Rumoreggiare sulla tastiera come se si stesse scrivendo fitto fitto (attenzione, ogni tasto ha la sua musica: qwioqwj è molto diverso da cmanmcxlo) e guardare con riprovazione coloro che ricordano ridendo la caduta del dirigente scivolato sul tovagliolo del collega. Evitare inoltre di assumere alcunchè per il mal di testa: non si tratta di emicrania ma di depressione. Inoltre iniziare da subito la stesura dei buoni propositi professionali per l’anno prossimo (mi impegnerò di più, dopottutto l’arrosto era buono. Cercherò di essere più ordinato/a. Mi hanno rotto, adesso scrivo un curriculum della madonna, e lo mando a tutto Monster.it. Voglio cambiare vita, voglio vivere al mare/ in Spagna/ in Brasile/ al caldo in generale). Come per i buoni propositi di capodanno e per le bugie in generale, anche i buoni pensierini professionali hanno le gambe troppo corte per riuscire a starci dietro. Perchè si vive solo correndo.

Battere e Levare

Per fare un tavolo, ci vuole il legno. Per fare il legno, ci vuole un albero. Per fare un albero ci vuole il seme, per fare il seme, ci vuole il fiore. Ecco spiegata, con la semplicità necessaria per renderlo comprensibile al vasto pubblico di questo blog (magari capitato qui per – nokia gratissuonerie gratisdvd gratisgratis gratis), la semplice regola bhuddista per cui ogni conseguenza è figlia di una azione. Ecco spiegato perchè, lanciando un sasso contro la testa di un passante, il medesimo potrebbe irreprensibilmente tentare in qualche modo di minacciare la salute fisica del tiratore. Ecco spiegato perchè, inseminando l’utero della sconosciuta con la quale avete copulato nei bagni di quella squallida discoteca di Cattolica, potreste diventare padre. (anche se questo genere di esempi ha una vasta serie di conseguenze, legate a numerose variabili come l’età della gravida, la nazionalità del padre della gravidà, il porto d’armi del padre della gravida, tutte variabili che possono portarvi a essere cadavere prima ancora di essere padre). Questa arcana rivelazione, dalla sconvolgente portata, è dominio di pochi eletti. Esempi nella vita quotidiana sono di facile reperibilità: solo ai pochi druidi in possesso di questa conoscenza era chiaro che non rifornendo le pompe di benzina ci fosse la remota possibilità che la benzina stessa si esaurisse. Anche se nel caso specifico era richiesta una difficile prova logica. Infatti l’azione non era direttamente quella di non rifornire le pompe di benzina, ma quella di bloccare le autocisterne. Nel caso di Luttazzi, che con tanta passione ho seguito, era difficile prevedere che offendere il Papa e Berlusconi, il quale è anche il capo gerarchico del Papa, all’interno di una televisione generalista che come punta massima nell’intrattenimento ha Crozza, potesse portare alla cancellazione del programma stesso. Talmente difficile che lo stesso Luttazzi ancora non se ne capacita. Con due esempi così differenti, anche se la stretta analogia tra Ferrara e un’autobotte potrebbe confondere, abbiamo spiegato ulteriormente il concetto di conseguenzialità dell’azione. Ed è solo dominio di pochi, la semplice equazione secondo cui togliendo gli estintori si alza improvvisamente il rischio relativo alle conseguenze di un incendio. E’ difficile pensare che esuberi di personale, demenziale gestione dei centri di costo, investimenti spericolati e soggettivi, possano portare al fallimento. Eppure ad Alitalia è successo. Quivi arriviamo al nocciuolo ( e si noti nocciuolo e non nocciolo) della questione. Difatti se nel penetrare numerose volte con un oggetto contundente il corpo di una donna, lasciando poi chiare tracce dell’atto, come impronte digitali sul suddetto corpo contundente, si può incorrere nel carcere, è anche vero che l’irrazionalità del gesto penetra le difficili pieghe della psicologia umana. Con le attenuanti di vivere a Garlasco e di frequentare la Bocconi. Ossia è vero che agli amministratori di Alitalia non era richiesta, perlomeno espressamente, la capacità di fare cose irrazionali o senza senso. Sempre più nel nocciuolo della questione, scriviamo che è affrettato dire che il problema del nostro Paese è l’incapacità di collegare l’azione alle sue possibili conseguenze. Il Problema, con la P maiuscola, è nell’italianizzazione del concetto. Giocando peggio dei tuoi avversari, dovresti logicamente perdere, a meno che tu non influenzi una delle variabili collaterali come l’arbitro. Influenzando una delle variabili (assai variabili) del procedimento giuridico, potresti risultare innocente anche con clamore di colpa. Ma non spetta certo a grossolani deduttori come il sottoscritto, trovare soluzioni o scappatoie. Era solo per dire che, in questo scenario nazionale, è logico che le negligenze del mio sommo, internazionale, competente, illuminato, pragmatico, capo nel campo del marketing strategico, abbiano come conseguenza una forte variazione nei miei orari di lavoro e nelle mie abitudini alimentari. La sua deficenza nella preparazione di un piano credibile influenza misteriosamente il mio orologio biologico, distanziando sommariamente pranzi e cene e accorciando notti e cicli di sonno. Mentre il mio lavoro, prevalentemente un dovizioso copia incolla da prestigiosi istituti e rinomate agenzie, dovrebbe automaticamente far comparire nel suo giardino estero, proprio vicino alla piccola piscina, una nuova e fiammante autovettura sportiva a trazione integrale, con una cilindrata pari al numero di abitanti di un medio comune umbro. E la cosa, seguendo questo filo, potrebbe portarmi nel giro di pochi anni, a sostituirlo nella sua imbottita poltrona di pelle. Non per competenze, ma per conseguenzialità: l’uso di auto sportive può provocare la morte accidentale. Che non è un augurio. Anche se la speranza non costa nulla.

Tavola sinottica:

Se- (inserire l’azione che si prevede di fare)- probabilmente mi accadrà – (inserire la conseguenza probabile, o anche più d’una)

Quindi (desidero)(non desidero) (inserire l’azione che si prevede di fare).

L’importanza di chiamarsi Fuori

Sotto un cielo molto irish, con le nuvole che corrono frettolose verso Ovest, la pioggerellina sottile che batte sui vetri, il traffico ovattato e ombrelli colorati che camminano da soli avanti e indietro, osservo i miei compagni d’avventura. La posta in gioco è alta, si potrebbe dire che ne va della sopravvivenza aziendale, per questo si finge la massima cortesia e una inaspettata ospitalità. C’è uno dei miei migliori nemici, infossato nel suo maglione di finto chachemere marrone chiaro, perfetto sopra il pantalone di velluto marrone scuro e sul mocassino testa di moro. Perfetto si, ma per una battuta di caccia alla volpe con Harry e Carlo, o per un thè in veranda con Camilla. Ma è certo che dopo una certa età aziendale la necessità di affermarsi vestendosi bene discende in un grafico destinato a toccare terra e a rimanerci. Lei è perfetta. Perfetta per una pubblicità del Tena Lady. La tinta platino, il viso bianco, le ciglia scolorite, i denti bianchissimi e ordinati. Non una ruga, come se a sedici anni si fosse infilata la testa in un frigo. Forse lo fa tutte le notti. Forse dorme con la testa nel freezer. Si spiegherebbe anche l’estrema difficoltà nel seguire ragionamenti di una semplicità disarmante. L’abitino elegante, sbracciato in onore al riscaldamento aziendale che brucia sul tempo il buco nell’ozono, preparandoci con largo anticipo al futuro di incombenti catastrofi, sparando ventisette gradi costanti, roba da torpore, roba che sudi a novembre. Dall’abitino escono due braccia piccole, magre, troppo secche. Un manifesto di rinunzie alimentari in nome della taglia 42. Morirai magra, morirai felice, morirai risparmiando, perchè per cremarti tutta basta uno Zippo mezzo scarico. Le dita, uno smalto perfetto, di un colore decisamente indefinibile, corrono veloci sul tavolo. Tradisce nervosismo, sarà la prima vittima. Poi c’è lui, a cui tutto si perdona. E’ un creativo. Questo rende possibile presentarsi in ufficio con un paio di Camper arrotondate, pensate per un ciellino sedicenne, una felpa con una grande scritta "Ducati" sulla panza e dei pantaloni che sono un misto tra una tuta da lavoro e un pigiama per obesi. Basette lunghe che dicono che è di sinistra, occhiale curato che dice che è di destra, sorriso ebete che manifesta la sua fede per il centro, e un orologio troppo cool per essere vero. Era un copy, è un art director, insomma è da sempre un divora carogne, affila le zanne mentre si degusta la tua. Niente in pubblicità viene inventato da anni, tutto si copia con piccole modifiche. E’ per quello che vivi quel senso di dejavù perenne che ti ricorda frullatori, vibratori, pile, zanzariere. Tutto è un ricordo di tutto. E gente che si veste da adolescente, con stipendi da dirigente, rimescola questo minestrone infinito da cui si possono scolare sacchi di soldi. Basta avere un Mac, fare una presentazione con il Mac, guardare la posta con il Mac, parlare del Mac. In fondo alla sala, impegnato a gestire le bretelle che non vogliono fasciare quel prodigio sferico, perfetto, caldo, che è la panza, c’è il Missionario di Dio. Il Dio Brand, il vangelo del Marcom, i fedeli del marketing, e un intero mondo da convertire a colpi di power point e gadgets. Esso è innocuo, perchè in tempi non sospetti ha subito un delicato intervento con il quale hanno asportato parte del cervello per inserire un etichetta con il nostro marchio. Il suo Blackberry Pearl vibra di continuo, come un esserino posseduto, e attende l’esorcismo del login per vomitare milioni di mail inutili. Io guardo fuori, la pioggerellina. Sudo, mentre fuori una vecchietta è imbacuccata, con due grossi sacchi di carta. Da uno fuoriesce una scatola. E’ nostra. Signora, gentile vecchina, lei compra. Lei mi mantiene. Scenderei a baciarla, ma sono molto impegnato a giustificare il mio stipendio. Grazie della sua fiducia.