La solitudine del Cartellone DHL

Quando Galileo ha provato a spiegare al Papa la rotazione della terra intorno al Sole, il Papa non si è preso affatto bene. A posteriori si potrebbe anche dire che spiegare la rotazione della terra intorno al sole al Papa è come spiegare il concetto morale a Lele Mora, mi si perdoni la tragica e inopportuna assonanza. E per di più che cazzo vuoi che gliene freghi a Gregorio XV del moto dei corpi celesti, preso com’era da tutte le concubine e gli affari dell’allora Chiesa Cattolica? Fatto sta che al buon vecchio Galileo dobbiamo la scoperta sconvolgente di non essere al centro dell’universo. Parecchi secoli dopo, quattro e qualche anno, a voler rovinare la poesia del vago, la stra grande maggioranza degli uomini ha ancora qualche problema a comprendere che l’universo non ruota intorno all’uomo moderno e ai suoi fottuti ritmi. Per questo, con gli infradito consumati, il pareo umidiccio, il mojito nella mano destra e il Marlborino Light nella sinistra, è inutile che ti gonfi gli occhi del tramonto di Formentera, pienamente convinto della perfetta congiunzione astrale tra le tue ferie e il moto del sole a fine agosto. La dura realtà astronomica, cruda come una bistecca al sangue, è che i più grandi tramonti il nostro sole li distribuisce in queste sere. In silenzio, come tutti i grandi spettacoli, il sole si tuffa tardi dentro la fine della terra, infuocando lentamente il cielo, mangiando interi pezzi di nuvole. Lo fa a Roma, appena fuori dalla città, in mezzo ai pini marittimi, incendiandone i tronchi e lasciandosi dietro le ombre. Lo fa a Barcellona, alle spalle del mare di città, mentre il mare si mangia un pezzo di spiaggia e arriva a bagnarti le punte dei piedi. Lo fa a Milano, arrostendo di colori i prati appena fuori città, ancora pieni di profumo fresco e di fiori. Io vado a cercarlo in fondo al piccolo lago dell’Idroscalo, seduto sulla pietra, oppure in fondo alla pista di Linate, a ridosso della piccola statale che fa il giro dell’aeroporto. Lascio che il grasso boxer si raffreddi, sentendo le ultime gocce di benzina e il profumo del motore rovente. Appoggio il casco e mi siedo in silenzio. Non c’è miglior musica di un tramonto in città.
Non sei mai solo a Milano, ad aspettare il tramonto. Perché in questa stagione, appena fuori dalla città, si consuma il miracolo di questi tempi, in religioso silenzio. Infilati dentro una macchina, furtivi come faine, passionali come se niente ci fosse intorno, incuranti di me, del mio boxer e della mia voglia di stare da solo, ci sono loro: gli amanti.  E ogni tanto mi ritrovo a guardarli, immersi nella loro passione, mentre litigano con lo specchietto retrovisore e i vestiti da ufficio. Non hanno età, gli amanti, così fusi insieme in un unico miracolo di follia e passione. Non hanno testa, perché hanno voluto lasciarla fuori da questo piccolo miracolo, in mezzo a tutto il resto.
Che a vederli da fuori, a non essere li in mezzo in quel groviglio di lingue e mani, non ti resta che notare il doppio mento di lei, il cartellone della DHL sullo sfondo e il terribile odore di bruciato intorno. Con i tuoi occhi, fuori dal quel turbinio di irragionevolezza, vedi i copertoni abbandonati, lo squallore della macchina, il boliviano che pulisce il furgone.  Ma cazzo, non sta pulendo il furgone, sta buttando acqua per terra, mentre dalla sua autoradio esce tutta l’anteprima del Festival Latino Americano.
A essere fuori da questa passione vedi tutto com’è veramente. Ma forse il mondo è bello da vedere seduti dentro quella macchina, a non pensare a nulla, tornando lentamente a sedici anni.
E mentre il sole se ne va, lasciando spazio all’aria fresca di giugno, li vedi andare via, più furtivi di prima. Come se solo con un bacio fossero invisibili.
E ti lasciano da solo, a sentir venire a galla tutto il male che può fare scoprire la passione condivisa con qualcun altro. Roba che ti cambia, sicuro.
Accendi la moto e senti il boxer scoppiettare, uno spettacolo di meccanica e benzina. 
Un cane, forse dovresti comprarti un cane.

L’ansia da prestazioni

Da piccolo, guardando mio padre, dopo cena, mettere a posto pacchi di fogli con instancabile pazienza, muovendo solo di poco gli occhiali che cadevano lungo il naso, pensavo a come fosse facile organizzare la vita. Si alzava dalla poltrona della cucina e, prendendo una sigaretta, mi guardava sorridendo e buttava tutti i fogli nella pattumiera, con il benestare della raccolta differenziata che era un sogno lontanto come il 13 al Totocalcio. Insomma, tutti gli aspetti organizzativi della mia vita erano nelle mani di un sorridente uomo che in poco più di mezz’ora faceva quadrare il tutto. Da piccolo.

Il mio essere stato piccolo ha avuto una fine ben definita. Stavano per finire le vacanze, c’era uno strano silenzio in casa. Cose molto più grandi di me stavano spingendo per entrare. Madre Teresa e Lady D se ne sono andate. Ricordo i funerali in tv. E ricordo che da li a poco la vita ha smesso di trattarmi da piccolo.  In tutta risposta, ho deciso di radermi e di iniziare a vestirmi come uno che nella vita non ha problemi. Dopo aver scoperto che vestirsi da uno che non ha problemi non risolve i suddetti problemi, ho cercato di frequentare persone che sembravano non aver problemi. Scoprendo che la vita, nella distribuzione dei problemi, è estremamente equilibrata. C’è una certa disomogeneità nella distribuzione della ricchezza, statisticamente è difficile dire che siamo tutti intelligenti allo stesso modo, ma possiamo affermare che in quanto a problemi ognuno ha il suo piccolo bagaglio personale.  Così ho cercato di smettere di frequentare casi umani, cercando di limitare i danni. Conoscevo una ragazza e prima di guardarle le tette cercavo di capire se fosse stabile psicologicamente, finendo sempre per passare la maggior parte del tempo con equilibratissimi pali in culo, noiose e inutili come l’attesa. Amici equilibratamente storditi, instancabili persecutori della media. Nessun eccesso, nessuna sorpresa. Ascoltavo anche un sacco di blues. Stavo tutta la sera a scrivere, ascoltando improbabilissime compilation di blues bianco e cercando una ragionevole mediocrità.

Poi, fortunatamente, il tutto è finito. Sono tornato a valutare le donne secondo la taglia di reggiseno e la qualità delle unghie della mano destra (unghie consumate nella mano destra potrebbero significare graffi sui muri, l’ho letto su Selezione del Reader’s Digest), gli amici secondo il numero di misteriosi incidenti dovuti all’alcool e sostenendo due felicissime vite parallele. Un simpatico e agguerrito gruppo di psicopatiche è tornato a frequentare i miei sms notturni e un fortissimo cordone di problemi con intorno degli uomini è diventato il mio più stretto gruppo di amici.  Date alcune coordinate, dovute allo stile di vita, alle frequentazioni e alle possibilità di sopravvivenza ottenute sommando il tutto al numero di bottiglie di Pampero consumate durante un aperitivo, la maggior parte dei miei famigliari mi dava per morto nel giro di due anni. Sopravvivendo alle loro previsioni e a me stesso, ho potuto constatare di non essere mai stato capace di risolvere i problemi sorridendo e stracciando fogli di carta, ma per lo meno di essere ancora qui.

Per dovere di cronaca, l’unico dramma non risolto della mia vita è uno degli effetti collaterali della cosidetta "ansia da prestazione". Quel miracolo meccanico per cui un insieme di muscoli che si contraggono solo nel intravedere una nudità parziale di un polso di una donna (ma spesso anche nel vedere marmitte truccate o altri oggetti), fa si che niente accada quando una donna, nella sua totale femminilità, ti si presenta dinnanzi, nella sua totale o parziale nudità, comunicando a gesti, parole o odori, una certa intenzione a valutare la possibilità di simulare atti riproduttivi con te e tu niente. Niente significa niente. Quando da quelle parti si dice niente, significa niente. Perchè ci sono parecchie vie di mezzo. Ad esempio, dopo il terzo cuba libre, la tua percezione di una colossale erezione potrebbe essere in realtà paragonabile al sottile movimento di un filo di cotone. Invece sei sobrio, sei pronto, sei tu. Sei pronto tu, perchè il resto di te non sembra esserlo. Questa è la definizione di "ansia da prestazione".  E fu un caldo pomeriggio di aprile quando, immerso nei più lussuriosi pensieri, sudavo allegramente insieme a una lussuriosa quanto prorompente donna. Conoscendoci da più di venti minuti, ed essendo entrambi estimatori di Picasso, consideravamo maturi i tempi per riprodurci ed originare una felice prole. Nel suo respiro si percepiva la voglia, nel mio l’attesa. Sono quei momenti in cui ti rendi conto di quanto la vita sia lontana da un film. Ma sono anche gli unici monenti in cui non te ne frega un cazzo che la tua vita non assomigli a un film.  Tutto era pronto. Tranne uno degli strumenti principali per perpetrare la nostra idea. Il mio. Superata la difficoltà del momento (spostarla dal letto per raggiungere il bar più vicino), ho passato la serata a controllare che tutto fosse a posto. Al tatto non sembrava mancare nulla. E’ stato solo dopo un paio di giorni di meditazioni e consultazioni in internet, nei quali ho scoperto almeno settanta malattie mortali che si manifestano con un semplice mancato alzabandiera, che mi sono convinto a ridare l’esame. Ed è stato allora che tutto è finito. Problema risolto, si direbbe. E giorni di pratica confermarono l’ipotesi. Ripresa in mano la rubrica del cellulare (sapevate che mettere il cellulare in tasca può portare all’impotenza? Interessanti studi dimostrano il pericoloso nesso tra il testicolo e le onde elettromagnetiche del cellulare. Anche il cuore ne risentirebbe. Ma vuoi mettere morire di infarto al posto che morire impotenti?), ho anche improvvisato un paio di rimpatriate con delle simpaticissime Navi Scuola, per verificare il corretto funzionamento del sistema. Tutto andava con ordine, e la cosa è finita nel dimenticatoio insieme alla focosissima amante e ai suoi capelli biondi (è molto più facile che tutto accada con una bionda. L’ho letto su un sito americano contro le bionde).  Solo dopo parecchio tempo, come tutte le grandi sofferenze, mi è tornato in mente il suo sguardo e quella cazzo di frase. Quelle parole infami, quella bastardata di sguardi e parole che solo una donna all’apice della sua crudeltà può regalare. Quel commento fuori posto, quando il silenzio sarebbe impagabile, come dinnanzi a tutti i disastri. In un momento in cui la ragione ti dice di guardare silenziosamente al futuro, tu parli al presente. Quel mancare di tatto che dovrebbe farti capire molte cose della persona che hai davanti (o dietro, dipende dai costumi).

"Ma non fa niente, tesoro".

Questo non l’ho ancora superato.

 

E’ praticamente ovvio che esistano altre forme di sfiga

Certo del fatto suo il Morelli entra nel bar con fare deciso e affronta la platea orgoglioso della sua copia personale de La Gazzetta Dello Sport. L'oggetto in effetti, esclusivamente in Italia, assomiglia più a una inconfutabile prova dell'esistenza di Dio piuttosto che a un quotidiano sportivo. Viene brandito e ostentato in occasioni particolari dove maschi adulti di differenti tribù desiderano confermare la loro superiorità sportiva. Già l'avere La Gazzetta sotto braccio il lunedì mattina testimonia la fortissima volontà di scassare i coglioni nelle prime fasi della giornata. 
Non sono sicuro nemmeno del fatto che si chiami Morelli. Lo immagino io. Di statura media, corporatura media, lineamenti inespressivi, montatura trasparente, il Morelli ama vestire abiti fondamentalmente grigi, cravatte sotto tono e scarpe mal lucidate. Frequenta lo stesso bar che frequento io il lunedì mattina. Credo per le stesse ragioni per cui lo frequento io, anche se lui prende un marocchino, una brioches vuota e paga sempre con la moneta. Il pagare la colazione con la moneta alza di molto le probabilità che il barista apprezzi la tua esistenza. Perchè il barista, in quanto tale, tende a prevedere che solo una piccola parte di esseri umani che frequentano il bar paghi con banconote. Una previsione tragicamente sovvertita dalla dura realtà. Ma è prerogativa del barista, in quanto tale, continuare a credere nell'uso smodato di monete. I cinque euro sono offensivi, i dieci un grosso problema, i venti una tragedia. I cinquanta sono un disastro apocalittico al quale di solito si pone rimedio tentando di prendere caramelle orrende con doppia menta, doppio xilitolo, tripla fragola, capaci di forare un comune tessuto gastrico in pochi istanti. Le caramelle, sul cui prezzo varrebbe la pena riflettere, alzano la posta di due euro al massimo, ma non si sa perchè autorizzano al pagamento con la banconota da cinquanta.
Ma del Morelli parlavamo. Uomo di cui non si potrebbe dire nulla, se non per quella sana abitudine a far cadere l'occhio dentro l'abbondante scollatura della cameriera, abitudine condivisa con la maggior parte della clientela. Un piccolo vizio, un'umana debolezza, un segno di virilità. L'unica concessione a una vita senza rumore. Ci vediamo solo il lunedì, perchè io vado a fare colazione lì solo il lunedì. Giornale, tabacco, caffè e brioches alla marmellata appena sfornata. Una consistente botta di vita per iniziare bene la settimana. C'è sempre la stessa umanità, sempre alla stessa ora, che fa sempre le stesse cose. Il barista saluta e butta battute da Bagaglino, ma è pur sempre lunedì mattina. La cameriera muove piattini, lava piattini, appoggia piattini sul banco, asciuga piattini, impila piattini. Un rumore di fondo che azzera la sua poderosa scollatura, rendendola un essere tragicamente fastidioso per un lunedì mattina. Ha la pelle bronzea, gli occhi scuri e un sacco di braccialetti rumorosi al polso destro. Oro, argento e ciondolini che picchiano contro i piattini. Lo scorso lunedì, proprio mentre il Morelli faceva il suo trionfale ingresso, stava aprendo il cartello dei gelati, quello di latta che si mette fuori da cui i piccoli bar di paese cancellano con il pennarello i gelati più buoni, disponibili, si vede, solo in centro città. Attività che permetteva a tutto il tavolino di fuori di ammirare con sguardo scientifico il perizoma a filo che spuntava dal pantalone a vita bassa. Quella lingua di culo che misteriosamente, se vestita dal perizoma, risveglia passioni animalesche. Il Morelli, dunque, entra trionfale, brandendo La Gazzetta Dello Sport e accennando un sorriso al barista. Lui non coglie, troppo impegnato nella difficile operazione di rendersi simpatico a un troione over quaranta che sorseggia un cappuccio. Allora, finalmente, sento la sua voce. La voce del Morelli. Una voce normale, ne troppo alta ne troppo bassa. Mi sembra che tutto, intorno, si fermi per un secondo, per ascoltare la voce del Morelli. Anche il nonno Baffuto che legge Metro e City come se si trattasse del Capitale di Marx, smette per un secondo il suo ritmico enfisema. Tutto fermo, anche il traffico fuori. E il Morelli che parla. Fermo la mia mano, che si preparava a darmi in pasto il culetto della brioches, appena pucciato nel caffè caldo. Mancherebbero pochi secondi all'ultimo sorso di caffè e al pagamento, tassativo, con banconota da venti euro. Mancherebbero, perchè il tempo si ferma. Come se tutti aspettassero da giorni queste parole.
"Vedi Paolo, anche qui dicono che nel 2010 ci sarà ancora crisi economica".
E poi non sento più nulla. Sono tagliato fuori dalla risposta del barista, dall'enfisema del Nonno Baffuto, dal rientro della cameriera che comincia a far roteare piattini come una ninja.
Il Morelli è asceso, dentro la mia mente, in vetta tra la combattuta umanità che cerco di dimenticare tutti i giorni. Il Morelli è arrivato a un punto dove pochi altri sono arrivati prima. E con una sola frase.
Il Morelli, nel lunedì in cui la Lazio avrebbe regalato lo scudetto all'Inter, con la Roma che si lamenta, con Roma Inter in settimana, con il Milan che tace, con la FIGC che tentenna, con un pezzo di Italia che rumoreggia, il Morelli dunque, armato del mezzo supremo per iniziare una discussione su uno qualsiasi di questi ineccepibili argomenti, possessore della Bibbia di tutte queste amenità, brandendola come un arma facendo il suo ingresso nel posto più ovvio dove parlare di tutte queste cazzate, cosa fa? Legge la pagina economica della Gazzetta. Fa riferimento all'unica notizia che forse la Gazzetta stessa ha messo lì per caso. Usa una fonte tra le meno attendibili del globo. Fa riferimento a una notizia generica, scontata, ovvia, riportata da un quotidiano che si occupa di tutt'altro. Il Morelli, che si chiami Morelli o meno, da lunedì è nella mia mente come stabile presenza per spiegarmi molte cose sul mondo.
Eppure, troppo stanco per scrivere o leggere, sprofondato nel divano armato di Hagen Dazs, mi trovo davanti a Voyager. Non avere Sky, Mediaset Premium, Rai Extreme, Tele Lombardia Pervert o altri abbonamenti, in queste serate piovose dove la testa pesa troppo, obbliga alla visione forzata del palinsesto standard. Certe volte ho la certezza di essere uno dei cinquanta a guardare una trasmissione Rai. O perlomeno uno dei cinquanta sotto i sessant'anni e in condizioni celebrali stabili.
Fatto sta che cerchi nel grano, sindoni fosforescenti, Atlantide che riemerge in Brianza rompendo le tubature di numerose ville, e misteriosi cavalieri templari che si nascondevano le reliquie a vicenda, mi hanno fatto tornare in mente il Morelli. Il Morelli che cita la Gazzetta dello Sport in merito alla crisi economica, dicendo proprio "crisi economica". Un giubileo di immagini mi rotea per la testa. La faccia inespressiva del barista, le labbra gonfie del troione, l'espressione del Morelli, l'indefinito punto di congiunzione della scollatura della cameriera, il calendario di Padre Pio appeso dietro alla cassa, la pubblicità delle paste pronte della Barilla. E di colpo voglio sapere chi è il Morelli veramente. Covo il sospetto che sia un maniaco seriale, che uccide le sue vittime con la tagliente carta della Gazzetta dello Sport, mangiandone i resti davanti a Qui Studio a Voi Stadio mentre cerca di farsi una ragione della crisi economica. Oppure è un perfetto padre di famiglia, ordinato impiegato con la passione per le tartarughe di terra, che alleva sul piccolo terrazzo che si affaccia sul Passante Ferroviario sognando il Super Enalotto per andare a vivere a Lampedusa nell'oasi WWF. O forse vive ancora con sua mamma, e di lavoro controlla le perdite nelle tubature di irrigazione dei campi. O magari fa il cuoco in una mensa aziendale, e tende a tossire deliberatamente nei primi pre cotti, godendo della proliferazione dei virus intestinali, democraticamente attaccati ai dirigenti e agli impiegati. Chi è il Morelli? Ma anche, perchè lo chiamo Morelli?
Mi addormento sognando una puntata di Voyager dedicata alla misteriosa esistenza del Morelli, cavaliere templare che fa cerchi nel grano in Brianza. 

PS: dopo la visione forzata di Voyager ho abbracciato la teoria espansionista, secondo cui la terra si gonfia da miliardi di anni espandendosi, appunto, nell'universo. Pur non capendo come la cosa possa interessarmi da vicino ed essere oggetto di una trasmissione in prima serata, mi sento fortemente affascinato dal contesto e dalle relative conseguenze. Vi invito quindi, prima che sia troppo tardi, a documentarvi in merito. Una delle più prossime fatalità sta nell'espansione senza controllo della Francia, che potrebbe essere motivo di ringalluzzimento dei cugini. Non sia mai. Cerchiamo di allargarci anche noi di conseguenza. Fottuti Francesi, se la Provenza si allarga, la Basilicata non sarà certo da meno.
 

Ci sono momenti in cui sarebbe meglio lasciar perdere

Così, all’improvviso come un temporale che ti arriva davanti alla finestra del soggiorno senza far rumore e poi esplode rovesciando tutta la sua rabbia. Così come un piccolo problema che di colpo diventa questione di vita o di morte. All’improvviso, mi sono ritrovato a piangere. Che di mio, storicamente, ho sempre preferito il broncio. Il broncio, inteso come contrazione dei muscoli facciali, labbra a culo di gallina, occhio contratto come a inquadrare una misteriosa scritta, è molto più macho. Il broncio è l’alternativa maschile al pianto a getto, da sempre più adatto a signore e signorine. Da qualche tempo, improvvisamente, mi sento di piangere. Le cause, che sarebbero buon argomento per un paio d’anni di analisi, sono talmente pesanti, da far cadere ogni dignità maschile. Piango spesso e volentieri. Preferisco farlo davanti a sconosciuti, con cui non ho nulla a che fare. Per non dover giustificare nulla. Piango, semplicemente. Perchè tutto va a puttane, tutto tranne il sottoscritto, beninteso. Ma piango anche per motivi ben più gravi. Così, per forza, mi sono trovato a ragionare sul commuoversi.

Non mi commuovevo così per qualcosa fin dai tempi de "I diari Della Motocicletta". Faceva già caldo, era una serata buona fin dal principio. Al cinema non c’era coda. Così abbiamo preso i biglietti e siamo corsi dentro la sala. Eravamo in quattro. Ma dall’inizio del film ero da solo. Io e il film. Poi è stato stupendo anche parlarne, bevendo birra fin troppo fredda, dimenticandoci di tutto il resto. Ricordo di essermi alzato la mattina dopo con un mal di testa tropicale, ripensando a come sia possibile commuoversi per un film.

E così, mentre guardo le nuvole che coprono tutta la Francia su cui sto volando,  inizia "Say Goodbye". E tutto rallenta, anche le nuvole. Il cielo sembra aspettare le mie lacrime, che arrivano puntuali. Piango in un aereo pieno di gente, guardando fuori da un finestrino il mondo passarmi addosso. Piango ricordando momenti, pezzi di pelle, profumi e parole. Tutto si ricompone lentamente, mentre ascolto le parole, mentre sento gli sguardi della mia vicina di posto.

Piango perchè non ce la faccio più, per questo piangono gli uomini. Ma piango anche per il ricordo di quanto era perfetto. Le parole sembrano scritte per me, eppure è semplicemente una canzone. A questo servono le canzoni. Per guardare dall’alto il mondo e trovarsi in un preciso momento del proprio passato. Un minuto prima di commettere l’errore fatale che ti ha portato qui.

Eppure pagherei per poterlo fare più spesso, perchè ricordare quel preciso momento è stupendo. Fa male come un coltello, ma non lascia nulla sulla pelle.

Domani tornerò ad occuparmi di me, di tutto, ma adesso mi fermo su quel ricordo, quel momento preciso che ricordo perfettamente.

PS: caldeggo l’ascolto molteplici volte di Say Goodbye della Dave Matthews Band. Non può essere così perfetta solo per me. Forse tutti hanno diritto, per un giorno, ad essere più idioti di un tronista di Maria De Filippi. Io non stavo poi così male. Mi spiace per la signora della fila nove, posto J, che penserà di aver fatto il viaggio con uno schizzofrenico. Ma se solo la signora potesse immaginare la metà di quello che io sono stato costretto a vivere, piangerebbe con me. Allora io non piangerei più, limitandomi a un ben più macho broncio.

Meno male

PS: ricordo tutto, o ricordo tutto quello che voglio ricordare. Ricordo soprattutto che è stato stupendo perdere le nostre ore a parlare, seduti sull’erba, e trovarsi dentro l’alba di un sole qualsiasi a Milano. Smettendo di colpo di essere amici, per diventare amanti. Quello ci ha ucciso, piango per quello. E’ stupendo.

Per chi volesse tornare alla dura, mera, realtà, vi basti pensare che sto scrivendo affacciato su un balconcino che da sulla Porta del Sol, a Madrid. Esattamente due metri sotto di me un cazzo di stronzo ubriacone di merda sta suonando la cornamusa da tre ore senza smettere. Maledetto l’alcool e tutti gli inglesi alcolizzati. Benedetta Madrid, che mi aspetta sempre per mettere in scena questo stupendo casino. Io fumo, scrivendo al computer, in camicia e mutande. Pochi alzano gli occhi per guardare. Al massimo troverebbero una faccia con un broncio provvisorio.

 

 

 

La Poesia Sei Tu Che Leggi

Più alto di quanto ci si possa aspettare da un nordico, biondo, efebico, compassato, olandese, si aggira per l’atrio della Stazione Centrale armato di sandalo, calzino in vista e tracolla pronta per essere scippata dal primo zingaro ancora poco pratico delle difficili borse italiane. Prima che essere un futuro scippato, e quindi un prossimo frequentatore del posto di Polizia della Stazione, episodio che ricorderà amaramente per tutta la sua vita, citando ai nordici nipoti il primitivo comportamento dei nostri agenti e il trauma di essere costretto a spiegarsi a gesti, è terribilmente solo e spaesato. Essere soli in un posto che non è il posto dove vorresti essere è fastidioso. Non capire cosa dice la maggioranza delle persone intorno a te, non capire cosa c’è scritto sui grandi cartelli, sui monitor, nei bar, sulle magliette della gente, è un’esperienza brutale. Il destino gioca duro con il vichingo in questi giorni. Un vulcano, molto più a nord del nord per quello che lo intendiamo noi, spruzza nuvole di roba che nessuno ha capito bene cosa sia, ma tutti concordano con il dire che è un gran bene per lo scafasciato sistema ferroviario italiano. Così, come un piccolo, disordinato, stranamente abbigliato esercito, olandesi, francesi, polacchi, austriaci, tedeschi e inglesi, abituati alle sofferenze degli aereoporti italiani, si sono trovati nel girone infernale della Stazione Centrale. Tentano di chiedere informazioni all’algerino con la pettorina, che in verità pulisce il binario quattordici. E’ pagato per pulire questo cazzo di binario, non per trovarsi a parlare francese con un inglese che vuole andare in treno dove i treni non vanno. Ma qualsiasi cosa assomigli a una divisa da diritto al potere, nel bene o nel male. Alla Stazione Centrale, di questi tempi, c’è un solo Bar. Vai tu a capire come sia possibile. Tu arrivi, ti vuoi fare un caffè, e scopri la mediocrità del tuo desiderio, condiviso con altre cento persone, ordinatamente in coda. Fosse per te, lasceresti perdere anche il treno, ma il mondo va in un altro modo. Così arrivi a Roma senza il caffè della mattina. Che dovrebbe essere tra i diritti universali del business man. Che uno dietro al pericoloso inglesismo ci pensa un sacco di soldi, figa, soddisfazioni, macchine con più cavalli di una riserva indiana. Invece c’è una fragile impalcatura di abitudini solitarie, piccoli pezzi di casa in giro per il mondo, segrete tradizioni che hanno il sapore di un’abitudine famigliare. Anche il nostro vichingo, per una spremuta d’arancia farebbe prima ad andare in Sicilia a piedi. In compenso può guardare le vetrine di un sacco di negozi e prendere scale mobili a non finire. Che gli architetti italiani fanno cose strafighe in America, ma qui si innamorano della scarsa funzionalità. Io, che in un sabato così vorrei essere al mare ad aspettare la tempesta, sono accompagnatore di una francese che vorrebbe tornare in Francia. Vai tu a capirli. Ho il grande vantaggio della lingua madre, una spiccata dose di pazienza, un grosso malloppo di tessere fedeltà di tutte le aviolinee, tutti i treni e parecchi alberghi e una fondamentale conoscenza del luogo. Gioco in casa, insomma. In un tempo ragionevole, per lo meno secondo lo standard delle nazioni in via di sviluppo, ottengo un biglietto per oltreconfine.  Mentre guardo le bionde soldatesse nordiche bivaccare in short e ciabatte sotto un mosaico fascista, provo un poco di compassione per il vichingo. Così mi avvicino e chiedo cosa voglia fare. Superata la diffidenza per tutti quelli non biondi, mi spiega che cerca un biglietto per Amsterdam. Allora gli suggersico di non stare in coda davanti all’ufficio oggetti smarriti e di provare in una delle due biglietterie. Poi me ne vado provando compassione, quella vera. E’ stato bello avervi tutti qui per il Salone Del Mobile. E’ stato bello vedere le strade piene, vedere i tassisti felici, sentire buona musica per le strade, toccare con mano il brivido di essere internazionali. Anche per noi, silenzioso popolo a cui una sedia senza gambe sembra solo una stronzata, a cui una lampada a forma di banano tropicale sembra una quantomeno inutile, a noi che del vaso a forma di bicchiere non sentivamo certo il bisogno. E bello vedervi pascolare in centro, sentire i fischi degli zarri dietro i culi alti delle (alte) bionde. E’ bello vedere gli sguardi delle nostre compassatissime fighette milanesi sciogliersi davanti a tanta bellezza nordica, misurabile in metri e bionditudine. Sembrava di essere dentro un catalogo di H&M, fatto di gilet gialli, canotte blu, cappelli da messicani in pensione, scarpe slacciate e jeans a caviglia stretta, ma fa niente. Ognuno ha diritto di essere ridicolo come preferisce.

Riscoprire il treno è una delle più belle lezioni della storia. Per il tempo, biblico rispetto a un aereo, per gli odori, per i rumori, per le stazioni.

E più guardavo Milano in questo fine settimana più mi davo ragione: la poesia sei tu che leggi, la musica sei tu che ascolti, la vita sei tu che vivi. Sei tu che fai succedere le cose, sei tu che leggi, sei tu che ascolti.

Così, dopo un giro compulsivo in libreria, dove per il terrore di ricadere nelle cagate pazzesche che mi sono toccate ultimamente ho dato fondo alla carta di credito giocando sul sicuro (Buckowsky, Vargas, Frascella e un nuovo Beppe Tosco, che in verità non è male), sono uscito a camminare nel mezzo di tutto questo bordello. Trovando tutto quello che cercavo di scrivere da un pezzo. Io ho la grande fortuna di scrivere, ma tu hai la grande fortuna di leggere.

Armato di matita e di una playlist di tutto rispetto, con Mina che si contende lo scettro contro un Silvestri d’annata e una Consoli unplagged, ho scritto. Mi piace quando scrivo sapendo che ti ci vorrà poco a capire. Capirai quello che vuoi, leggendo. E starai bene quanto io che ho scritto.

Non chiamarla poesia sarebbe davvero un peccato

 

Up and Down

Inoltre, buona parte della mia esistenza la passo a rifiutare richieste d’amicizia su facebook. Gente sconosciuta che si presenta con una foto due  per due e un nome. Nel migliore dei casi, è un amico di amici di un amico di un mio compagno del liceo. Nel peggiore dei casi è uno sballone metallaro amico di qualche locale che in una vita passata ho assiduamente frequentato pur di bere del rhum caldo. Ci sono anche una discreta quantità di dubbie femmine, che già nella foto dichiarano l’intento riproduttivo sotto compenso. Sicchè, il rifiutare queste amicizie mi occupa parecchio tempo. Non che il resto del mio tempo digitale sia occupato meglio: delle mie tre caselle mail solo una è per ora immune allo spamming violento. Le altre due sono abitate da centinaia di newsletter, un flusso di informazioni devastante su casali, piscine, libri scontati, moto, appartamenti, lingue orientali e prolungamenti del pene. Si, prolungamenti del pene. Si, ricevo newsletter sul prolungamento del pene. No, non spam come quelle del viagra. Una newsletter, con tanto di breve editoriale, storia di un testimone dal pene prolungato e gli incredibili numeri dei peni che si prolungano. Non ho ben capito come funzioni l’operazione, ma mi sono soffermato brevemente su una meditazione interiore volta a capire se il prolungamento del mio pene possa effettivamente cambiare la mia vita in meglio. Sembrerebbe di no. Alla fine, mi tengo il mio pene e spero che le mie relazioni lavorative e la mia vita professionale e affettiva non ne risenta. Poi sta arrivando la primavera. Lo dicono i fiori, che nascono riempiendo di colori la mia zona. Lo dice il sole, che arriva prima e va via più tardi. Lo dico io, che ho un bisogno spasmodico di primavera. Vesto leggero da due settimane, sfidando il freddo artico e i venti polari e portando serenamente una polmonite in giro per la città, tossendo tutta la mia vita e consumando tredici fazzoletti di carta all’ora. Quando la primavera arriverà, io sarò pronto. Sono pronto da febbraio, sarò pronto fino a giugno, casomai volesse passare.

Per il resto, nulla. Sto seguendo dei sogni e faccio di tutto per realizzarli. Ad esempio erano anni che volevo iniziare un post con "inoltre" e finalmente l’ho potuto fare. Mi sto perdendo nella città e nelle sue storie, e passo un sacco di tempo ad ascoltare gente. Questo, devo dire, non lo avevo mai fatto. Ho trovato un vecchietto che coltiva tulipani contro la tangenizale, su una striscia di verde appena sotto la curva di Linate. Ho trovato un riparatore di biciclette che ha un sacco di tempo da perdere a parlare di tram. Il mio farmacista perde intere ore a spiegarmi gli innegabili vantaggi del vino rosso di qualità. Ho fatto spesa in libreria, perchè sto provando, ci ho provato, in tutti i modi a leggere Roth. Ma non ci riesco. Non riusciamo a incontrarci. E’ un disastro. Poi ho incontrato un libro davvero brutto: La Vocazione, di Cesare De Marchi. Insomma, lo scaffale dei libri abbandonati ha subito in incredibile allungamento. 

Fortunatamente ho ricominciato a scrivere. Quello che mi viene meglio. Poesie. Anche se mi viene molto meglio leggerle. Devo, ultimamente, perfezionare la tecnica, perchè l’ultima poesia: "Barracuda e Brevimano" è andata persa. Scritta su un foglio a quadretti, lasciata in un bar nel bel mezzo dell’Emilia. Forse sarà sepolta sotto mezzo metro di neve. Rischiavo la stessa fine.

Ho ricominciato a fare la valigia con grande frequenza, parto sempre dagli stessi posti e arrivo sempre negli stessi posti. La valigia, invece, parte con me ma spesso decide di fare approfondimenti culturali su come vengano gestiti i bagagli in altre capitali europee. La mia valigia è stata in graziose cittadine che io non ho mai visto. Un peccato, certe cose si dovrebbero fare insieme.

a presto

Così è perfetto

A starsene seduti sulla sabbia fredda a guardare il mare non si risolve molto. Levanto è quasi deserta, come in un qualsiasi sabato di febbraio. Il mare è il mare di Levanto. Quella massa d’acqua azzurra e bianca che si alza potentemente prima di arrivare a riva e mangiarsi pezzi di spiaggia. Della grossa mareggiata dei giorni prima rimane solo la sabbia bagnata, una linea curva, un confine segnato per ricordare quanto possa essere potente. Non c’è nemmeno il profumo della primavera, e bisogna cercare a lungo per trovare le tracce del sole ne cielo bianco. In fondo, da qualche parte a Ovest, grosse nuvole bianche si appoggiano sul mare. Nell’angolo, protetta dal molo e dagli scogli, la torre del porto sembra aspettare ancora un’altra mareggiata. E’ incredibile quanto silenzio possa fare il mare. Arrivare oltre la linea della prima onda non è facile, l’acqua è gelida e la corrente traccia un disegno di alghe e acqua nera. Le mani spingono forte per fare pochi metri, scivolando sulla tavola. Si sente solo il rumore dell’attesa. Vista da fuori, la ferrovia non sembra poi così brutta. Ci sono gli sguardi rilassati dei pochi in acqua. Infilati nelle mute, ad aspettare che questo mare porti il suo più bel frutto. Quando il mare di Levanto si arrabbia è una rabbia cieca, sconcertante. Oggi sembra andare verso una calma surreale, grigia come il cielo. Il vento che ogni tanto arriva disegna piccoli rivoli di schiuma e taglia la faccia bagnata. Fa quasi male da quanto è vero. Poi arriva il momento in cui, per qualche secondo, la pancia del mare si stringe, l’acqua si abbassa, tutto sembra chiaro. Remare al momento giusto. Forte. Con tutte le braccia che hai. Sentire la spinta, forte. Fortissima. Dietro, a pochi respiri dalla tua schiena, arriva il mare. E’ il momento di alzarsi. La tavola scivola precisa, la spiaggia si avvicina. Tutta questa fatica per allontanarsi da tutto questo e così poco per tornarci davanti. Sentire la pancia del mare è la prima cosa da fare. Ogni onda ha la sua direzione e il suo motivo. Ed è inutile provare ad andare dall’altra parte. La direzione la sceglie sempre il mare. A te non resta che assecondare, sentendo la tavola scivolare, finalmente, veloce e precisa. Cadere è una questione di respiri, di millimetri, di movimenti sbagliati. Cadere significa sentire l’infinita pietà del mare, capace di una forza brutale, di una rabbia tremenda, ma anche di risputarti fuori, lasciare ancora che tu possa sentire la sua pazienza. Il mare è la più grande spiegazione della forza terribile che diventa pietà. La vera forza è quella che diventa pietà quando deve. Il freddo passa la muta e arriva dritto sulla pelle. Ritornare fuori è ancora più dura, il fiato non basta e arrivano alla gola strani rumori. Le braccia fanno il loro dovere, sotto la torre del piccolo porto, cercando di rimanere fuori dalla corrente. Quando arriva il sole, per pochi minuti, sembra che tutto lo saluti. L’acqua cambia colore, i vetri delle case riflettono luce, la spiaggia diventa più ospitale. E il mare continua a muovere la sua pancia, per ogni respiro un onda, per ogni onda un bene infinito. Sentire tutto questo sotto i piedi è la più grande cosa che possa succedere in un sabato di febbraio.

E’ anche il modo migliore per ricominciare. Perchè stare seduti a guardare la vita non ha molto senso. Nuotarci dentro, sapendo che tutto ha un suo senso.

Sono tornato

Anche io nel mio piccolo ho provato con il buddismo

Io mi incazzo due, massimo tre volte l’anno. Nel 2009 ad esempio mi sono incazzato solo una volta. Parecchio incazzato, nel 2009. Avrei ucciso, ma poi ho pensato di ritardare la cosa al 2011 per avere più tempo per godermi la vendetta. Perchè, per intenderci, il decreto di incazzatura include il condono alla vendetta. Noi cattocomunisti abbiamo la tendeza a lasciare cadere le peggiori cose nel calderone del perdono. Il perdono è un invenzione cattolica che prevede il tralasciare le necessarie ripercussioni fisiche su uomini, animali e oggetti che provocano una ragionevole rabbia. Dopo il perdono, solitamente segue un intenso momento di frustrazione. Nel caso delle grandi incazzature, il mio sistema nervoso prevede un complesso sistema per tornare in pari. Anche per questo io mi incazzo due o tre volte l’anno. Perchè è molto complesso attuare il delicato piano di vendetta, fisica e morale, atta alla distruzione totale della persona, animale, cosa, che è causa scatenante della mia incazzatura. Diciamo che "cane mangia cane", e quando mi incazzo io mangio per ultimo. Niente di pirotecnico: nonostante un buon dritto destro e un discreto montante sinistro, prediligo l’articolata rivalsa morale. Ancora devo finire di attuare il piano di distruzione per la causa di incazzatura del 2009. Si tratta di complessi piani di battaglia in cui nulla viene lasciato al caso, per fare si che tutto sembri abbandonato al caso. Il rischio è perdersi nei dettagli. Pago un grande senso estetico e un discreto fascino per le grandi opere. Fossi stato un gerarca nazista, sarei ancora piegato sulle assi di legno per decidere il colore più adatto alle mie casette di concetramento. Se fossi juventino, sarei ancora indeciso sulla miglior vendetta per avermi trasformato nell’interista del nuovo secolo. Detto questo, incazzarsi è una gran perdita di tempo. Roba da perdenti. Molto meglio investire il tempo in attività decisamente migliori. Preferisci tenerti i succhi gastrici a galleggiare nell’esofago una sera intera davanti a Porta a Porta o provare ad occupare il tempo che ti separa dalla fine con attività sicuramente più importanti come la generazione di progenie o almeno il pensarlo? Anche per questo perdo poco tempo con questa storia delle incazzature, limitandomi a constatare, spesso, che il genere umano ha dei grossi problemi di autovalutazione e di evoluzione. Suono il clacson il giusto e uso gli abbaglianti per il gusto di infastidire quello davanti. Accetto pareri differenti e commenti taglienti. Poi, due o tre volte l’anno, mi incazzo sul serio. Ecco, adesso sono incazzato sul serio. La cosa non mi stupisce. Le basi c’erano tutte. Cercare di farmi incazzare e riuscirci è statisticamente probabile come giocare a Win For Life e vincere il vitalizio di quattromila euro. Poi, quando vinci, ti porti a casa il vitalizio. Ecco, io adesso sono incazzato. Quindi dormirò molto poco. Iniziando a delineare la migliore soluzione per rovinare lentamente la vita alla causa scatenante del mio problema. E per di più mi hanno rovinato la cena. Nella mia piccola Barcellona. E per di più fa freddo. Sarebbe il caso di presentarsi volontariamente in caserma per evitare stragi a colpi di cuffie dell’iPod. Ma preferisco gironzolare sulla rete per tentare di dimenticarmi. Mi sorprenderò da solo con la vendetta. Che, come tutti i piatti freddi, sarai obbligato a finire. Tutta. 

Chiedimi se sono felice (cazzo)

Chiedimi se sono felice. Fallo in diverse ore del giorno. Fallo durante la doccia, dopo il lavoro, mentre canto mentalmente in concerto con Elio e tolgo il calcare dagli orifizi del sifone. Ti potrei rispondere si. Chiedimelo mentre rielaboro mentalmente la busta paga, e con una eloquente equazione matematica divido le ore/euro +fatica mentale * aspettative e ottengo sempre un numero molto vicino allo zero. Chiedimelo la mattina, in aereoporto, alle sei. Meno due gradi, buio, maledetto buio, caffè amaro, sigaretta. Cazzo, sono la cosa più lontana dalla felicità che esista. Fanculo i bambini africani, sono più infelice io. I bambini africani non hanno la nebbia, il buio e il freddo. E anche il mio mal di testa e la mia dannata ostinazione a non prendere nessun medicinale (contando il vino rosso come bevanda e non come medicinale, almeno quello fermo). E che cazzo. Lasciami dire, almeno mentalmente, cazzo. Lo voglio dire sedici volte almeno. Non do fastidio a nessuno, se mentre fumo avvolto nel cappotto, esprimo tutto il mio dissenso ripetendo a mente la parola cazzo. Cazzo. La svolta, lo so, può arrivare con piccoli, semplici gesti. Un iPod, un giornale, un posto finestrino e un sedile di fianco vuoto. C’è tutto questa mattina. Richiedimi se sono felice. Cazzo, si. Solo un po’ stressato, ma cazzo. Durante la procedura di de icing quasi mi addormento. Appena posso, accendo l’iPod. Lope Fiasco, Club Dogo, Nofx, Ironik. Sembra quasi che l’iPod voglia rendermi tutto più facile. Mi accorgo della mia vicina semplicemente per il fatto che da dieci minuti chiama ossessivamente la hostess. Che non arriverà mai. Primo perchè schiacciare il pulsante di chiamata due volte annulla la chiamata. Prima pulsazione, attivi la chiamata, seconda pulsazione, la cancelli. Andando avanti a colpi di due, puoi al massimo ottenere un simpatico effetto disco dance. Secondo perchè su un volo in piena turbolenza, nessuna hostess, nemmeno tra le matricole ultramotivate, si alzerebbe mai dal suo sedile. Non tanto per il rischio fisico. Più per pigrizia. Sicchè, la signora continua a schiacciare il pulsante. Avrà una quarantina d’anni, due menti molto importanti, un’occhiale squadrato e provocante e due bottoni della camicia slacciati che rivelano l’inutile sforzo di ghiandole e muscoli contro la forza di gravità e un indice destro molto deciso a premere pulsanti. Peccato. M stavo quasi addormentando. Arriva una hostess con due occhi tremendamente azzurri, un naso tremendamente grande e la stessa voglia di lavorare dell’orso Yogi. Posso finalmente disinteressarmi alla cosa. Cazzo, chiedimi se sono felice. No. Non posso esserlo. Mi stavo addormentando proprio sopra Torino. A naso almeno un ora e quaranta di sonno. A ben vedere, il piccolo A319 saltella nel cielo terso come se fosse posseduto da uno strano solletico. Si parla di movimenti fisici che sicuramente ispirano forti riflessioni sulla vita, sulla fede e su quante cose ci sarebbero ancora da fare. Ma si può anche dormire. Invece la signora è decisa. Tiene una mano letteralmente avvolta sul bracciolo della poltrona. Come se abbracciare un sedile di plastica potesse evitare la morte. La guardo. Inizia a parlare, proprio mentre inizia Mina. Discorsi convulsi sulla paura di volare. A cui rispondo con le classiche risposte sulle statistiche e sulle possibilità. Cazzate, vecchia carampana molliccia. C’è un sacco di gente che schiatta in aereo. E noi potremmo essere i prossimi. Solo che mi fido del nerd che ho intravisto in cabina mentre salivo. Un nerd non vuole mai morire. E poi sono fatalista, catto comunista e stanco, nell’ordine. Quindi so che prima o poi mi toccherà. Diciamo che, ad essere precisi, ho già fatto questa stessa rotta almeno una ventina di volte negli ultimi dieci mesi. Ho un grande debito sui cugini francesi, a cui ho pisciato in testa un paio di volte, e con Dio. Se fosse questa mattina, la mattina in cui Dio si vuole portare via tutto, per me è ok. Cazzo. Poi l’aereo comincia a fare una scalinata immaginaria, con piccoli balzelli, la coda che vibra e il cielo che diventa sempre più grigio. Come la faccia della signora. Signora tenga duro. Dopo tutto sta scappando dall’Italia. C’è gente che sarebbe felice per questo. Il nerd al comando gira vorticosamente su un campo coperto di neve, o forse su una salina. O forse su un telo bianco gigante. Non ha le mezze misure il nostro nerd. Prende le curve come se fosse questione di vita o di morte. Che ci sta alla guida di una moto giapponese. Un po’ meno alla guida di un Airbus 319. In fondo, mancano meno di quaranta minuti al presunto atterraggio. In fondo, nella fitta coperta di nuvole, da qualche parte, ci sarà qualcun’altro sospeso per aria che pensa le stesse cose. Sento un rumore rozzo, basso, forte. Poi sento il caldo sul calzino. Mentre lo penso, cazzo, penso e che cazzo, cazzo. Mi ha vomitato sulla gamba sinistra. Tra l’altro la mia preferita. E poi io odio il vomito. E adesso che ci penso, odio anche le vecchie carampane. Ma che cazzo. Adesso sono io che schiaccio il pulsante per chiamare la hostess come se fosse il pulsante "spara" in Metal Gear Solid. Ma che cazzo. Cazzo. Adesso chiedimi se sono felice. Cazzo.

Ecco come si scopre dove sia la tintoria più vicina all’albergo, come chiederlo in spagnolo, come cambiarsi in piedi in un bagno di un aereoporto. Ecco come si scopre che, in fondo, c’è qualcosa di peggiore del caffè del bar di Linate.  Tutte cose di cui sono estremamente grato, ma di cui avrei fatto volentieri a meno.

Ho finito Baricco. Ho finito Hornby. Un gennaio fruttuoso. Due cose diverse. Volevo anche fare una recensione di spessore. Ma niente, la manutenzione del mio guardaroba in trasferta mi ha portato via tutte le energie intellettuali. Eppure, chiedimi se sono felice.

Io me lo stavo chiedendo giusto adesso, mentre fumavo l’ultima sigaretta, con un cielo gelato, una mezza luna, e le girandole del terrazzo davanti alla mia finestra che girano veloci per il vento. Madrid in silenzio per ascoltare la mia risposta.

Si. Cazzo.

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In questo post è stato ripetuto 14 volte il termine "cazzo". In nessuna delle 14 volte si riferiva esplicitamente all’organo riproduttivo maschile. Più ad un intercalare popolare, gericamente associato alla sfera sessuale maschile.

E’ consigliato possedere mammelle grandi. E’ dimostrato che la cosa aiuti e non poco. Sia nell’allattamento sia nella sfera lavorativa, tanto più nella sfera delle relazioni sociali. Di contro è consigliato anche ponderare quanto del possente impianto mammario si possa mostrare al popolo. A partire dai 18 anni, ogni dieci anni sono un bottone in meno da slacciare della camicia. Sopra i 35 può avere senso ricorrere a impalcature mobili di sostegno.

Il vomito, inteso come espulsione a getto del contenuto dello stomaco, non aiuta in una eventuale caduta libera da 10.000 metri. E’ quindi poco utile vomitare a getto contro oggetti e persone. Se l’aereo dovesse mai cadere, si potrebbe pensare di spegnere eventuali incendi con getti di vomito. Ma bisognerebbe arrivare a terra vivi. Quindi diciamo con sicurezza che il vomito non aiuta a sopravvivere. Al massimo rende più difficile la vita dei vicini di posto. Fottuta carampana.

Ex Fidanzate (tapparelle e angostura)

Devo molto della mia vita alla distillazione della melassa di canna da zucchero. Il composto così ottenuto, passata la fase di invecchiamento, viene denominato rhum. Per ottenere un buon rhum occorrono almeno due anni e mezzo. Per apprezzare i danni causati dal rhum bastano a volte meno di cinque minuti. Il primo chiupito brucia la gola, sveglia le membra e rende prendibili alcune decisioni che per un astemio richiedono logica e pensiero. Il secondo chiupito rende piacevole la compagnia di quasi tutti gli esseri umani e spesso anche degli animali (ma solo dal sesto chiupito in poi è possibile intraprendere delle conversazioni con la maggior parte degli animali domestici). Il terzo chiupito è quello del non ritorno. Scende nello stomaco posizionandosi serenamente su tutti i problemi, rilassa l’occhio rendendo la pupilla lucida, ma soprattutto rende la maggior parte delle donne presenti nei dintorni ottime per eventuale produzione di eredi. Il distillato è così pregiato da cancellare, nella maggior parte dei casi, kili di troppo, foruncoli e doppi menti, tette cadenti. Inoltre l’indiscussa proprietà del rhum è quella di ridurre la circonferenza delle natiche femminili di venti, quaranta, talvolta sessanta centimetri. Il quarto rhum amplifica i sentimenti, invadendo l’ambiente di amore o odio in quantità. Il quinto rhum (chiamato anche quello del tassametro), rende necessario reperire un taxi, segnarsi dove si lascia la macchina e ricordarsi di non vomitare a getto sul cruscotto del taxista. Il sesto rhum rende impossibile ogni atto riproduttivo, ma rende possibile la comunicazione con gli animali domestici, i cartelli stradali e alcuni oggetti comuni. Servirà in ogni caso molta pazienza, oltre ai sei rhum, per poter comunicare serenamente con gli ingegneri e i bancari. Dal terzo rhum in poi, ci si porta a casa anche un pesante fiato caldo, con un deciso odore di cane a pelo lungo bagnato da abbondanti piogge. Inoltre è garantita anche la più pesante mattinata che possiate aspettarvi il giorno dopo. Nonostante qualche piccolo effetto collaterale, dovuto più che altro al mancato allenamento, il rhum evita da secoli a milioni di persone di uccidere colleghi, martoriare comuni cittadini o anche di rivoltarsi contro dittature e governi corrotti. Inoltre un buon uso di rhum rende possibile partecipare a risse senza alcun senso, in cui prevalentemente si riesce ad essere picchiati, ma senza sentire alcun dolore. Per questo e per molte altre ragioni, anche la mia vita sentimentale è stata scandita da alcune importanti tappe, eventi emotivi inspiegabilmente legati al prezioso liquore.

Gli Albori

Al liceo ero fidanzato. Più che fidanzato ero disperatamente innamorato. Bevevo birra, al sabato sera, e limonavo per un trenta per cento del mio tempo. Fu un piovoso sabato di marzo, durante una festa di compleanno che scoprì nell’ordine: il rhum da supermercato, la sbornia devastante, il reggicalze e le sue enormi potenzialità e anche l’impossibilità di fare l’amore in bicicletta. Fu il rhum da supermercato ad aiutarmi nel passare sopra il fatto che quasi tutta Milano aveva goduto degli stessi privilegi nello scoprire le gioie dell’amore con la mia fidanzata.

La Maturità (il periodo commerciale)

All’università fondamentalmente bevevamo di tutto. Dalla bicchierata di vino bianco del lunedì mattina alla lista completa di cocktail del Palo Alto. Erano gli anni dell’happy hour. Erano gli anni del Pampero. Erano gli anni in cui ero in grado di dichiarare il mio amore anche a un armadio a due ante. Sopravvivere è stato incredibile, ma viverlo è stato sensazionale. Enorme gratitudine va ancor oggi alla Piaggio per aver costriuto la Vespa in solido, robusto, ferro. La mitica 150 Giallo Taxi ha resistito anche alle peggiori debacle, tra cui un panettone preso in pieno a dieci all’ora, un paio di scivoloni dovuti a curve immaginarie e non ultimo l’abbandono appoggiata a una fontanella comunale. (L’idea era di bere un po’ d’acqua per poi riprendersi e continuare il tragitto verso casa, che in Vespa avrebbe richiesto normalmente dieci minuti ma che quella notte stava durando da ore).  Anni di donne stabili, creature pazienti. A dire la verità il Pampero mi aiutò molto nell’accettare alcuni compromessi dolorosi come i mortali sabati sera in pizzeria, i week end al lago e i pranzi in famiglia.

l’Angostura

L’angostura è un amaro aromatico ottenuto dalla distillazione di non so quale pianta brasiliana. Tre gocce d’angostura, unite al rhum e alla coca, danno il miglior Cuba Libre anche dal peggor rhum. Fortunatamente la scoperta dell’angostura venne con la scoperta dei pessimi rhum di moda. il Bacard,  è la fine del rhum, il barista con le ciglia ritoccate che pesta zucchero di canna, lime e menta come una macchina automatica, la fine del romanticismo nel bere. L’angostura mi ha salvato. Anni duri, i primi di lavoro, i ritmi stressanti, la prima, drammatica, cravatta. Le serate più brevi e i conti che non tornano. Anni di angostura e storie d’amore aggrappate allo stare uniti per sopravvivere.

Perfezione in un tambler

La geografia del bere, grazie anche a numerosi amici non proprio vicini, ha reso possibile negli anni una precisa geolocalizzazione dei migliori rhum. Matuzalem, Pampero Anejo, Flor De Cana, Barcelò, erano tracciati in una mappa mentale che mi consentiva di trovare anche la colonnina taxi più vicina e il numero della ex più recente e meno arrabbiata nella rubrica. Di contro, arrivare alla conoscenza della perfezione porta alla convinzione di poter provare nuove strade. Pessimi tentativi di vodka e gin, dolorosissima esperienza di tequila. Scoprire che è meglio avere vicino una persona che si ama piuttosto che una persona che ti ami è stata una conseguenza del tempo. Trovarne una che ami e che ti ama una piccola fortuna come il ritornare al buon vecchio rhum.

Oggi (avere una cantina)

tra i pregi di avere un proprio appartamento c’è di sicuro quello di poter possedere una bottiglia di rhum decisamente più vicina alle proprie necessità di quanto possa esserlo quella del bar sotto casa. Il mio Pampero Anniversario dorme sonni tranquilli, perchè i ritmi cambiano, vicino a un piccolo bottiglino di Barcelo.

In giro per il mondo trovo sempre gente disposta a parlare e sempre del rhum da bere. Come se le due cose fossero necessarie allo stesso modo. Di buono c’è che mi capita molto meno di frequente di fermarmi a parlare con i cartelli stradali. Ma non si può mai sapere.