La Ballata degli Sconfitti

La mia fervida immaginazione mi ha salvato la vita in parecchie occasioni. Guarda l’eterna lotta che ho dovuto condurre con i miei genitori per avere più Lego. Non bastavano mai. Il mio progetto era di costruire una città, tutta incentrata su una misteriosa base spaziale dalla quale facevo partire delle navicelle che ispezionavano i pianeti vicini. La rotta più pericolosa era quella che abbandonava il pavimento con un rapido decollo e si portava sul letto di mia sorella, atterrando pericolosamente tra le pieghe del copriletto. In alcune occasioni, ci sono stati dei guasti meccanici o degli agguati condotti da nemici infami e nascosti nella fitta vegetazione. Per questo l’astronave, che inizialmente era snella e più orientata ad un approccio aerodinamico, è diventata un carrozzone quadrato e tozzo, in grado di ospitare i meccanici, i soldati, l’equipaggio, e un cow boy con la pistola disegnata sul giubbotto, che non centrava nulla, ma faceva numero.

Tutti, nella città, avevano un lavoro. Quasi tutti lavoravano per la base spaziale. Ci si muoveva con un autobus che era più grosso della nave spaziale e che faceva il giro di tutte le case. Andava alla base la mattina, tornava quando era ora di cena. Cena vera, ovvero quando venivo forzatamente staccato dalla mia città per andare a mangiare.

Mantenere questa città era un lavoro infame e lunghissimo, da condurre con estrema attenzione. E richiedeva sempre più mattoncini, sempre più pezzi, sempre più materiale. Le missioni spaziali iniziavano a richiedere la costruzione di stazioni di atterraggio, perchè si faceva inverno ed era un casino atterrare sul copriletto di lana, che la punta dell’astronave si incastrava nei pelucchi. Nuovi modelli, con ruote più grosse, furono studiati dopo un drammatico incidente, costato la vita al cow boy (subito dopo rinato come autista di un camion) e ad alcuni soldati. La richiesta di materiale, proveniente da tutti i dipartimenti, era continua. Ormai si viveva alla giornata. Anche un piccolo incidente tra il bus e qualche camion, provocava l’immediato riciclo di pezzi. Mancavano i muri, e si faceva incetta di finestre dei Playmobil, molto utili come vasche di contenimento dei materiali di scarto.

Niente faceva presagire un buon finale. Ma Natale si stava avvicinando. Lo riconoscevo dal freddo, dalle luminarie e dalle petulanti richieste di mia sorella, in piena angoscia paninara e tremendamente desiderosa di un piumino nuovo. Forse anche di un fidanzato nuovo. Ma quello mi interessava meno.

Arrivati alle soglie del Natale, la città viveva appesa a un filo. Alcune missioni spaziali, come l’atterraggio sulla cassettiera in fondo alla stanza, erano state abbandonate, e i saccheggi nei quartieri residenziali avevano spinto molti a dormire dentro la base spaziale, che poi era rimasto l’unico edificio ad avere ancora tutti i muri e tutte le porte. Il capo della Base, l’unico Lego con la tuta blu, e quindi il capo, aveva deciso in ogni caso di costruire una super nave da combattimento. I dissidenti, tra cui il cow boy e un paio di sgherri di Robin Hood, avevano deciso di ritirarsi sotto il letto, in fondo, nella zona più selvaggia e buia. Stavano confabulando qualcosa, ma non sapevano che il terribile, ed obeso, gatto di casa, sapeva dove trovarli. Proprio alla vigilia, uno degli sgherri di Robin Hood fu ritrovato in cucina, orrendamente massacrato di morsi e decapitato. Questo spinse i dissidenti a tornare nella valigia, per lo meno di notte, o in mia assenza, insieme a tutti gli altri Lego.

La mattina di Natale eravamo in tanti ad aspettarci qualcosa di grandioso. Io sono sempre stato in grado di riconoscere una scatola di Lego anche se incartata orrendamente con le carte regalo che mia nonna si faceva arrivare direttamente da un laboratorio segreto dove la Orfei confabulava con Dalì per partorire carte scure, opache, con disegni psico trance.

L’arrivo dei mattoncini era dato per scontato da quasi tutti gli abitanti di camera mia, tranne che da mia sorella. Che penso, a quel punto, fosse più orientata su un nuovo fidanzato.

Scartate le figurine Panini, avevo già in mente un baratto con un mio compagno di classe. A me del calcio non me me fregava nulla. A lui non fregava nulla di costruire qualcosa. Oggi è ancora così, ma siamo trentenni e giochiamo con giochi diversi.

Poi ho aperto un dolcevita grigio di lana. Il regalo della nonna, messo in una scatola rigida, della forma e dello spessore di una dei Lego. Un gesto infame, un colpo basso. La vendetta sarebbe stata eseguita con calcolo e freddezza, rubando tutte le caramelle Miele Ambrosoli che teneva nascoste dietro al televisore.

La questione si faceva drammatica. Stavano finendo i pacchetti sotto al Presepe. E io non avevo in mano ancora un solo pezzo di Lego, nemmeno un mattoncino da due. Forse mi ero spiegato male. Forse non mi volevano più bene.

L’ultimo pacchetto per mia sorella, poi un pacchetto per mio padre, e poi l’ultimo per me. Un libro. Lo sentivo. Era un libro. Aperto, tolta la carta. Un libro di preghiere. Mi avevano regalato un libro di preghiere.

Sentivo fortissimo l’impulso di piangere. Piangere. Piangere a dismisura. Un libro di preghiere.

 

Nemmeno un singolo pezzo di Lego.

 

Ho imparato molte cose da quel Natale anni 80. Ho imparato ad usare meglio l’immaginazione, per costruire, abbattere, giocare. Ho imparato a dire le preghiere, leggendo svogliatamente un libro, che poi è diventato anche la nuova rampa di lancio per le missioni spaziali. Ho imparato a terrorizzare il gatto, proteggendo la mia popolazione. E poi ho imparato che quando sai cosa desideri, è sempre meglio che tu te lo prenda.

 

Sta arrivando Natale, da qualche anno ho smesso di giocare con i Lego. Ma non ho smesso di giocare. E questo Natale so cosa vorrei. So di non poterlo dire, per convenienza. So di poterlo solo sognare. Ma so, per certo, che si tratterebbe del regalo più bello di tutta la mia vita. E so anche dove andare a riprenderlo, questo regalo più bello di tutta la mia vita. Perchè lo ho lasciato lì, ad aspettarmi.

Il regalo più bello di tutta la mia vita.

Sicuramente dopo una scatola di Lego.

Ragazze Tatuate che Ballano Ondeggiando a una festa greco romana

Mi alzo che tecnicamente è piena notte. Affondo i piedi nel pavimento gelato. Eseguo rapidi gesti, consumati dall’abitudine. Per non dimenticare il necessaire, devo lavarmi i denti la sera prima, prendere lo spazzolino, metterlo nel necessaire, mettere il necessaire nel trolley, andare a letto.

La mattina dopo, ormai da anni, spengo la sveglia, respiro profondamente, mi alzo, affondo i piedi sul pavimento, che da settembre a maggio è gelato, procedo verso il bagno. Tecnicamente eseguo più azioni nello stesso momento. Il rischio di errore è ridotto al minimo.

La procedura è: mi osservo allo specchio, pisciando, mentre metto la schiuma da barba. Poi cerco il rasoio. Che è nel necessaire. Che vado a prendere nel trolley. Questo, come tutte le mie adorabili abitudini, mi da una sicurezza nel mondo e nella vita.

Insomma, mi alzo, procedo con rasatura, lavaggio sommario, iniziale vestizione. La meta è mediterranea, calda, finalmente lontana dalle fredde destinazioni teutoniche. Mentre mi allaccio i bottoni vado in camera. Osservo la Signora dormire.  A dire il vero, il più delle volte, contemplo le splendide nudità che il disordine del sonno mi offre. Poi vado dal Piccolo. Qui siamo al pantalone, calzino e scarpa. Lo osservo dormire. Russa, il Piccolo. Osservare il proprio figlio dormire da una straordinaria sensazione. Che tutto si sia compiuto. Almeno il giorno prima.

Poi guardo il grosso orologio del corridoio. Mi compiaccio con me stesso di essere dieci minuti in anticipo. Dieci minuti, sono un largo anticipo. Ci sta un the, delle fette biscottate, una scrollatina all’iPad. Sei minuti dopo, distrattamente guardo l’orologio dell’iPad. E connetto. L’orologio del corridoio è dieci minuti indietro. Da almeno due mesi. Tecnicamente oscillo. Credo sia una reazione incontrollabile. Il mio destino è sempre lo stesso. Lanciarmi disperatamente verso l’aeroporto.

Tre ore dopo sono a venti gradi di differenza, davanti a un placido porto, con orde di tedeschi che pascolano sul bordo di una piscina. Sono divertenti, nei loro colori. Le loro pelli sono quelle di chi non ha il mare nel DNA. O si scottano, o diventano giallognoli.

Settembre sta svanendo. Probabilmente anche la mia patente. Se ci fosse una raccolta punti per gli autovelox da casa all’aeroporto, avrei già vinto un set di posate d’argento. Il dilemma è sempre lo stesso: perdo l’aereo, smetto di colpo di fare questa vita, mi siedo sul bordo di un guard rail fuori dal terminal, chiamo la Signora, le sussurro che qualcosa è cambiato e poi mi incammino a piedi verso un bosco. Oppure, corro, schiacciando l’acceleratore, lampeggiando a chiunque assomigli a una macchina, entrando nel parcheggio del Terminal e parcheggiando nel primo buco. Corro verso il check in, la cravatta che ondeggia come la lingua di un cane.

Quando il cane sarà stanco, il padrone dovrà fare da solo, dice un detto canadese.

Settembre sta svanendo anche qui, sul mare. Il sole tramonta prima, lasciando un fresco che fa venire la pelle d’oca e fa tremare i tedeschi ustionati.

Da quando faccio la dieta ho scoperto un sottobosco di umanità decisamente interessante. Ho scoperto, prima di tutto, che la mia dieta è semplicemente un lento processo di riordino delle mie abitudini alimentari. Ho scoperto quanto sia importante mangiare bene. Per il resto, me ne fotto, attendendo le prossime analisi del sangue. Ma, il popolo delle diete è estremamente interessante. E, come i Visitors, è ovunque. Travestito da gente normale. Mangia barrette, insalate scondite, beve ettolitri di acqua con magnesio, toglie con il coltello il condimento dal pollo. Il popolo delle diete conta i kili persi alla settimana. Il popolo delle diete si avvicina a un buffet con il calcolo calorico delle prime tre portate già stampato nel cervello. Gli occhi passano velocemente in rassegna il desiderio. Cioccolato, muffin al cioccolato, brioches alla Nutella, coriandoli di cioccolato su una fottuta torta di mele. Figli di troia, quelli del Cioccolato. Si mettono dappertutto. Ma noi, delle Diete, non ci muoviamo dai nostri passi. E se lo facciamo, sentiamo dolore e rammarico. E anche qualche brufolo sul collo. Ma ormai il corpo è un animale da dominare, da abbattere a furia di barrette e verdure bollite.

 

Ecco, io credo che a parte qualche necessità clinica, la maggior parte di questo popolo sia succube di un infernale esaurimento nervoso.

Adesso li so riconoscere. Trovo gli occhi vivaci, le espressioni demenziali davanti a un Cafè Gourmet, trovo le loro sagaci affermazioni davanti a una Cesar Salad.

Io non sono dei vostri. Io non sono così. Ma quei fottuti bastardi del Cioccolato, quelli sono anche miei nemici.

 

 

La Vittoria ascoltando Vittorio

In effetti l’argomento mi tocca parecchio. A me come al novanta percento dei manager, professionisti, avvocati, designer, eccetera che passano per lavoro più della metà delle loro vite fuori casa. In una prima fase, quella della pubertà del viaggiatore, la principale preoccupazione è quella di reperire buoni ristoranti, locali fighi, e alberghi che abbiano la connessione internet. Nell’adolescenza del viaggiatore, si passa alla selezione degli alberghi in base alla palestra, al cuscino, e alla vicinanza con una fermata della metro. E’ anche il momento in cui il bagaglio a mano si riduce drasticamente passando alla modalità “stretto indispensabile”. L’età adulta, come tutte le età adulte, è quella del disincanto. Ormai gli alberghi e i ristoranti non sono più argomenti critici. Basta un posto per dormire e qualcosa da mangiare. Le grandi capitali europee, le piccole città dimenticate in anonime vallate, le periferie deprimenti, non fanno molta differenza. È in questo momento, precisamente mentre mangiate una cena che a casa definireste squallida, guardando un telegiornale straniero, nella tremenda solitudine di un tavolo di formica rosa, che prendete il telefono, nervosamente, controllando le foto del mare. È solo il primo passo. Pochi giorni dopo vi sveglierete incastrati nel sedile 22B, giusto sul bordo di un ala di un anonimo Boeing, nel mezzo di un cielo ancora più anonimo. Massaggiando lentamente il collo, vi accorgerete della impellente necessità di recuperare una vita privata. Una qualsiasi, anche non la vostra. Ma almeno una. I messaggi sul cellulare che chiedono se avete recuperato dal fastidioso strappo muscolare sono tutti dei colleghi. Vi siete dimenticati di dirlo a casa. E comunque è passato poco prima di tornare. L’ultimo messaggio di un amico, non collega, risale a due mesi prima. Chiedeva una birra. Ma eravate in Germania, seduti al bancone del bar dell’albergo, ad ascoltare il vostro collega finlandese che raccontava dell’avventuroso recupero di un martello, caduto chissà come nell’intercapedine tra il garage e il muro del vicino. Si chiama, la chiamano, Work Life Balance. È l’ossessione di quasi tutti i Frequent Flyers. Fanno corsi, seminari e conferenze. Guru, ricercatori, life coach, professori. Lo sguardo perso tra la foto di vostra figlia mentre cammina la prima volta, (eravate in fiera in Olanda, pioveva e non trovavate un taxi, ma fortunatamente vi hanno mandato la foto), e la scintillante Gold Card di una catena di alberghi nella quale vi regalano l’upgrade della stanza. Avete sempre più asciugamani degli altri. E c’è anche il phon. Prima passavate le ore a casa a controllare nervosamente il BlackBerry. Per fare carriera. Adesso passate le ore in riunione controllando nervosamente le foto di vostra moglie su Facebook. Tornate a casa come soldati, osservando stupiti la fine dei lavori della metropolitana. Soldati di una guerra per la quale siete partiti volontari. Una ricerca conferma che più di due terzi dei passeggeri di un aereo ha decisamente paura. Di morire. L’Harvard Business Review, che compro per darmi un tono e per leggere di come i professori suppongano di cambiare il mondo, ha stabilito che il tuo problema, quello di avere un lavoro e una famiglia, sia un problema centrale per la maggior parte di noi.

Ci sono delle sere nelle quali osservo pazientemente la straordinaria forza della Signora nell’accettare il mio nomadismo forzato. Ci sono delle sere in cui arrivo talmente tardi che anche in aeroporto sono rimasti solo i barboni. Sono le sere in cui trovo il Piccolo già addormentato, abbracciato alla stella luminosa. Lo guardo respirare. E penso a quanto sia bello crescere abbracciati a una stella luminosa. Sono le sere in cui mi faccio più domande. Non mi rispondo quasi mai. Non ho nemmeno più una scrivania. Il barista vicino all’ufficio non mi conosce. L’edicolante non mi saluta. Ma il portiere dell’albergo mi chiede come sto, come sta mio figlio, che aria tira in Italia.

In ogni caso, se mai ti dovessi trovare senza amici, cornuto, depresso e seduto su un aereo per l’Inghilterra che sta atterrando in un aeroporto secondario per una fiera secondaria, smetti di farti domande. Sei semplicemente la prova evidente che il fallimento può accompagnarsi a pessime camicie di sartoria, gemelli di latta e un finto Rolex che annaspa per tenere i minuti. Ma, e questo non lo troverai scritto su nessuna rivista, recuperare una vita è una delle cose più semplici del mondo. Un giorno, scriverò un libro. E lo venderanno in aeroporto. Dieci regole. Perché tutti i libri del genere sono schematizzati in modo tale che una mente plagiata da Excel e Power Point possa ancora comprenderli. Dieci fottute regole. Vorrei fosse venduto a 19 euro e 90. Mi sembra corretto.

Spiegare a uomini che credono di dominare il mondo come sia possibile dominare la propria vita.

Una delle regole, motivo per il quale il mio libro sarà diverso dagli altri, sarà quella di ascoltare buone storie di mare. Sedersi, fermarsi, ed ascoltare ottime storie di mare.

Le storie di mare sono le uniche che parlano di tatto, gusto, udito, vista e olfatto. Il mare bagna, mentre lo respiri. Lo guardi, mentre senti il freddo di una corrente. Lo senti ruggire, mentre osservi l’indiscussa piccolezza di un uomo nelle onde. Le storie di mare sono fatte di notti di pesca eroiche, le ore diventano minuti, la lenza tira muovendo la barca, il silenzio si fa assordante. Un pesce diventa un’incredibile storia di lotta e conoscenza. I muri delle chiese di mare sono pieni di quadri di onde. Come se fossero santi. Le facce della gente di mare sono piene di onde, di sale, di sole. Sono la poesia che manca nelle loro mani, spezzate da troppe tirate di un pesce ribelle. Le loro voci sono la dolce nenia nella sera calda. L’umido lascia spazio al fresco, le vespe smettono di impazzire per l’odore di pesce, il porto immobile aspetta la notte, lo struscio senza meta riempie i marciapiedi. I bambini corrono, la marea fa dondolare le barche ormeggiate. È l’ora in cui Vittorio si accende, insieme alle stelle. Parla di pesci, di mareggiate, di silenzio, di paura e di lotta. Parla di mare. È il momento in cui , semplicemente ascoltando, ci si rende conto di quanto si è piccoli in tutto questo mare. Sono storie che si possono ascoltare senza respirare. Sono storie di sfide infinite, di rispetto e di amore. L’amore di un uomo per il suo mare. L’amore di una vita per l’infinito. Voglio bene a Vittorio, e alle sue storie. Sono la migliore delle cure. La decima regola, la più importante. Quella segreta, a diciannove euro e novanta.

Importante Postfazione: il mondo è pieno di quarantenni bruciati da anni di voli, hotel e riunioni che si aprono un enoteca in centro o un agriturismo in Toscana. Se ti fa sentire meglio sognare di trovarti in un agriturismo, mentre pulisci il cortile dai mozziconi con il sottofondo dei grilli, fallo pure. La maggior parte non ci riesce. Qualcuno lo fa. Per ogni soldato caduto, c’è un infinita lista di volontari pronti a partire. Il segreto per vincere non è certo abbandonare il campo. In fondo si tratta solo di amare se stessi, pazientemente. In ogni caso, non comprare l’Harvard Business Review, perchè alla fine l’unico suggerimento è quello di assumere persone che aiutino nella gestione della tua vita. E a me non sembra ragionevole assumere persone per bere birre con i tuoi amici o per fare l’amore con tua moglie. Per ogni volta che non lo fai tu, c’è un infinita lista di volontari.

Fallo tu, fidati.

Meduse, rimedi contro la Diet Coke

Avendo passato più di due ore seduto ad ascoltare la quasi totale cancellazione delle mie abitudini alimentari, in favore di un regime militare nel quale nutrirsi è totalmente secondario, ho deciso di pensare seriamente a come affrontare questa cosa.
Per accettare un cambiamento così radicale delle proprie abitudini di vita, un maschio bianco, sopra la trentina, lievemente ossessivo compulsivo, necessita di motivazioni forti e validissime.
Questa, perlomeno, era la mia ultima difesa. In fondo, sono quasi trent’anni che mangio quello che mangio, e sono quello che mangio. E bevo quello che bevo. Insomma, sono quasi trent’anni che faccio molta più attenzione a quello che fumo che a quello che mangio. Quando inizio la mia arringa di difesa, convinto di spuntarla e uscire velocemente dalla stanza per un salutare break a base di alcool, chiedo appunto delle valide motivazioni.
La lista di malattie invalidanti che mi viene snocciolata davanti agli occhi è degna di un’enciclopedia medica. E già alla terza patologia, qualcosa che mi eroderebbe lentamente il fegato, lasciandomi alitosi, dolori, emorragie e morte, sono convinto che la dieta sia il minore dei mali.
Riguardo lentamente il foglio su cui campeggia la lista degli alimenti che non dovrò toccare. Poi la lista, brevissima, degli alimenti con i quali dovrò improvvisare una dieta in grado di mantenermi in vita. Non credo sia possibile che un uomo possa sopravvivere solo di questo. La vedo anche in chiave religiosa. In fondo, nelle principali religioni monoteiste il creato, fauna e flora, è stato messo al servizio dell’uomo. E posso capire che i cavalli siano stati messi a nostra disposizione per spostamenti e gare di dressing, come i tori per eccitanti foto in Provenza o per tirare carri agricoli. Ma il buon vecchio maiale, quello faccio fatica a giustificarlo se non in una visione orientata al banco dei freschi di un supermercato.
La dieta che seguirò per i prossimi trenta giorni assomiglia a un piano new age, misto a un percorso di disintossicazione, con incroci vegani.
Immaginate di rimuovere tutti gli alimenti piacevoli dal frigo della vostra mente, tutti tutti. Mentre lo fate sgranocchiate un gustoso finocchio crudo. La vostra cena.
Trovate delle valide motivazioni per farlo. Poi, saziatevi in abbondanza con carote e zucchine.

Se non ne andasse della mia sopravvivenza, non lo farei.
Di colpo avverto un fortissimo bisogno di bevande gassate. Qualsiasi bevanda gasata. Io non ho mai bevuto nulla di gasato. Io odio le cose gasate.
Eppure sento una fortissima necessità di chiedere tolleranza, come è stato per il Parmigiano, che posso consumare in abbondanza (25gr), una volta alla settimana.
Tolleranza per la Diet Coke. Che da qualche istante, sento come la bevanda della mia vita.
La Diet Coke, come tutte le bevande gasate, frizzanti, leggermente frizzanti, briose, naturalmente effervescenti, mi viene vietata in assoluto. Se fosse per me nei prossimi trenta giorni un bar camperebbe di acqua minerale e finocchio a fettine.

Me ne faccio una ragione, prendo il mio piano dietetico e porto la mia salma a godere dell’ultimo rhum di questo mese. Il Ron Millionario è tra i più buoni, zuccherosi, alcoolici, rhum agricoli del pianeta. Va bevuto così, con la consapevolezza che, insieme al Caroni, prima o poi finirà. Come un quadro di Van Gogh, che dopo ogni occhiata si consuma.
Per sicurezza, mi faccio fare un’aggiunta.
Il funerale della mia grande dieta a piramide, dove un lato è occupato da junk food, un altro da alcool e il terzo da abbondante caffeina. Probabilmente anche il funerale della mia pancetta.

Sono a bagno, in due metri di acqua, più per non sentire il vociare fastidioso dei miei concittadini in trasferta balneare che per fare un vero bagno. È il day after al mio colloquio con la nutrizionista hitleriana che mi ha fatto la dieta. A voler essere precisi, che mi ha suggerito un piano alimentare.
Sono a bagno nell’acqua fresca, benedetto sia il mare. Ciondolo da uno scoglio a un altro, mentre mi godo l’avvicinamento di una medusa. Uno splendido Polmone di Mare, bianco, duro, grosso. Si fa trasportare dalla corrente, verso riva. Lo sfioro, accarezzando la parte superiore. Ha la consistenza di qualcosa di duro, ed è freddo. Ma si, ovvio. È una lattina di Diet Coke. Fresca, dura, necessaria. Prego perché almeno le allucinazioni alimentari mi abbandonino.
La medusa, tutt’altro che un’allucinazione, mi sfiora delicatamente una spalla, la tetta destra e l’avambraccio, prima di appoggiarsi sullo scoglio.

Erano anni che non mi succedeva. Fa ancora male. Maledetta Diet Coke.

Adesso, scrivo dopo una cena a base di carote, cavoli, acqua e tantissima invidia per i miei vicini di tavolo che si sono bruciati mezzo buffet, mangiandomelo davanti.
Sopravvivo. Anche senza zuccheri, anche senza piaceri, anche senza Diet Coke.
Sembrava impossibile, ma ce la sto facendo.

Bastava una semplicissima minaccia di morte per convincermi del delizioso sapore delle verdure scondite.

Morirò magro e con un intestino estremamente regolare.

E con un’insensata voglia di Diet Coke

Kitsch, Pussy, Kustom, Ascelle rigorosamente lacrimanti (Riassunti da una Milano Deserta)

Ore 11.20

Di ritorno dal supermercato, unico non-luogo con più di due esseri umani, affondiamo lentamente nell’asfalto liquefatto mentre tentiamo di scaricare il passeggino, incastrato dentro il sedile della macchina. Il Piccolo ci osserva, in preda a una febbre da cavallo, fuori ronzano le vespe. Quest’anno è pieno di vespe. Non so che relazione scientifica intercorra tra il caldo, le carcasse di gatti morti sotto le siepi e le vespe, ma sembra di stare al confine con una zona disabitata di una periferia remota. Invece siamo a Milano. In una zona disabitata, di una periferia remota.

Ore 13.20

Oggi guardo l’orologio solo quando sono le “e venti”.  Il Piccolo bolle. Ha gli occhi pesanti, respira faticosamente. Se fosse per me, saremmo già andati al Pronto Soccorso. Lo dico alla Signora.

Se fosse per me, direi di andare al Pronto Soccorso.

e già che ci sono, cerco consensi e spiegazioni, aggiungendo

Quest’anno è pieno di vespe.

Ore 15.30

Temperatura rilevata in macchina: 44. Temperatura rilevata sulla fronte del piccolo 39.5. Procediamo, soli come cani abbandonati in una zona disabitata di una periferia remota, verso il Pronto Soccorso. Siamo soli anche dentro il Pronto Soccorso, tolta una gigantesca statua di Kung fu Panda e una gigantesca signora che sta dietro a un vetro, totalmente immersa dentro Canale 5. Non c’è nulla di epico nell’andare in un Pronto Soccorso. Se leggi avidamente, per trovare macabri racconti su tessuti molli, oppure su inefficienze del Sistema Sanitario Nazionale, sbagli. Tutto fila liscio. Siamo noi e un pakistano. Il bimbo pakistano perde sangue da qualche parte, impegnando un infermiera pettinata come una pornodiva anni ottanta e una pediatra con le occhiaie fino alla fine del naso. Il Piccolo è praticamente uno scaldino inanimato.

Ore 16.50

Alla Triennale ci arriviamo in quattro minuti netti. Passando dalla fontana del Castello. Non mi vergogno a dire che alla Triennale non ci ero mai andato. C’è una mostra sul Kitsch. Otto euro. A testa. Il Piccolo è in preda alla febbre, il condizionamento della Triennale è in modalità Steppa Siberiana. Nella mia logica di puericultore, la cosa dovrebbe fare in modo che lui senta meno la febbre. Non so se sia corretto. Ma tanto a casa sarebbe stato lo stesso.

Ore 16.54

Finito di girare la mostra, cerco lo sguardo complice della Signora per due commenti a caldo:

Quest’anno è pieno di vespe.

Questa mostra è un furto legalizzato.

Non andavamo insieme in un museo dai tempi di New York. Il Guggenheim. Dal quale siamo usciti con la netta percezione di una disastrosa ignoranza artistica. Adesso che ci penso anche dal Guggenheim di Bilbao siamo usciti pervasi dalla coscienza della nostra ignoranza. E anche dl JP Getty di Los Angeles. Insomma, migliaia di kilometri per sentire la dolorosa conferma delle nostre lacune. Dalla Triennale esco, invece, con la fortissima sensazione di una sonora inculata.

Ore 17.20

Sorseggio Campari con scorza d’arancia davanti a una scultura nel retro della Triennale. Due grandi pensieri mi assillano. Il primo, pragmatismo di un padre, è sulla infinita scalinata da fare per uscire. Vivere la città con un passeggino ti fa capire quanto ci sia di inumano nell’architettura post fascista. Il secondo riguarda il kitsch. Kitsch non è un termine offensivo. Anche se, guardando tutti quei gattini cinesi che muovono la zampa su e giù, oppure quelle Smart o Mini stipate di Hello Kitty luccicanti, un senso di precarietà del buongusto lascia spazio a un più sano senso di nausea. Ecco, forse ho pagato otto euro per capire la definizione esatta di kitsch: il kitsch non è il cattivo gusto, è semplicemente l’oscillazione barcollante del buongusto, e del buonsenso. Immagina un pendolo, a sinistra il buongusto, a destra il cattivo gusto. E il pendolo che, epiletticamente, oscilla solo verso destra, sempre più a destra, quasi bloccato a destra.

Ore 20.20

Guardo l’orologio alle 20.17 e poi aspetto per poter dire di averlo guardato alle 20.20. Il Piccolo sfebbra. Sessantaquattro euro tra Campari, mostra e Farmacia. Un giorno di ordinaria follia. Mi abbandono sul divano. Penso alle Pussy Riot. Mi piace il nome. Non ho seguito la vicenda. Non mi interessa la cosa, non provo ribrezzo per Sting che canta davanti ai magnati russi. Quando penso a Sting, mi viene in mente la storia sul sesso tantrico. E basta. Forse la storia del sesso tantrico di Sting è un po’ Kitsch. Sicuramente, scrivendo qui  “Pussy” o “pussy riot” attirerò casualmente una trentina di lettori, tra cui i Servizi Russi. I termini di ricerca che portano su questo sito sono solo roba sessuale. La Passerina Ubriaca lo hanno cercato in sette. Sette umani che hanno digitato. Passerina Ubriaca.

 

Domenica Mattina, ore 8.46

Ritiro in edicola il numero di Kustom World di agosto e settembre. Copertina da urlo, foto fighe all’interno. Ma io non cerco questo. In prima pagina, cioè giri la copertina e “tac”, c’è la mia lettera. L’inizio della mia collaborazione con Kustom World.

Ore 8.48

Il mio ego è talmente gonfio che fatico a camminare, ma la ricerca di un bar aperto mi impone di muovermi. Il Piccolo è fresco, seduto nel passeggino. Riflette. Sarebbe bello sapere su cosa. Probabilmente sul fatto che suo padre stia gongolando con una rivista in mano da cinque minuti sotto il sole.

Ore 9.03

I cinesi sono una garanzia. Comprano i bar, generalmente li imbruttiscono, ma li tengono sempre aperti. Sempre significa anche una domenica mattina di agosto, quando a Milano ci sono solo bar di cinesi aperti.

Bevuto il caffè mi siedo a fumare. Consegno la rivista al Piccolo, che la prende tra le mani e indica le macchine. Tempo cinque minuti e la rivista si presenterà, in diversi pezzi di diverse forme, per terra, come se fosse stata infilata in un pacco bomba. (Anche pacco bomba potrebbe portare qui numerosi lettori, compresi i Servizi Russi). Le mani del Piccolo non misurano più di cinque centimetri, ma hanno una potenza incredibile.

Un ragno mi punge la caviglia. Non capisco con quale cazzo di logica pensi di potermi uccidere e mangiare. O magari mi ha punto per stizza.

Riflessioni pesantissime sul Kustom e sul Kitsch si appoggiano sulla mia mente. Tolgo la rivista dalle mani del Piccolo. Vorrei tenerla. E’ uno dei miei inizi. Qualche settimana fa, su un terrazzino afoso davanti al mare, davanti a un caffè ho detto a mio padre di questa cosa. Dello scrivere di Kustom Kulture. Mio padre è un uomo saggio. Ha avuto la pazienza di lasciarmi andare. Sempre. Però, uomo saggio, non dimentica l’importanza del giudizio di un padre. Ma questa volta non ha nulla da dire. Mi guarda, come se gli avessi detto che ho deciso di partecipare alle Gare Europee di Origami su carta da parati. Poi prende il caffè, lo finisce, e cambia discorso.

Ore 14.20

Apro il computer per auto osannarmi su tutti i social network per la mia collaborazione con Kustom World. Celebrare me stesso, come compiangermi e rotolarmi nelle ceneri di una delusione, sono cose che adoro fare. Al momento giusto, ma sono piacevolissime soddisfazioni.

Ore 14.25

Ragiono sul fatto che il link al mio blog, comparso sulla rivista, potrebbe portare qui milioni di visitatori. Lettori, motociclisti, avventurieri, viaggiatori, tatuatori, kustomizzatori, svalvolati e gente che cerca “passerina su moto custom” in internet. Devo preparare questo posto per questa orda di contatti. Mi prende il panico. Chiedo urgentemente un caffè.

 

Post Scriptum Vari:

1) Per Kustom World scriverò di Kustom Kulture. Quindi di cose cool, al confine con il kitsch. Solitamente oggetti o persone decisamente borderline, che fanno cose da borderline, in contesti da borderline. Sono felice di farlo. Forse perchè come tutti i borderline, sono attratto dai miei simili.

2) Io adoro la Russia. Non ci sono mai stato, perchè fa freddo. Banalizzare notizie di attualità, senza mai prendere una posizione, è una delle cose che mi piace fare quando non ho niente da fare. Pertanto ritengo che tutta l’attenzione dei Servizi Russi su questo blog sia inopportuna. In ogni caso sono innocuo.

3) in verità, di tutta la questione delle Pussy Riot (deplorevole esempio di come un gesto kitsch possa diventare pietra di scandalo in un paese dove le minime libertà di espressione sono compromesse) mi ha molto colpito Madonna. Che si è fatta una surfata sull’onda delle Pussy Riot pur di rialzare una carriera morta. E’, da tempo, il momento di Lady Gaga. Anche se, per me, Freddy Mercury, rimane il migliore.

4) quando mi riferivo, al punto 3), a un paese dove le minime libertà di espressione sono compromesse, non mi riferivo all’Italia. Pertanto, l’eccessiva attenzione dei Servizi Italiani è ingiustificata. Sono innocuo.

5) Quanto c’è di Kitsch nel Kustom è un argomento nobile. In fondo, passeggiando nei parcheggi dei raduni, di Madonnine, statuette, gattini e Hello Kitty se ne vedono.

6) Mi è venuto in mente Roberto Parodi. Ma non parlo di Roberto Parodi, perchè è già abbastanza che Roberto Parodi parli di Roberto Parodi. Gli voglio bene.

7) Starò qualche giorno in questo deserto urbano. Poi il progetto è di prendere la moto, portarla a velocità di crociera minima e dirigermi a passo fermo verso un noto rifugio ligure di star, milf e vacche ricche milanesi. Il posto perfetto per ricominciare a scrivere poesie.

 

See ya.

 

Farfalle o Passerina

Mentre cerco di portare il mio livello di alcool a una soglia accettabile che mi permetta di addormentarmi pacificamente senza sentire ne il treno ne i rimorsi medici sull’abuso di alcool, mi chiedevo che tipo di scala sociale ci sia tra le diverse specie di farfalline notturne.  Come si può intuire già dal mio chiamarle “farfalline” notturne, la mia conoscenza delle varie specie di insetti che popolano i dintorni delle luci di notte al mare è minima. Mi limito a saper distinguere alcune specie in base all’oggetto che devo usare per ucciderle o scacciarle. Che poi, solitamente, è la ciabatta. Ma mi diletto, con discreti risultati, anche con lo straccio da cucina e, udite udite, con il pacchetto di tabacco.

Sono di tanti tipi. Piccolissime, medie, grandicelle, con le ali grandi, lunghe, tozze, marroncine, nere. Il grosso faretto che illumina il balcone è una specie di richiamo sociale, tipo la zona a luci rosse di Amsterdam per il maschio europeo in trasferta di lavoro nella capitale olandese. Sono tutte lì intorno, anche se fanno finta di non esserci. Convivono pacificamente. Qui non ci sono gechi, lucertole, rane, serpenti e topi. O perlomeno mentre io bevo del Grechetto ghiacciato e acido. Magari a luci spente, il terrazzo si popola di animali evoluti in grado di inghiottire le farfalline. Sono consapevole del fatto che tutto dipende dalla mia presenza. Proteggo, mentre bevo, le farfalline. Questo mi fa sentire decisamente meglio. Bevo meglio.

Qualcuna mi cade addosso. Roba che, per alcuni, potrebbe rappresentare un grosso problema. La Signora, ad esempio, non t0llera che nessun insetto le si appoggi addosso. Siamo fuggiti da molti ristoranti, molte spiagge, molte discoteche, alcuni bar, qualche parcheggio, per via degli insetti che le cadevano addosso. La scala che usa per descrivere le dimensioni dell’insetto piovutole addosso è solitamente taroccata da un moltiplicatore decimale. Una farfalla di mezzo centimetro diventa un grosso insetto, normalmente chiamato scarafaggio, di cinque centimetri. Sono tutti scarafaggi. Anche se, all’evidenza di qualche cadavere, passato sotto le mie ciabatte, ha dovuto constatare che si tratta di “farfalline”.

Sto per ritenermi soddisfatto della quantità di Grechetto ingerita, inizio a sentire molto meno il traffico in sottofondo, e il fastidioso vociare della gente che va in spiaggia. Come se in spiaggia, alle dieci di sera ci fosse qualcosa da fare. A meno che tu non sia un adolescente, tra i dodici e i ventinove anni, accompagnato da un altro adolescente, anch’egli tra i dodici e i ventinove, o anche da un giovane adulto tra i ventinove e i cinquantasei, non hai nessun fottutissimo motivo per andare in spiaggia. E’ maledettamente umido, decisamente fastidioso, tremendamente inutile.

Le spiagge di notte sono aperte per l’amore e per il vino. Insomma per il meglio della vita.

Eppure ci vanno tutti. Donne apparecchiate come se dovessero battere per mantenere i figli. I quali sono ingorgati nei passeggini, imbalsamati da vestiti fastidiosi sia per il caldo sia per gli osceni disegni. Padri di famiglia con bermuda vergognosi e infradito ridicole. Tutti a camminare avanti e indietro. Passando sotto le mie finestre. Per questo sono costretto a bere Grechetto.

Sono stufo del vino locale, la Passerina. Troppo dolce. Ieri un tipo, in spiaggia, mi ha avvicinato per chiacchierare. Mi ha chiesto se fossi andato ad assaggiare la Passerina Ubriaca. C’era una sagra. La sagra della Passerina Ubriaca. Ho subito pensato a come il tipo abbia scoperto qualche sordido ricordo di trasferte lavorative in paradisi sessuali. La sagra della Passerina Ubriaca.

Avrei voluto essere l’assessore al Turismo, che ha approvato a bilancio la Sagra della Passerina Ubriaca. Alla voce, eventi soft-core.

Bevo Grechetto. Il vino bianco è un buon surrogato del rhum. Per qualche giorno. Poi bisogna saggiamente tornare al Rhum.

Questa cosa delle farfalline dovrò cercarla in internet. Cercare di capire che tipo di relazione sociale hanno, anche se sono fisicamente molto diverse.

Mi godo il momento, cullato dal Grechetto, di quando sentirò tutta la responsabilità di un piccolo Padreterno mentre spegnerò la luce.

Il momento in cui smetteranno di essere protette, e falchi, topi, lupi volpi o forse più semplicemente qualche lucertola, faranno una grande cena. Secondo me senza far troppa differenza di specie e razze.

 

Piccole e Inutili Regole di Vita

Un giorno, qualche anno fa, in una bollente libreria milanese, ho scoperto che c’è un sacco di gente che discute sul leggere, come leggere, cosa leggere, quando leggere. Era una presentazione di un libro. Ho deciso di non andarci mai più. Alle presentazioni dei libri.

Un giorno, qualche anno fa, in un gelido concessionario di moto, ho scoperto che c’è un sacco di gente che discute sull’andare in moto, come andare in moto, cosa fare in moto, quando andare in moto. Ho deciso di non andare mai più in un concessionario di moto. Se non per comprare una moto. Che non accade troppo spesso.

Ho scoperto, in sintesi, qualche anno fa, che c’è un sacco di gente che, invece di fare le cose, discute sul come, quando, dove e perchè farle.

Io mi rendo perfettamente conto che uno dei miei limiti principali è questa dannata fretta. Mi sembra di aver perso già troppo tempo, mi sembra che nessuno mi ridarà i miei giorni.

Ci sono troppe storie da ascoltare, troppe storie da scrivere, troppi posti da vedere, persone da incontrare, persone da dimenticare, persone da amare.

Questa dannata fretta, questa dannata fame, questo disorientante bisogno di continuare a crederci, mi sta logorando lentamente. Si chiama vita. E’ il prezzo da pagare.

Lo pago volentieri, quando ritrovo in una pagina di un racconto tutta la silenziosa voglia di vivere, quando ritrovo in una piccola, semplicissima onda, tutta l’adrenalina che può portarmi in cielo, quando ritrovo in una statale deserta, l’odore di campagna che entra nel casco.

Chi discute troppo ha smesso di essere innamorato…

Io sono troppo innamorato per perder tempo a discutere.

 

 

 

Let’s move to the next level – Un giorno a Madrid

Siamo fermi al semaforo. Io e lui. Io, seduto su duecentocinquanta kili di caldo. Lui chiuso in sei tonnellate di Suv, tutto nero. I vetri, i sedili, la carrozzeria, le ruote. Persino ad essere ottimisti, cosa da cui mi guardo bene, si dovrebbe dubitare fortemente della sua faccia. Io dubito sempre di chi appende il rosario allo specchietto retrovisore. E anche di chi si fida ciecamente della vernice nera.
Sto appeso a un filo d’aria che sembra passare dentro il casco. Aria calda, ma pur sempre aria. Ho le palle roventi, fottuto bicilindrico. Verde. Lui schiaccia. Io apro. Mi sembra evidente che non ci sia discussione. Bisogna urgentemente arrivare al prossimo semaforo prima di lui. Cosa non facile da chiedere al vecchio Generale Buendia. Che è una moto generosa, senza dubbio. Ma ha anche dei limiti. Apro tutto il gas. Prima finita in un attimo. Seconda finita quasi subito. Terza, e si può respirare. Senza togliere nemmeno un dito. Il bello è che anche il mio socio, dall’alto del suo scatolone nero, non smette mai di aprire. Corriamo come due deficienti. Non so bene perché. Chiedetelo a lui, ha iniziato lui.

Mentre l’aereo butta giù il muso con decisione, molta decisone, verso Madrid, guardo tutta questa terra, tutte queste colline. E tutte queste strade, bianche, tortuose, infinite e deserte. Si sogna, quando si atterra. Si sogna sempre, quando si vola. Forse perchè si ha la certezza di essere a un passo da una morte orribile. Sogno un motore forte, rumoroso, un sacco di polvere, non troppo caldo. Perdere lentamente il contatto con la ruota posteriore. Puntare la collina. Arrivare in cielo.

Il tassista è un perfetto esempio di fallimento generazionale. E’ pettinato come il cantante dei Kooks, parla come un indio strafatto di foglie di coca, e guida come Anthony Kiedis la sera che stava per scrivere Under The Bridge. Adora puntare la prima corsia, frenare appena, tornare in terza corsia e nel frattempo tirare su, giù, su, giù, su, giù il finestrino. Maledetta coca. Dovrebbero abusarne solo quelli tremendamente ricchi che possono permettersi di farsi in privacy, a bordo della piscina.

Non che ci sia un grande problema di budget, ma ho le mie abitudini. Mangio qui, perchè so cosa aspettarmi. Il conto, sette euro e cinquanta, rispecchia in tutto il suo splendore l’eccelsa qualità e l’impeccabile servizio. Se poi aggiungi che ai tavoli che danno sulla strada si siedono le mignotte russe che prestano servizio alla “Sauna Lounge” davanti, e se aggiungi anche la blatta che passeggia tra i tavoli, ti chiedi come cazzo sei finito in tutto questo. Se fossi un osservatore raffinato, non ti fermeresti alle puttane, alle blatte e ai gamberi che non sono mai stati realmente crostacei ma più probabilmente avanzi di gatto. Andresti qualche metro avanti. E’ un bar sull’angolo, davanti alla chiesetta. Ci sono parcheggiate sempre fuori almeno sei o sette lunghissime forcelle. Roba da nordici. Senza un filo di ammortizzatore, rigidi da far impallidire gli amici trentini. Roba che può essere omologata solo in Russia, corrompendo il funzionario. Ci sono lunghe barbe, qualche sbarbato, molta buona musica, un discreto numero di curiosi, tra cui il sottoscritto, almeno una trentina di moto, compresa una Ural d’annata, o dannata. Roba forte. E’ il miglior modo di bere una birra nel centro di Madrid.

Mi fermano, forse perchè tengo il Corriere sotto al braccio. Mi chiedono, festosi, cosa si possa fare a Madrid di notte. Domanda del cazzo, fottuti idioti. Madrid è la mia città. Non lo dico io, lo dice la statistica. E’ la città in cui ho passato più tempo nel 2011. Vuoi farti un viaggio con pessima MDMA? Vuoi farti un rosario in una cappella dell’Opus Dei? Vuoi un sensazionale giro tra musei e locali che mettono ancora i Metallica (in pratica altri musei)? Vuoi mignotte, parchi, hipster, sballoni, ex tossici, paella surgelata, tinto del verano, birra ghiacciata, frutta fresca alle quattro di mattina, giovani ventenni felici di ballare i Guns’n’Roses, vecchi trentenni che si danno un tono grazie ai mocassini di Zara? Vuoi un quartiere davvero Gay, una via di travestiti, un indiano che vende Hard Disk, un cinese che vende erba infilata nelle ricariche telefoniche? Vuoi darti un tono, mangiare carne, vedere il miglior spettacolo di tango della città, sudare nella bolgia, camminare per venti minuti in pieno centro senza incontrare nessuno, vuoi una panchina perfetta per chiederle di sposarti, vuoi il numero di un buon dentista sudamericano, con un ottimo bar giusto sotto lo studio? Ecco, però dimmi cosa vuoi. Non pensare che, venendo da qualche posto sperduto nel mezzo dell’Italia, passato agli annali solo perchè Ryan Air ha deciso di farci un volo diretto per Madrid, io possa sapere che cazzo tu voglia fare.

Quindi rispondo: bah, fatevi un giro in centro. Si beve, e ci si diverte un sacco.

Cammino verso l’hotel. Mi hanno dato una camera che puzza di disinfettante. Non ho fretta. E’ solo un altro giorno a Madrid.

Risparmiando sul costo del risparmio

Ho una discreta conoscenza di tutte le maggiori capitali europee. Significa che sono in grado di muovermi utilizzando il trasporto pubblico, so identificare sulla mappa i posti migliori dove prendere una birra fredda o un the bollente, posso gestire un pomeriggio vuoto con una visita a un museo, e organizzare una cena in un posto tipico. Cose che la maggior parte di quelli che fanno il mio lavoro sa fare. Sono le variabili geofisiche l’unica vera incognita di questa vita. E con il passare del tempo, diventano anche l’unica cosa divertente del muoversi continuamente. Un inatteso sciopero della metropolitana, la cancellazione di un volo, un ingorgo, uno sciopero dei controllori aerei francesi (che in verità è diventata una grande abitudine). Un ubriacone che si piazza in mezzo alla strada, quattro vigili che non sanno come gestirlo, il tuo taxi in prima fila, l’ingorgo, il degenero, l’arrivo in aeroporto troppo tardi, la perdita del volo, la notte in un hotel vista pista.

Così ieri non mi sono perso d’animo quando mi hanno gentilmente spiegato che era tutto fermo. Tutto. I francesi sono così. Tutto. Epicamente tutto. Non solo il fottuto treno dove ero seduto. Tutto. E’ tutto fermo. Treni, taxi, aerei, persone. C’è un ragazzino in sala operatoria da sei ore per un’appendicectomia, perchè il chirurgo si è fermato. Tutto è fermo.

In Francia funziona così: prima annunciano tutto in francese. Come è giusto che sia. Quando vedi il tuo treno, fermo lato banchina, svuotarsi immediatamente, cerchi spiegazioni. Non capisci una parola di francese. Questo è il tuo limite. Ma trovi sempre qualcuno che, svogliatamente, ti spiega che c’è una bomba quattro fermate più in la. Questa cosa delle bombe, delle valigie sospette, è una delle grandi fissazioni francesi. Se lasci una valigia in una stazione secondaria italiana, puoi passare a riprenderla dieci ore dopo. Ovvero quando la Polizia Ferroviaria ha chiamato il 118 che sta chiamando i Carabinieri, che hanno chiamato la Polizia Ferroviaria, che sta chiamando la Polizia di Stato, che chiama i Pompieri, che allertano il 118, che chiama i Carabinieri, che stanno chiamando gli Artificieri, che hanno chiamato la Protezione Civile. Seimila euro di fatturato netto per la Telecom per ogni allarme bomba.

In Francia, invece, vanno più sul drastico. Bloccano tutto. Tutto quello che si muove. Poi, questo lo suppongo, iniziano anche loro il carosello burocratico di chi fa cosa. Ma, da subito, bloccano, sigillano, evacuano. Lo ho visto tante, troppe, volte all’aeroporto. Hanno una passione per l’evacuazione coatta. Godono a stendere il nastro rosso e bianco.

Insomma scendo. Sulla banchina regna la confusione. Siamo nel mezzo di una splendida campagna, si vede lo skyline di Parigi sul fondo. A destra, molto sul fondo. Consulto la mappa, appesa su un tabellone. I taxi sono già spariti. C’è pochissima gente sulla banchina.

Mi accendo una sigaretta. Aspetto di capire, sfoderando la mia arma segreta: la tasca delle Mappe. La tasca delle Mappe è una parte fondamentale della mia borsa. Sono tutte mappe di carta, gloriosamente carta. Madrid, Londra, Berlino, Stoccarda, Parigi. Carta. Perchè quando hai bisogno di una mappa, spesso finisci la batteria (che hai consumato ascoltando i Nofx per quattro ore). Carta. Apro la mappa. Ma non capisco nulla. Non capisco dove siamo.

Ti dicevo che prima fanno l’annuncio in francese. Come gli italiani fanno l’annuncio in italiano.

Ma poi, delizia dello sciovinismo, parte sottovoce una calda pronuncia comica, che in inglese dice: state su, che ripartiamo. Era solo una bomba. Ma poi non era una bomba. E che cazzo.

E tu, cerchi di capire, perchè l’annuncio in inglese non te lo aspetti.

E mentre cerchi di capire il treno riparte. Biiiiiiiip. Si chiudono le porte. E ripartono. Loro.

Tu no.

 

Potrebbe non essere tutto come sul volantino

Avevo bisogno di farmi un viaggio. Avevo bisogno di sentire il sole, il vento, la pioggia, bruciare sulla faccia. Sentire solo il motore, per ore, avevo bisogno di avere moltissima strada davanti a me. Così sono partito, ho fatto millecentosettantasei kilometri e sono tornato, ho preso il sole, il caldo, il vento, la pioggia, il freddo. Il motore, good vibrations, girava, leggero scivolare per tornati e colline, faticoso salire sui passi alpini, lento borbottio sul lungomare. Viaggi così sono sempre troppo brevi, perchè è un immaturo modo di fermare il presente. Lasci a casa il passato e il futuro ad aspettarti.

La scusa è stata quella di un regalo. Ho raggiunto i 33 anni. Non ha moltissima importanza per me. Nello stesso momento, questo posto, e la sua vecchia versione, hanno raggiunto 8 anni.

Le cose nella vita succedono sempre per un motivo. Avevo un bagaglio pieno di motivi da buttare nel mare.

Sono mesi che non mi godo un giorno che sia uno. Per un sacco di motivi. Che sono rimasti nel bagaglio, anche al mio ritorno.

Adesso sarebbe il momento di scrivere del viaggio, di scrivere dei 33 anni, di scrivere di tutte le cose cambiate da 32 a 33, ma anche da 25 a 33, sarebbe il momento di farsi i complimenti, leccarsi le ferite.

Sarebbe il momento di fare bilanci.

 

Invece, siamo qui, seduti alla scrivania, io e i miei motivi. Ad aspettare il prossimo viaggio.

Ho la consapevolezza di sapere, saggezza di un 33enne, che in queste situazioni è meglio non agitarsi molto. Aspettare, esercitare il silenzio, tenere la mano su un filo di gas.

Per i miei 33 anni mi sto facendo un grande regalo, aspetto di darmelo quando sarà pronto. Vorrei farmi una sorpresa.

Ah, ricordati, quando parti per scappare, che sarebbe sempre meglio non tornare.