La mia fervida immaginazione mi ha salvato la vita in parecchie occasioni. Guarda l’eterna lotta che ho dovuto condurre con i miei genitori per avere più Lego. Non bastavano mai. Il mio progetto era di costruire una città, tutta incentrata su una misteriosa base spaziale dalla quale facevo partire delle navicelle che ispezionavano i pianeti vicini. La rotta più pericolosa era quella che abbandonava il pavimento con un rapido decollo e si portava sul letto di mia sorella, atterrando pericolosamente tra le pieghe del copriletto. In alcune occasioni, ci sono stati dei guasti meccanici o degli agguati condotti da nemici infami e nascosti nella fitta vegetazione. Per questo l’astronave, che inizialmente era snella e più orientata ad un approccio aerodinamico, è diventata un carrozzone quadrato e tozzo, in grado di ospitare i meccanici, i soldati, l’equipaggio, e un cow boy con la pistola disegnata sul giubbotto, che non centrava nulla, ma faceva numero.
Tutti, nella città, avevano un lavoro. Quasi tutti lavoravano per la base spaziale. Ci si muoveva con un autobus che era più grosso della nave spaziale e che faceva il giro di tutte le case. Andava alla base la mattina, tornava quando era ora di cena. Cena vera, ovvero quando venivo forzatamente staccato dalla mia città per andare a mangiare.
Mantenere questa città era un lavoro infame e lunghissimo, da condurre con estrema attenzione. E richiedeva sempre più mattoncini, sempre più pezzi, sempre più materiale. Le missioni spaziali iniziavano a richiedere la costruzione di stazioni di atterraggio, perchè si faceva inverno ed era un casino atterrare sul copriletto di lana, che la punta dell’astronave si incastrava nei pelucchi. Nuovi modelli, con ruote più grosse, furono studiati dopo un drammatico incidente, costato la vita al cow boy (subito dopo rinato come autista di un camion) e ad alcuni soldati. La richiesta di materiale, proveniente da tutti i dipartimenti, era continua. Ormai si viveva alla giornata. Anche un piccolo incidente tra il bus e qualche camion, provocava l’immediato riciclo di pezzi. Mancavano i muri, e si faceva incetta di finestre dei Playmobil, molto utili come vasche di contenimento dei materiali di scarto.
Niente faceva presagire un buon finale. Ma Natale si stava avvicinando. Lo riconoscevo dal freddo, dalle luminarie e dalle petulanti richieste di mia sorella, in piena angoscia paninara e tremendamente desiderosa di un piumino nuovo. Forse anche di un fidanzato nuovo. Ma quello mi interessava meno.
Arrivati alle soglie del Natale, la città viveva appesa a un filo. Alcune missioni spaziali, come l’atterraggio sulla cassettiera in fondo alla stanza, erano state abbandonate, e i saccheggi nei quartieri residenziali avevano spinto molti a dormire dentro la base spaziale, che poi era rimasto l’unico edificio ad avere ancora tutti i muri e tutte le porte. Il capo della Base, l’unico Lego con la tuta blu, e quindi il capo, aveva deciso in ogni caso di costruire una super nave da combattimento. I dissidenti, tra cui il cow boy e un paio di sgherri di Robin Hood, avevano deciso di ritirarsi sotto il letto, in fondo, nella zona più selvaggia e buia. Stavano confabulando qualcosa, ma non sapevano che il terribile, ed obeso, gatto di casa, sapeva dove trovarli. Proprio alla vigilia, uno degli sgherri di Robin Hood fu ritrovato in cucina, orrendamente massacrato di morsi e decapitato. Questo spinse i dissidenti a tornare nella valigia, per lo meno di notte, o in mia assenza, insieme a tutti gli altri Lego.
La mattina di Natale eravamo in tanti ad aspettarci qualcosa di grandioso. Io sono sempre stato in grado di riconoscere una scatola di Lego anche se incartata orrendamente con le carte regalo che mia nonna si faceva arrivare direttamente da un laboratorio segreto dove la Orfei confabulava con Dalì per partorire carte scure, opache, con disegni psico trance.
L’arrivo dei mattoncini era dato per scontato da quasi tutti gli abitanti di camera mia, tranne che da mia sorella. Che penso, a quel punto, fosse più orientata su un nuovo fidanzato.
Scartate le figurine Panini, avevo già in mente un baratto con un mio compagno di classe. A me del calcio non me me fregava nulla. A lui non fregava nulla di costruire qualcosa. Oggi è ancora così, ma siamo trentenni e giochiamo con giochi diversi.
Poi ho aperto un dolcevita grigio di lana. Il regalo della nonna, messo in una scatola rigida, della forma e dello spessore di una dei Lego. Un gesto infame, un colpo basso. La vendetta sarebbe stata eseguita con calcolo e freddezza, rubando tutte le caramelle Miele Ambrosoli che teneva nascoste dietro al televisore.
La questione si faceva drammatica. Stavano finendo i pacchetti sotto al Presepe. E io non avevo in mano ancora un solo pezzo di Lego, nemmeno un mattoncino da due. Forse mi ero spiegato male. Forse non mi volevano più bene.
L’ultimo pacchetto per mia sorella, poi un pacchetto per mio padre, e poi l’ultimo per me. Un libro. Lo sentivo. Era un libro. Aperto, tolta la carta. Un libro di preghiere. Mi avevano regalato un libro di preghiere.
Sentivo fortissimo l’impulso di piangere. Piangere. Piangere a dismisura. Un libro di preghiere.
Nemmeno un singolo pezzo di Lego.
Ho imparato molte cose da quel Natale anni 80. Ho imparato ad usare meglio l’immaginazione, per costruire, abbattere, giocare. Ho imparato a dire le preghiere, leggendo svogliatamente un libro, che poi è diventato anche la nuova rampa di lancio per le missioni spaziali. Ho imparato a terrorizzare il gatto, proteggendo la mia popolazione. E poi ho imparato che quando sai cosa desideri, è sempre meglio che tu te lo prenda.
Sta arrivando Natale, da qualche anno ho smesso di giocare con i Lego. Ma non ho smesso di giocare. E questo Natale so cosa vorrei. So di non poterlo dire, per convenienza. So di poterlo solo sognare. Ma so, per certo, che si tratterebbe del regalo più bello di tutta la mia vita. E so anche dove andare a riprenderlo, questo regalo più bello di tutta la mia vita. Perchè lo ho lasciato lì, ad aspettarmi.
Il regalo più bello di tutta la mia vita.
Sicuramente dopo una scatola di Lego.