VhS

Io e Anna avevamo due certezze, che a vent’anni è già un bel successo. Avremmo voluto fare gli scrittori, e non avevamo una lira.

Frequentavamo gente che voleva scrivere, aspiranti scrittori, poeti, tutti eravamo pronti. Non si sa bene per cosa. Non avere soldi era quasi un incoraggiamento. Tutti gli scrittori hanno sofferto, ci dicevamo.

Compravamo libri usati, a una bancarella dietro Sant’Ambrogio, davanti all’Università. Era l’unico mio avvicinamento all’Università, durante tutto il semestre. Saltavo tutte le lezioni, per dormire, per scrivere, per fare il volontario in ambulanza, per lavorare. Qualsiasi cosa era più importante delle lezioni.

Anna aveva i capelli nero corvino, due grandi tette, morbidissime, e un sacco di tagli sulle braccia. Quando sua mamma la faceva arrabbiare, lei si chiudeva in camera e si tagliava le braccia con un taglierino. Senza affondare troppo la lama. Poi mi chiamava, e uscivamo a bere.  O anche solo a camminare.

A volte, quando faceva troppo freddo, salivo a casa sua. Era sempre silenziosa, sembrava fosse sempre deserta. Sua madre mi salutava aprendomi la porta senza aggiungere niente e rimanendo a guardarmi negli occhi. Era una donna bella. Ma fredda.

Nella libreria all’ingresso c’erano tutti i giornali. Credo il padre di Anna fosse giornalista. Non lo ho mai visto.

Ci chiudevamo in camera, e guardavamo Corso Vercelli, dalla finestra, fumando.

Anna scriveva di notte, robe cupe e dolorose. Io le rileggevo, perchè il patto segreto tra di noi era di leggere tutto quello che avevamo scritto. Io le portavo le mie poesie, e lei le leggeva incrociando le gambe sul letto. Rideva delle mie poesie d’amore e si faceva seria quando scrivevo d’altro. Non ho mai scritto una poesia per lei. Non ci siamo mai baciati. Anna aveva un fidanzato, Carlo. Compariva solo nei fine settimana, per portarla alle feste. Non mi hanno mai invitato, e Carlo non mi salutava nemmeno. Io ero solo, e ancora innamorato di una ragazza che mi aveva lasciato per un tizio che assomigliava a Lenny Kravitz.

Odiavo Lenny Kravitz, e più io lo odiavo più la radio lo passava a tutte le ore del giorno.

Odiavo anche i ragazzi ricchi con i loro SH squadrati, perchè uno di loro mi aveva portato via la cosa più vicina all’amore che avessi mai vissuto.

Quando Anna usciva con Carlo, restavo a casa a scrivere, o a guardare vecchie videocassette.

Una sera Anna mi ha invitato a casa di Carlo, per una festa. Sono passato a prenderla e siamo andati dall’altra parte della città. Mi sembrava tutto nuovo, come fossi in un paese straniero. Ordinati condomini con grandi giardini, e ville che costeggiavano gli svincoli dell’autostrada. Milano, vista così, mi sembrava bruttissima.

Alla festa c’erano gli amici di Carlo e qualche amico di amici.

Anna mi presentava come il suo amico scrittore, che era una cosa che mi dava un sacco di soddisfazione e legalizzava i miei pantaloni di velluto verde più adatti a un circolo di pesca che a una festa di ragazzi.

Una delle ragazze, si chiamava Monica, si era fermata a parlare con me, tenendo il bicchiere di carta con dentro il vino tra le mani come fosse un cero.

Mi faceva un sacco di domande su Carlo e Anna. Aveva gli occhi selvatici e scuri, un viso rotondo e un tipo di bellezza che non capivo.

A mezzanotte me ne sono andato, lasciando sul tavolo il mio bicchiere e senza salutare nessuno.

La mattina dopo Anna al telefono mi ha detto che Monica avrebbe voluto rivedermi.

E mi aveva consigliato alcuni posti dove portarla. Per una merenda, diceva.

Ridevo al telefono, pensando alle persone adulte che si fermano a fare merenda. E Anna rideva con me.

Beh allora fai un po’ come cazzo ti pare, mi aveva detto.

Ho chiamato Monica due giorni dopo, da un parcheggio in Piazzale Loreto. Le ho chiesto se le sarebbe piaciuto vedere con me un film o magari uscire a cena.

Tutti e due, mi aveva risposto.

Il venerdì dopo eravamo a cena in una trattoria vicino al centro. Monica faceva la fotografa, e studiava comunicazione. Parlava veloce, e mi guardava fisso negli occhi.

Mi aveva chiesto di leggere le mie poesie. Non mi aveva fatto sentire nulla di speciale, quella richiesta, perchè Monica non mi piaceva.

Allora eravamo andati a casa mia. Mio padre dormiva. Ci eravamo messi in soggiorno, sdraiati sul tappeto e avevo iniziato a leggere qualcosa.

Ci siamo addormentati così.

Quasi abbracciati.

Poi Monica è si è svegliata e se ne è andata.

Ci siamo rivisti in università, per un caffè. Seduta sul muro dei chiostri, fissandomi, mi ha detto: vuoi fare sesso con me e una mia amica?

Ho riso. Per sdrammatizzare e perchè nessuno mi aveva mai chiesto di fare sesso. Lo avevamo semplicemente fatto.

Si vede che in tre bisogna chiederlo, avevo pensato.

Si, ho risposto ridendo.

Perchè ridi?

Perchè mi fa ridere che tu me lo chieda. Insomma la immaginavo diversa.

Non è un tuo sogno, fare sesso con due ragazze?

Si, avevo risposto, ancora.

Usciamo giovedì, ti va?

Si.

Giovedì pioveva. Eravamo finiti in un karaoke vicino allo stadio. Monica era sola, vestita tutta di nero, truccata, e sorridente.

Non ho mai chiesto della sua amica, per tutta la sera. Abbiamo bevuto senza cantare e poi accompagnandola a casa la ho baciata. Slacciandole la camicetta ho sentito il battito veloce del cuore e mi è sembrata molto più viva, reale.

Una domenica ci siamo incontrati per camminare nei campi. Adoravo camminare nei campi intorno a Milano. Senza fare nulla di speciale. Solo camminare. Toccare il grano o la terra, osservare i conigli, la bruma, gli odori. Camminava vicina a me, guardando per terra.

Ho chiesto ad Anna di venire a letto con noi – aveva detto – e ha detto che va bene.

Tu cosa hai fatto?

Ho chiesto ad Anna di venire a letto con noi.

Perchè?

Perchè lo avevamo deciso.

Mi ero fermato, in mezzo al sentiero.

Anna è mia amica.

Era una frase così importante e stupida allo stesso tempo. E in tutta la sua stupidità era rimasta sospesa nel nulla del viso di Monica. Che non capiva.

Anna è mia amica.

Avevo ripetuto. Quasi per convincermi che un’amica, Anna, non un’amica, Anna proprio lei, non potesse fare cose così.

Cosa centra?

Non avevo saputo rispondere.

Io sono innamorata di Anna. E un po’ anche tu.

Io non sono innamorato di Anna.

Carlo dice di si.

Carlo è un coglione.

Vedi che sei innamorato di Anna?

Carlo è un coglione a prescindere. E io non sono innamorato di Anna.

Vuoi venire a letto con me e Anna?

Non lo so, cazzo.

Avevamo ricominciato a camminare. Stava per fare buio.

In macchina non avevo parlato e avevo messo una cassetta dei Gorilla Biscuits.

A un semaforo mi ero girato e Monica mi aveva baciato, un angolo della bocca.

Mi aveva guardato, dopo il bacio e mi aveva detto: tu non mi piaci, ma lei si. E io so di non piacerti, ma ti piace lei.

Ero scoppiato a ridere.

Hai ragione, tu non mi piaci. Si capisce tanto?

Fai sentire la mia bellezza inutile.

Allora scusa. Ma anche io non piaccio a te…

Tu sei incompleto. E stai per combinare un sacco di casini, te lo si legge in fronte. Sei l’ultimo uomo che ho bisogno adesso.

Credevo fosse per il naso grosso.

E poi non avevamo più parlato fin sotto casa.

Monica era scesa senza salutarmi.

 

 

Perchè le donne non dovrebbero mettere il rossetto – (come libri vecchi)

Quanto tempo deve passare perchè una cosa che mi succede ripetutamente possa essere definita una tradizione? Semplifico: quanti anni devo ancora aspettare per dire che, tradizionalmente, ottobre è il mese più bello per iniziare cose nuove, per drasticamente concludere cose vecchie, per sperare, per lasciarsi cullare dalle illusioni, insomma per giocare con l’anima? Quante ottobrate dovranno ancora passare?

A ottobre io cammino volentieri, più volentieri che a novembre per dire, per la città. A ottobre mi fermo volentieri fuori, appena dopo il calar del sole, a osservarne la sconfitta rovinosa. A giugno siamo tutti gagliardamente orgogliosi di questo sole, che tiene botta alla notte, restando in cielo, come se volesse sfidare la luna. A ottobre siamo in pochi, a restare con il naso all’insù, appena dopo l’aperitivo, ad osservare già le prime stelle. Il sole che batte in ritirata veloce, come i gatti quando si spaventano.

Che poi a ottobre mi piacciono anche i gatti.

Insomma, farei di ottobre un mese chiave. Non mi piacciono le classifiche, non sono bravo a lodare il primo, perchè tendo a commuovermi per l’ultimo e a tifare per il secondo. Però adoro le liste. E nella mia lista dei mesi, il mio calendario emotivo, ottobre è il re incontrastato.

Succedono, sempre, per quello dico che è ormai tradizione, alcune cose ad ottobre.

Scrivo, ricomincio a scrivere. Come avessi il cervello tornato da una lunga vacanza. Le cose che scrivo ad agosto son sempre le stesse. Mi annoio io a scriverle, figurarsi a leggerle. Settembre lo salto quasi sempre. Che sono troppo impegnato a gestire il ritorno. E la gastrite. Che viene per il ritorno. La gastrite viene sempre per cose già noiose di loro. Non che ti innamori e ti viene la gastrite. Oppure ti danno una promozione sul lavoro e ti viene la gastrite. La gastrite è la sottolineatura di una bastardata della vita. Il grassetto sulle sfighe, il maiuscolo negli scivoloni. E a settembre a me viene la gastrite. Non scrivo perchè ho la gastrite, anche se mi vengono un sacco di idee belle. Storie deliziose. Che dimentico appena mi appoggio al cuscino. Me le racconto per qualche minuto, unico spettatore dei miei stessi spettacoli.  A ottobre ricomincio a scrivere.

Leggo, ricomincio a leggere. A ottobre faccio pace con il divano. I divani sono stati inventati per farti capire che nella vita si può sempre scegliere, tra il bene e il male, tra il meglio e il peggio. Puoi morire di noia e routine, sul divano. Come puoi farlo diventare il posto più bello della casa. Sul divano dovrei scrivere qualcosa. Di come sia lo specchio della salute di una relazione, di una persona, di una casa. Il mio divano è un’astronave. Mi porta dove voglio, con un libro sopra. Il mio divano è anche il mio set porno preferito. Il mio divano è la mia enoteca più bella, e i segni, le pieghe e le macchie raccontano queste storie. A ottobre mi siedo nudo, nel posto in fondo a destra, e mi metto a leggere. Ho avuto donne a cui questa cosa dava tanto fastidio. Ho avuto.

Mangio. A ottobre ricomincio a mangiare. Ponderatamente si potrebbe dire che riconosco l’inutilità della dieta sulla gastrite e sulla mia pancia, e mi riapproprio del sereno rapporto con i grassi saturi. Cambia, questa cosa del mangiare, con le stagioni. Ma cambia anche con i modi. Mangio sempre meno volentieri da solo, e mangio sempre meno roba noiosa. Come se volessi ingurgitare gioia, fare magazzino per l’inverno delle emozioni. Una difesa, mangiare cose belle e buone. Non so se sia una teoria ragionevole.

Ascolto, a ottobre io ascolto. Ho orecchie selettive. Solo uno stupido potrebbe pensare che io ascolti poco. E’ che la maggior parte delle cose che ascolto sono noiose, e smetto subito di sentirle, le mie orecchie mi difendono dalla noia, dalle conversazioni scontate, dai giri noiosi intorno ai problemi. A ottobre ascolto volentieri. Mi piace trovare storie belle.

Per questo a ottobre cammino di più. Perchè camminando posso raccogliere storie in giro, guardando, curiosando, come fossi una portinaia itinerante, curiosa e molesta. Mi piace origliare le conversazioni del tavolo vicino, le litigate mi incuriosiscono, ascolto i sospiri degli innamorati, mi coinvolgo nei problemi delle quotidianità altrui, mi struggono i drammi di chi incontro. Faccio provviste, anche in questo caso, per l’inverno. Ascoltando e camminando.

Sorrido a tutti, come fossi scemo. E’ la mia battaglia personale contro chi non capisce di dover essere grato di essere vivo. Sorrido agli uomini e alle donne che incontro. E’ rarissimo che qualcuno risponda al mio sorriso.

E’ come se a ottobre, come da tradizione, mi rimettessi in pace con il mondo.

Solitamente, verso la fine, vengo preso da una drammatica tristezza. E’ l’anniversario della morte della mia mamma. Era qualcosa che avrei dovuto risolvere molto tempo fa. Ma ero daltonico. Emotivamente daltonico. Confondevo le cose che mi succedevano, non capendo le emozioni. E anche questa cosa di mia mamma è andata avanti così. E ottobre era sempre un mese dal finale drammatico.

Invece no.

Perchè, lo ho imparato da pochissimo, si può provare a cambiare alcune cose.

Ho anche imparato che la tequila non mi piace per niente. E’ come se lo avessi sempre saputo nella vita, ma dovevo riprovarlo. E lo ho fatto, in Germania. La tequila mi infastidisce più dei discorsi noiosi. E mi da lo stesso mal di testa.

E non mi piace nemmeno il rossetto. Anzi, a mio modo di vedere il rossetto su una donna è come il borsello su un uomo. Niente di illegale, ma qualcosa di drammatico. Avevo una moglie, l’unica che ho avuto peraltro, che mi ha sempre accusato di non averle permesso di mettere il rossetto. Sono quindi diventato tollerante. Estremamente tollerante. La separazione serve a quello. A farti diventare tollerante sui dettagli, come il rossetto.

Lo trovo ottocentesco, pericoloso, inquinante. Dato che è possibile che siate arrivati qui a leggere per via del titolo, è forse il caso che dia una lista delle principali motivazioni per cui il rossetto non è una cosa di cui vantarsi, ma un difetto con cui convivere come un brutto neo peloso.

In primis il rossetto macchia. Impedisce il bacio, lo inibisce fin dalle intenzioni. E se io avessi voluto baciarti, prima di uscire di casa, o mentre siamo in ascensore, o mentre stai toccando gli avocado all’Esselunga? Inibito dal rossetto.

E poi il rossetto ha un potere psicosomatico sulle donne, cambia il loro modo di associare i colori. Ho messo questo bel rossetto rosa, mi sento in dovere di metterci anche una bella collana rosa. Come un quadro rinascimentale. Con i colori forti in vista. Io penso che il Rinascimento abbia dato al mondo grandissimi quadri. Secoli fa. E che il loro posto sia El Prado. Un museo.

Sotto i diciotto anni, siamo tutti d’accordo, è un manifesto. E’ la libertà, dipinta sulle labbra prima che le labbra la urlino. Un monito ai padri, un avviso alle madri, un comunicato stampa al mondo.

Sopra i diciotto anni, diventa uno scivolo, ripido e unto, la cui fine è in bilico tra il puttanone e il quadro rinascimentale. Nella migliore delle ipotesi, passi per un troione, nella peggiore ti spruzzano del Pronto sulla faccia per pulirti la cornice.

Per l’uomo è come l’intimo, un argomento spinosissimo, un cactus delle discussioni di coppia. E’ facilissimo pungersi. Belle le mie mutande nuove? Si. Bello il rossetto? Ancora di più, amore mio. Togliere le dita dalle spine, non appoggiarle nemmeno. Si chiama sopravvivenza.

Eppure, se qualcuno vi dicesse la verità, sarebbe meglio per tutti: metteresti mai sulle labbra un inibitore di baci?

E quanti baci hai perso, per quel rossetto?

Macchiami, ti prego, ma macchiami l’anima, con il tuo respiro sul collo, non il bavero della camicia.

Baciami, ma lasciami i segni solo quando mi mordi.

Ottobre, non so perchè, è un mese in cui tollero molte cose. Ma non la tequila e il rossetto.

Ecco come mi sento, a ottobre. Come uno dei miei libri preferiti, che tengo su uno scaffale in alto. Lo prendo per ritrovarmi. E mi ci ritrovo, come la prima volta. Una sicurezza. I libri vecchi. Come fossero segnali, tracce.

Ottobre, e il bello di sentirsi come un libro vecchio.

Mi perdonerei moltissime cose, e mi sono perdonato tantissime volte, ma mai mi perdonerei di perdermi un ottobre.

Possiamo dire che è una tradizione questa di ottobre?

Paternità

Non ricordo se fosse già il periodo della Fiat Bianca, una famigliare squadrata e scomoda, con il bianco lucido della carrozzeria che si sporcava subito e mio padre che la puliva con un panno umido, come un gioiello prezioso, o se ancora fosse il periodo del vecchio Peugeot Blu, con i sedili di tela nera scoloriti dal sole.

Comunque si trattava di levatacce, sempre e comunque. Quando mio padre voleva viaggiare, ci si doveva sempre svegliare all’alba. Si faceva colazione con il buio, appena svegli, anzi ancora addormentati, con il pavimento della cucina gelato e il silenzio fuori dalle finestre. Si scendeva in cortile, dove si faceva trovare pronto, con la macchina accesa e il cancello aperto. Era il suo modo per accoglierci e motivarci.

Arrivavamo, quasi ovunque, prima di pranzo. Stanchi morti, storditi dal rumore assordante del motore e del nulla da guardare fuori, ma pronti per il pranzo.

Così eravamo arrivati anche lì precisi, mezz’ora prima dell’una. Il paese era deserto, assolato, fresco, infilato in due valli alle spalle degli Appennini.

Ci sarebbe stato poco da dire, di quel posto, anche fosse stato pieno di gente. Ma vuoto dava l’idea di un ricordo sbiadito tridimensionale, un passato prossimo ancora visitabile, un luna park della memoria a lungo termine.

Il primo posto che ci fece vedere era il cimitero, all’ingresso del paese. Un cancello di ferro aperto, la ghiaia, le tombe disordinate, i fiori vecchi e i pini a proteggere tutto.

Cercava come fosse un cane con una palla. Finalmente, fermandosi dietro a una tomba aveva esclamato: eccoci qui!, manco fosse una festa a sorpresa.

La nonna della nonna era sepolta lì. Ci raccontò brevemente di cosa era successo negli ultimi due secoli nella nostra famiglia, da parte di padre, perchè lui non è mai stato bravo a raccontare storie, e poi chi chiese di dire una preghiera per la nonna della nonna, come fosse morta il giorno prima.

Io ero solamente stanco, della macchina, della sveglia, di visitare cimiteri di montagna quando tutti i miei amici erano al mare.

Poi ci prese per portarci in una trattoria, l’unica di tutto il paese.

Le volte che mio padre ci ha portato a pranzo fuori sono così poche che le ricordo tutte a memoria. Compreso quel pranzo.

Tagliatelle, odore di cinghiale, acqua fresca buonissima, insalata verde e carne dura, con la signora che sorrideva, incredula per quell’inaspettata ciurma.

Dopo pranzo, camminando, siamo andati a trovare la zia, una delle sette sorelle della nonna, che era stata la maestra del paese, prima di andare in pensione e invecchiare deliziosamente in una casa che sembrava rubata a un reportage fotografico sulla povertà in Bulgaria.

Ricordo di aver pensato che se quella era la fine, non avrei mai voluto fare il maestro nella mia vita.

La noia mortale da bambino non è così mortale. Ti sembra di aver ancora una chance, non hai così fretta e non hai grandi paranoie nei confronti del tempo. Quindi resti dove ti mettono, aspetti, e te ne fai una ragione.

E così ho fatto, per tutto l’infinito tempo che sono rimasto sul divano rosso trapuntato della vecchia zia.

Parlavano di cose che nemmeno sentivo. Ti immagini di dover parlare con rispetto e grazia, in presenza dei bambini, ma non sai che i bambini nemmeno ti sentono, quando si annoiano. La beatitudine dell’infanzia.

Nel viaggio di ritorno cercavo di contare i lampioni. Lo facevo sempre, quando la noia era troppa per fare altro. Una specie di anticamera della morte dei sogni. Se niente era possibile, allora si provava con i finestrini. Contare lampioni.

Adesso quando guido ci provo, a vedere se i lampioni da qualsiasi destinazione a casa sono ancora così numerosi come quando ero bambino e mi annoiavo.

Centinaia di migliaia di lampioni. Prima di, finalmente, arrivare a casa.

E’ stato così che mio padre ha voluto raccontarci la storia della sua famiglia e uno dei luoghi più evocativi della sua vita.

Poi, avanti con il tempo, a pezzi, abbiamo ricostruito la sua storia. Perchè quando non sei capace di raccontare la tua storia, se sei fortunato avrai figli curiosi abbastanza da volerla ricostruire, pezzo dopo pezzo.

Abbiamo ascoltato racconti di peri e meli rapinati in pieno giorno, e di contadini arrabbiati pronti a sparare. Di discese a perdifiato dai tornanti, di bagni nudi nel fiume, di arrampicate sugli alberi.

E abbiamo rivisto tutti i pezzi di quel paese desolato che ci ha portato a vedere.

Mi è venuto in mente oggi, mentre dal finestrino del treno osservavo i lampioni, per noia.

Di come sia strana la storia di chi non sa raccontare le storie.

 

Convergenze

Convergenze

(Canzone difficile scritta per gruppo indie di cui non posso fare il nome, rifiutatami perché troppo commerciale, da cantarsi con melodie in minore e tono di voce stanco)

D’estate mi assento per giorni sette. Ho un programma di verbi all’infinito che hanno l’ambizione di curare un passato imperfetto. Grammatica dell’anima, nuotare, leggere, camminare, dormire, pregare, in sintesi resistere.

Tutto l’anno mi chiedono come fai a fare tutto, dare tutto, amare tutto. Il segreto è nei giorni, sette, sono la domenica pomeriggio del mio anno, che è un lunedì mattina permanente. Non è sognare che aiuta a vivere, poi si finisce a Xanax e noia a novembre in Gae Aulenti a guardare una vetrina di robe da corsa, magliette traspiranti che promettono futuri migliori. È vivere che aiuta a sognare, se lo si fa per amare. A volte, in questi giorni, mi sveglio di colpo, mi prendo le mani, come a tenermi per non annegare, e inizio a pensare. Poi mi ricordo che la mia grande fortuna è stata una sola, fallire, annegare, bruciare, cadere. Allora mi lascio, adesso ci andrebbe il ritornello. Già che non è in rima, serve un ritornello che Lodo dello Stato Sociale poi ti chiama e ti dice: geniale! Invece niente. Mi disturba, non tanto per la chiamata persa da Lodo, ma perchè questa canzone avrebbe potuto diventare pop, invece niente. Sarà un anno che non riesco più a scrivere canzoni. É un viaggio strano e interessante, passo grandi stazioni, ho dato un nome alle mie emozioni, le piccole stazioni di provincia mi lasciano indifferente, mi dimentico le persone inutili e i discorsi futili.

L’insospettabile leggerezza dell’essere.

Non insostenibile.

Insospettabile

di cosa parliamo quando parliamo di salsedine

Prediligo magliette larghe, anche brutte ma larghe. A dirla tutta, le magliette larghe, già perchè sono larghe, per me non sono brutte. Non possono esserlo. Perchè sono larghe.

Mi piace mettere le magliette larghe, e sentire la salsedine grattare, sulla schiena, sulle spalle, sul collo.

Mi piace camminare a piedi nudi e sentire la terra, dei sentieri. Magari pungermi, con gli aghi di pino secchi, o con i piccoli sassi appuntiti.

Mi piace arrivare fin dove si vede la baia, osservare la gente, sentire il rumore del mare, quando il Maestrale fa battere l’acqua forte contro gli scogli.

Quando fumavo, arrotolavo sigarette sottili, e mi mettevo a guardare il mare. Mi sono portato parecchi libri, che seduto a piedi nudi mi sembrava di poter essere migliore, insieme al mio libro.

Che poi, a dirla tutta, non sono ben sicuro si sia trattato di una verità. Questa.

Avevo moltissime idee. E moltissime volte ho cambiato idea. Prima di avere un figlio pensavo cose che adesso non penso. Prima di perdere tutto pensavo cose che adesso non penso. E adesso ne penso altre, che prima non immaginavo nemmeno.

Credo la vita sia così.

Quello che sento quest’anno è, sembra strano ma è così, una noia mortale. Mi ha annoiato il Levante, non lo avrei mai detto.

Mi ha annoiato quasi tutto, tranne la salsedine.

Così, annoiato e salato, come una acciuga di quelle che sbattono su taglieri dell’Ikea all’aperitivo spacciandotele per appena pescate, ho pensato di scrivere.

Magari passa, ho pensato.

E’ una roba dei quarant’anni, ho dedotto.

Forse questo mare non ha più nulla per me, ho ipotizzato.

Dormo male, mi addormento pensando a quello che ho scritto, e scrivo male, perchè penso a quello che vorrei scrivere.

Penso che sia un periodo.

Comunque prediligo magliette larghe, e sentirmi la salsedine addosso, mentre bevo del vino al tramonto.

Tre estati fa scrivevo canzoni migliori.

Sarà un periodo.

 

Bird: la leggenda del passero

Annoiata, Emilie era solo annoiata. Terribilmente annoiata a dire il vero. Rollava sigarette sempre più sottili, che poi fumava solo per qualche tiro e lasciava spegnere nel grosso vaso di terracotta vicino alla piscina.

Un gatto, bianco e grigio, dormiva sul primo scalino di marmo, davanti alla strada. Dall’altra parte il mare, poco più sotto il porto, con i traghetti che scaricavano turisti sudaticci e bianchi.

Aveva portato i vecchi sandali con cui aveva fatto, qualche anno prima, tutto il Nord Africa a piedi. Le ricordavano la libertà, l’Africa, il passare degli anni. Erano rovinati, sporchi, consumati, in poche parole inguardabili.

Davvero poco adatti alla piscina, all’isola, a quel clima elegante e godereccio. Qui la gente sorride, con larghe camicie di lino, la pelle con le rughe del sole preso per sei mesi l’anno, la salsedine che imbiondisce le ciglia e le barbe. Sono tutti eleganti, come dovessero festeggiare il sole, l’estate, la vita. Una grande messa laica in cui quei sandali poco potevano centrare.

Un boato, il traghetto delle dieci, aveva svegliato il gatto, che pigramente aveva alzato il muso. Stirandosi sul gradino si era messo, incuriosito, a guardare i sandali.

Emilie si accese una sigaretta, osservando il gatto.

Forse avrebbe potuto andare al mare, a passeggiare verso il porto, o a bere un caffè in uno dei bar davanti alle spiagge.

Il gatto era sceso dal gradino, avvicinandosi ai sandali.

La palma non proteggeva più dal sole, che adesso con un caldo potente, aveva inondato quell’angolo di piscina.

Era ora di fare qualcosa, anche solo di alzarsi.

Emilie si alzò, premendo le mani sul marmo, pigramente.

Fu allora che il gatto fece uno scatto, prendendo in bocca il sandalo sinistro e scappando fuori, verso il mare.

Emilie rimase in piedi, ferma.

Il vecchio portiere dell’albergo uscì di corsa urlando in dialetto. Il gatto, probabilmente, era già arrivato al mare, o chissà dove, e sicuramente un vecchio sudato e sovrappeso non lo avrebbe potuto raggiungere.

Emilie sorrise, restando ferma.

Poco dopo il portiere tornò, ancora più sudato.

– è quel dannato gatto, signora. Le chiedo scusa.

Emilie non sapeva cosa dire.

– viene solo nei giorni di Levante, credo venga dalle case alte. Li danno da mangiare ai gatti. Idioti.

Emilie non sapeva davvero cosa dire. Guardava il sandalo destro, solitario, per terra. Non sapeva più di nessun ricordo, quel sandalo. Aveva perso l’Africa, il passato, era solo un sandalo rovinato.

– è per via del passero. Conosce la leggenda del passero signora?

– no, non la conosco.

– è la storia più famosa della nostra isola, mi permetta di raccontarla, si sieda.

– le posso chiedere un caffè, prima?

– certo, le porto anche delle ciabatte, così può scendere in paese a comprare delle scarpe nuove.

E fu così che Emilie cancelló dalla sua vita un pezzo di passato e anche la noia.

Per via del Passero.

vicessitudini

Hugo, Valentina e Bob. Sul molo, al tramonto. Caldo umido, gente che passeggia, vestiti, camicie, scarpe eleganti, Valentina che spiega la sua idea dei sentimenti e delle emozioni. Il cuore pensato come una stanza, che deve rimanere vuota, da osservare. Hugo si alza, per prendere del vino. Fanno un vino strano, sulle colline sopra al mare. Un bianco forte e fruttato. Lo bevono tutti, qui. I vecchi ci accompagnano le partite di carte, all’ombra dei tendoni dei caffè nei vicoli del centro. I ragazzi lo bevono alle feste, freddo ghiacciato. I signori lo offrono alle signore, nei ristoranti davanti al porto. Torna con tre bicchieri, e un piccolo sacchetto di carta pieno di pane ripieno di acciughe. Il cuore di Valentina è ancora lì, descritto nei minimi dettagli. L’idea dell’amore, secondo Valentina, è questa stanza vuota. Bevono vino, facendo delle pause. Valentina fa delle pause, perchè gli altri due ascoltano in silenzio, bevendo. L’idea dell’amore come una stanza vuota è molto strana. I vuoti, in genere, spaventano. Le stanze sono vuote se nessuno le abita. Bob ha una casa molto piccola, sulla prima strada che si allontana dalla costa. Due stanze, piene zeppe di roba, e una piccola cucina, piccolissima. Immaginare stanze vuote è difficile.

Hugo raccoglie sassi e legni da quando era bambino. Ha un soggiorno con due grandi difetti. Il pavimento rialzato dall’umidità. Il legno piegato dall’aria di mare che entra. E i sassi appoggiati per terra, una cornice di un quadro di disordine. Immaginare stanze vuote è impossibile.

Le stanze, i cuori, nella mente di Valentina, sono luoghi di passaggio. Dove sedersi, se invitati, e poi lasciare spazio a qualcosa di nuovo.

E’ finito il vino. Un momento di silenzio. Nessuno dei tre vuole allontanarsi dal molo. Come se la paura del vuoto, delle stanze vuote, fosse troppo grande e reale. Come se questa cosa delle stanze vuote fosse vera. Ma solo allontanandosi dal molo. Come se il molo, con le barche che beccheggiano pigramente nell’acqua unta del porto, fosse l’unico luogo salvo, dove non pensare al cuore e alle sue stanze.

E’ impossibile immaginare il cuore come una stanza vuota, perchè qualcosa, chi è passato prima, ha lasciato per forza.

E’ impossibile pensare di non aver lasciato niente, passando in un cuore.

Fa impressione pensarlo.

Ma in fondo, il più delle volte, dovrebbe essere così davvero.

Passare, fermarsi, ma non lasciare nulla.

 

Stronzate

Le autostrade vuote mi fanno sentire, brevi istanti, padrone. A spiegarlo si riduce a un sussulto dell’anima, una sensazione, ma a viverlo assomiglia molto a brevissimi attimi di insperata felicità. Corsie deserte, sole, panorami semplici, pianure, sfondi di colline, testa vuota, il tentativo di provare a superare il limite, accorgersi di non avere limiti, ma solo paura dei limiti.

Una stronzata, questa delle autostrade vuote, ma a volte mi capita. Andavo a Torino, qualche estate fa, Cosmo nella radio, la pianura padana di agosto come sfondo, io da solo. Andavo a provare a me stesso di non essere capace di amare una donna.

Anche questa una stronzata. L’amavo eccome. L’amavo come sapevo fare io. Un mezzo disastro. Ho la certezza che sia stata la cosa migliore, amarla così. Anche se, ma questo mi succede con tutte le donne, mi viene da chiederle scusa. Adesso, prendere il telefono, chiamare e dire: scusa, cazzo. Amo davvero male. Ma amo tantissimo. Ho amato pochissime donne, e tutte diverse. Nessuna assomigliava a mia madre, per dire. Che un debole d’emozione come me, di solito, cerca sua madre nei riflessi delle donne che incontra. Invece niente.

Stronzata, questa di inseguire un ricordo. E’ passato. Ha lasciato qualcosa, poi il resto conta pochissimo.

Facevo il conto alla rovescia, per arrivare ai quarant’anni. Mi sembrava un traguardo. E poi, come un bambino, mi sono reso conto che non è cambiato niente. Ne in meglio ne in peggio. Mi faceva comodo, forse, di fare questo disastroso conto alla rovescia. Per avere una soglia, un traguardo, un fine ultimo. Una stronzata.

Madornale.

Stamattina sono salito in moto, faceva un caldo infernale. Mi sono trovato su una autostrada deserta, con l’aria bollente che mi entrava nel casco e nella giacca, il rumore sordo dei duemilacinquecento giri, il beccheggiare dell’avantreno, che diosanto non si può mai rilassarsi.

Andavo forte.

Poi mi sono reso conto di non averne nessun bisogno. E ho rallentato. Novanta, cento. Ho iniziato a respirare, a guardarmi intorno. A viaggiare dentro quel rumore di motore, gli odori della campagna, il caldo.

E a ripensare alle stronzate.

Niente di terapeutico. Mi venivano in mente, partendo dall’autostrada vuota, tutte le cazzate di cui mi sono convinto, tutte le stronzate che ho fatto. Andavo verso il Ponente, verso le alpi marittime, verso l’odore di lavanda e rosmarino. Verso posti che mi fanno sempre bene. Ci andavo in moto, perchè così ho sempre fatto.

Altra stronzata.

Ecco cosa è successo, con i quarantanni. Mi sono reso conto di tutte le stronzate. Muri, alti, spessi, dietro cui mi nascondevo, mi nascondo. Muri che ho costruito con ricordi e fallimenti.

Sto bene al mare, perchè il mare mi fa pensare al presente.

 

Umido


-Alla fine siamo solo invecchiati.

-Pensavo peggio.

-Io pensavo che sarebbe stata più facile.

-In che senso?

-Nel senso che quando inizi una cosa, tra l’entusiasmo e l’ignoranza, nel senso di non conoscenza, ti sembra sempre molto più semplice di quanto poi si riveli essere.

-Tipo?

-Tipo la vita, cazzo. La vita, da bambino, ti sembra una passeggiata. Poi cresci, e ti viene l’idea che sia una corsa. Una di quelle da campionati studenteschi. Buono scatto e tanto fiato, e via. Poi cresci ancora, e capisci che si tratta di una maratona. E tu non sei nato in Kenia. Che almeno parti avvantaggiato sulle maratone.

-Invecchiando diventi pessimista, in pratica…

-Invecchiando diventi realista, direi. Il positivo del bambino, vicino al negativo dell’adulto danno una specie di neutro. Sei cresciuto davvero quando capisci che il vero colpaccio lo fai quando stai nel mezzo.

-Ma tu sei più felice o più triste di questi ultimi quarant’anni?

-Più meglio. Ne felice ne triste. Solo più consapevole, più sereno, più meglio.

-Più meglio. Arrivi a quaranta, la gente ti chiede: oh come stai? E tu rispondi: più meglio!

-Nessuno ti chiede come stai. E’ una roba che ci si chiede appena conosciuti, o nei primi giorni. Come stai? Saranno due anni che non me lo chiede nessuno. Avrei comunque risposto più meglio. Mi piace come risposta.

-A me piace l’idea di non avere rimpianti. E’ una roba molto adolescenziale, ma è una delle mie fortune. Ho cicatrici e non rimpianti.

-E una frase pronta per la Smemoranda di tua figlia.

-Sulla mia Smemoranda mi piacerebbe solo scrivere che pensavo di fare la rivoluzione e invece finisco a guardare i video di un cuoco giapponese che insegna a cucinare i gamberi in tempura.

-Roba tosta.

-Si, il segreto è nella fioritura. Devi versare un po’ di pastella nella pentola intorno ai gamberi mentre friggono.

-Roba tosta, mancare una rivoluzione, dicevo.

-Ne ho fatte così tante nella mia vita, che penso possano bastare. Anzi ti dirò un segreto. Sono i sogni con cui mi addormento la notte, le rivoluzioni che ho fatto. Le fughe, le crisi, i drammi e le rivincite. Le mie rivoluzioni. Come fossero medaglie, le accarezzo di notte, prima che la schiena smetta di farmi male, quando il cuscino si scalda.

-Siamo vivi, cazzo.

-Siamo vivi davvero.

-Pensavo di trovare un maggio più caldo.

-Io meno umido.

-Come arrivi ai quaranta?

-Umido, cazzo.


 

Japan Wind

Già dai primi tornanti, quelli a scendere, svalicare, anche se svalicare non esiste, è come se mi sentissi meno bisognoso di difendermi, più aperto a lasciarmi andare, mi si regola il respiro, mi si ricompone l’anima. Che poi è il motivo per cui spesso sono venuto.

Genova per me è più di una città, ed è così da anni. Almeno una ventina. Sono un bandito delle valli, un pellegrino delle spiagge, quasi mai turista, quasi sempre a piedi nudi, a volte solo, accompagnato da musica e libri, magari da una donna, ultimamente da un figlio. La Liguria è la madre che ho perso troppo presto, che torno a trovare per presentare il conto della vita. Credo si faccia così con le madri. Non lo saprei spiegare, perché è morta proprio quando avrei iniziato volentieri a farlo.

Genova e il suo Levante, quella lingua di terra bella da fare passo dopo passo, sono la madre a cui racconto le cose che non capisco.

Come si racconta a una città, la vita, se non camminandoci dentro, attraversandola, imparando a conoscerla meglio di chi ci vive, tornandoci senza ragioni, passando del tempo?

Io racconto le mie delusioni a un pezzo di mare.

Sono arrivato stamattina, con un Libeccio forte e fastidioso, e nubi dense e basse, il cielo d’inverno, il mare increspato, disordinato, la passeggiata vuota, le finestre delle case sul mare chiuse. Una luce grigia, fino alle montagne.

E disordinato, grigio, ero anche io.

Questo osservare mio padre affrontare la malattia e la paura, cedere e riportarsi in ordine, cercare riti e testimonianze per avere forza, quella che manca ogni giorno di più, mi ha sconfitto.

Caduto al tappeto, mi rialzo di sicuro. È un pugno forte e diretto, quello che da figlio di tuo padre ti trasforma in padre di tuo padre. Lo incassi, e quasi naturalmente, un movimento non controllabile, cerchi tua madre. Consolazione, cerchi consolazione.

Nel viaggio degli anni, ho sconfitto la paura, la solitudine, il fallimento.

Madre, consolami, urlano i miei occhi, dentro corridoi di ospedale, un non luogo assurdo.

Cumuli di memoria, come nuvole, agitati dal vento che non si arrende.

Ho una donna che mi dipinge l’interno, imbianca l’anima, lentamente, operaia di un amore che non saprebbe descrivere, che ha avuto una grande intuizione.

Portarmi nell’unico posto che mi consola.

Come una madre, Genova e il suo Levante.