la fine del mondo (spiegazioni plausibili)

Talvolta ho l’impressione di vivere assieme a un ammasso di persone lievemente idiote. Poi, gironzolando per la vita, mi rendo conto di poter tranquillamente rimuovere "lievemente".  Uno dei criteri massimi per definire la stupidità di un uomo sta nell’osservare attentamente, bastano alcuni istanti, quanto il soggetto in questione si prenda sul serio. Prendersi sul serio è evidente sintomo di una rigogliosa forma di idiozia oltre che la porta spalancata sull’universo delle figure di merda. Essendo questi giorni i primi dell’anno, secondo il calendario gregoriano in vigore in buona parte del mondo occidentale e in numerose isole remote, è abitudine diffusa la consultazione degli oroscopi. Valutare il proprio destino in base alle impostazioni delle stelle è un po’ come affidare la scelta della propria dieta alla caduta dell’acqua nello sciaquone. Acqua che cade decisa, dieta a base di carboidrati. Acqua che si lascia desiderare e che poi cade distrattamente, assolutamente necessario integrare con delle fibre. Lo faresti mai? Come forse, a ben vedere, non cercheresti di autodeprimerti solo perchè un ammasso di idrogeno, elio, silicio, nichel, carbonio e ossigeno (in verità la composizione di una stella è assai più complessa, ma dopo anni di Super Quark il pressapochismo generalista ti soddisfa) si sta spostando nel cielo in una direzione anomala. Tant’è, ma non è certo da un catto comunista affermato e felice come il sottoscritto che può partire una voce critica. Che ognuno creda in cio che preferisce. Che siano palle di elio e altri elementi, che siano uomini, che siano donne, che siano canzoni. Ecco, l’unica grande divergenza, argomento principe di una certa schiera di trasmissioni di spessore come Misteri e Voyager, è su come finirà tutto. Su come il mondo finirà. Non riesco a resistere, mi sto informando il più possibile. Anche per ponderare gli acquisti futuri in base alla solida possibilità che si rivelino inutili. Nel senso che, comprare oggi un’auto elettrica, per favorire la vita del pianeta a beneficio di figli e nipoti, non ha molta logica se poi il 20 -12- 2012 una grande palla di fuoco si scaglia sul parcheggio, sulla sede dell’assicurazione, sulla città e in verità su tutto il mondo. Molto meglio continuare a girare con la splendida euro 0, che farà anche tanto male alla terra, ma tanto dopo quarant’anni di maranza che sgasano con l’Alfetta, due anni di giretti fuori porta non cambiano di molto. Sicchè, i Maya, questo popolo ingegnoso ed estremamente evoluto, dicono che tutto finirà in un pomeriggio di dicembre. Che spesso anche qui a Milano sembra la stessa cosa. Ma poi ce ne facciamo una ragione e un altro nebbioso giorno arriva a deliziarci. Tra le invenzioni del popolo Maya ricordiamo il veicolo a tre ruote con cui si muovevano tra Guatemala e Ciapas per approvvigionarsi di uova per la loro famosa salsa, la May O Nese. Il veicolo, poi riscoperto anche ai giorni nostri, è stato battezzato l’Ape Maya.  Anche Nostradamus, controverso personaggio nato per deliziare le fantasie di milioni di paranoici, dice che tutto finirà. Qui si portano misteriosi disegni a prova di una (ennesima) profezia, in cui il saggio paventa sfighe cosmiche per tutta la superficie calpestabile del mondo tranne che per l’hinterland Milanese, che dopo secoli di vita passata all’inferno, verrà risparmiato. Poi ci sono i (molto) meno attendibili santoni. Per tutti, più o meno, la fine del mondo arriva a breve. La cosa che più mi affascina è la struttura narrativa che correda queste tremende michiate. C’è una storia, più o meno credibile, un’ingorgo di colpi di scena, tradizioni e grossi casini cosmici, a testimoniare che l’eletto ha in mano la verità. Più ragionevole la teoria per cui, tra circa cinque miliardi di anni, il sole si spegnerà, come una lampadina dell’Ikea, lentamente, per lasciarci tutti al buio. Non credo che la cosa possa riguardarmi direttamente. Possibile che non ci siano modi più ragionevoli per predirre la fine del mondo? Ad esempio, sottoponendo un’intera città all’ascolto di un album di Federico Zampaglione può portare al coma generale, questo credo che se non direttamente dimostrabile sia intuibile. E’ anche credibile che le nuove vetture della Citroen, diciamo quelle prodotte dopo il 2000, figlie di designer ubriachi, si ribellino all’incredibile bruttezza di cui sono figlie, e prendano dominio del mondo uccidendo prima tutti i francesi, poi gli italiani che festeggiavano e poi tutto il mondo. Teoria ragionevole anche quella della Fine del Mondo al GF. Seguendo la teoria per la quale ad ogni edizione i concorrenti del Grande Fratello raddoppiano si piò stimare che per il 2120 la pro pro nipote della Marcuzzi porti all’edizione italiana gli ultimi cittadini rimasti non ancora andati in onda. Da qui una terribile guerra, capitanata dal nipote di Alessandro del GF 14, alleato con Jordi del GF 121 e le sue temibili truppe di checche isteriche. Morte e devastazione. Va bene lo scoglimento dei ghiacci, ma perchè non considerare la fine della reperibilità della carbonella. Milioni di latinos, armati di punzoni da griglia, che uccidono altri uomini per ricavare carbone dalla loro lenta decomposizione.

Andrò avanti nella ricerca, questo post non è certo finito qui. Saprò di sicuro quando finirà il mondo alla fine dei miei studi, anche se ricordo momenti in cui, guardando il cielo, pensavo che tutto sarebbe potuto anche finire lì. Momenti in cui, davvero, della grande palla infuocata non me ne sarebbe fottuto più di tanto. E’ per questi momenti che una vita andrebbe vissuta. Anche solo fino al 2012.

 

Janet, Naked e altri risvolti del capodanno

Nella titanica impresa di razzolare tutta la frutta secca disponibile sul pianeta, mia nonna, per ogni 31 dicembre che ha passato, girava con il grembiule a fiori pieno di noci e nocciole. Armata di schiaccianoci fin dall’alba, ruminava allegramente per la casa, pulendo e preparando per il grande cenone i cui invitati, io e lei, si rendevano disponibili fin dalle sette in punto. Al cenone era assolutamente vietato ricordare alla nonna del suo diabete e della straordinaria sfida che intraprendeva ogni volta che si sedeva a tavola. Mia nonna ha reso la curva glicemica una pura teoria da dilettanti, divorando per anni tutto il campionario del Mulino Bianco e succhiando avidamente due caramelle alla volta. Solo nell’ultimo periodo, il tramonto deciso e rapido, quello costellato di badanti ucraine, russe e moldave, gli zuccheri in tutte le forme commestibili erano nascosti in credenze e armadietti non raggiungibili da una arzilla signora di ottanta e passa anni con i femori di pastafrolla. Per questo, ogni volta che andavo a trovarla, le davo clandestinamente una decina di caramelle che finivano nel reggipetto, tra la tetta destra e l’ascella. Tornando al capodanno, al cenone di gala era anche vietata l’assunzione di qualsivoglia bevanda liquida se non tramite risucchio. Il risucchio doveva essere tanto abbondante quanto il gradimento per la bevanda stessa. Così per un bicchiere d’acqua bastava un risucchio semplice e deciso mentre per il Moscato Dolce si imponeva un risucchio forte e continuato. Noi abituee della Corrida di Corrado, il capodanno lo festeggiavamo verso le 22, con l’inesorabile caduta della nonna in un sonno profondo esattamente sopra il telecomando. Ero così forzato alla visione ininterrotta del capodanno Rai. Non ho indagato ma credo siano previsti dei rimborsi per questo genere di violenze domestiche. Solo allo scoppio dei primi botti per strada un sussulto della nonna mi permetteva di rapinare il telecomando, ma ormai era troppo tardi. Il sonno aveva la meglio. Erano gli anni in cui ero troppo grande per stare buono e zitto in un passeggino al seguito dei miei genitori e troppo piccolo per stare con le mie sorelle, alquanto impegnate nel capodanno anni 80, quello in cui bisognava presentarsi con pettinature e abiti ridicoli e dire cose come "sfitinzia e galletto". La vita ricominciava alla mattina del primo gennaio, con l’autobus che faceva il giro veloce della circonvallazione, solcando la Milano deserta post bagordi. Non c’era bisogno di una via per Craxi perchè c’era direttamente Craxi e Berlusconi non aveva ancora scoperto la chirurgia estetica e quindi sembrava più vecchio di oggi. In compenso c’era una diffusa e infondata idea di benessere e ricchezza, per cui ci si poteva fermare a fare colazione con le paste calde. Io, mia nonna e gli ultimi reduci del festeggiamento. Un corteo di rutti alcoolici salutava il nostro ingresso in pasticceria. Il resto del viaggio lo passavo a togliere lo zucchero a velo dal vestito della nonna stando attento a non intaccare il duro strato di cipria che rendeva il petto lucido e uniforme. Erano gli anni in cui al 31 dicembre chiudevi i conti con il tuo anno e al primo gennaio riaprivi bottega sereno e felice. Crescendo riesci a farti un’idea più dettagliata sia del diabete sia della vita e non trovi più problemi che scompaiono con i botti. Adesso sei tu quello in coda in pasticceria, con l’alito demolitore e l’occhio talmente pesante da sfiorare il ginocchio. Durante le vacanze di natale non hai i compiti, ma tendi a trovarteli in ogni caso. Cerchi disperatamente di mettere ordine, fuori e dentro, con il risultato di buttare fuori tutto quello che hai dentro.

Oggi ho messo a posto la libreria, senza fare sostanzialmente nulla se non spostare Carver vicino a Buckowsky, allungare il posto per Pennac, trovare uno spazio per la Vargas e per Sedaris e perdermi nei ricordi. Ogni libro ha la sua storia su carta e la sua storia intorno. Quello che succedeva intorno al libro lo sappiamo solo io e il libro. Per questo ammiccavo a Neruda, che era lì quella notte di fuoco passata a tentare di fare l’amore ovunque. E poi ridevo davanti a Seneca, usato come posacenere durante un tentato abuso di ogni cosa fumabile al mondo. Osservando le storie intorno ai miei libri mi sono trovato felice di avere ancora un sacco di spazio per altri libri e altre storie intorno.

Come tutti gli anni pari, anche questo 2010 servirà a rimediare i grandi danni dell’anno dispari che lo ha preceduto e come il saggio Checcuzzo ha scritto: peggio del 2009 non si può quindi sarà un buon 2010.

 

Attualità di un certo spessore

Oggi ero in palestra. L’ultima volta che sono andato in una palestra dovevo essere davvero grasso e stupido per poter pensare che un non luogo così non luogo potesse risolvere i miei problemi sociali. In effetti non ricordo la causa scatenante del mio amore per la palestra, ma ricordo di essere stato terrorizzato dal mio ortopedico circa un tendine rotuleo appeso a malapena alle mie ossa. Ricordo termini come ginnastica isometrica e altre volgarità. In ogni caso, ubbidiente e sottomesso avevo fatto uno splendido abbonamento semestrale in una palestra per andare su e giù con una macchina, correre contro uno specchio e sollevare pesi davanti a una porta anti incendio. Oggi ero in palestra perchè è lì che il mio fisioterapista opera. Il mio fisioterapista è diventato il "mio" fisioterapista perchè la "mia" assicurazione lo paga per verificare che le mie ossa siano simmetriche rispetto a un’idea di ossa simmetriche compilata da un fisioterapista diversi anni fa. Insomma, oggi ero in palestra perchè mi fa male da morire la spalla. Il mio ortopedico ha tirato fuori termini come cuffia dei rotatori, lussazione, spalla, operiamo. E io, ubbidiente e sottomesso, sono andato dal fisioterapista. In palestra. Ho dovuto aspettare parecchio, perchè il mio fisioterapista teneva un corso a diverse carampane grasse e vestite in modo tragicamente aderente. Stavano sdraiate per terra, lo sguardo perso sul soffitto, le gambe alzate e il viso terribilmente contratto. Lui, con le mani dietro la schiena, contava alla rovescia. Paghi perchè uno conti i secondi che ti separano dalla morte per spasmo. Ma sei carampana, e hai diritto di farlo. Un po’ come le balene che fanno acquagym nella prima corsia in piscina, pedalando con una bicicletta sott’acqua, al ritmo di canzoni da discoteca anni 90. Sono scelte. Mente aspettavo il mio fisioterapista, seduto, ubbidiente e sottomesso, guardavo l’indaffaratissima ragazza alla reception gestire un incredibile via vai di persone. La palestra deve essere una cosa tremendamente figa, per avere tutta questa affluenza. Per dire, se vai in chiesa, alla stessa ora, trovi sicuramente meno di un quinto delle persone che trovi in palestra. Forse perchè in chiesa non ti forzano a tenere contratti gli addominali sdraiato sul parquet. Forse dovrebbero mettere dei pesi vicino agli altarini votivi. E se le suore contassero alla rovescia mentre tu stai sdraiato sotto una panca con sette vecchiette sedute sopra? Forse sarebbe piena, la chiesa, come una palestra. Chi lo potrà mai dire. Di contro, in chiesa non c’è questo scambio massiccio di sguardi languidi tra uomini e donne, ma anche tra uomini e uomini, e tra donne e donne. Fondamentalmente l’esercizio fisico inteso come una corsa contro uno specchio, o anche una bella biciclettata davanti a una parete bianca, è mirato a rendere più appetibile il corpo che abiti per una eventuale riproduzione sessuale. In fondo, da quando non devi più cacciare i conigli armato di amigdala, ma ti è sufficiente gironzolare con un carrello tra gli scaffali infiniti, l’inesorabile inspessimento delle tue membra ti porta ad essere meno appetibile per un atto riproduttivo. Il fatto è che qui, inteso come in palestra, si confonde il mezzo con il fine. Difatti, non basta vestire ridicole tute aderenti per essere sessualmente più appetibili. Quindi in linea teorica, non dovresti tentare di riprodurti anche in palestra. In palestra dovresti tentare di dimagrire. Per poi tentare di riprodurti. Comprendo che la frenetica vita moderna restringe fortemente i tempi morti nei quali riprodursi, quindi è bene tentare di riprodursi ovunque, ma rimango molto perplesso sulla funzione psicologica della palestra. Inoltre mi permetto di segnalare che correre contro un muro o contro un televisore è un brutto sintomo. Come per altro pedalare come forsennati rimanendo fermi dentro una stanza senza finestre. Forse quando andavo in palestra, in fondo, lo facevo per riprodurmi. Oppure per avere tendini rotulei più robusti, tali da supportare eventuali atti riproduttivi in pose poco anatomiche. Che so, magari necessiterò del mio tendine sinistro per riprodurmi appeso a una finestra, oppure mentre salto da una striscia pedonale all’altra, evitando il pericoloso asfalto nero.

Mentre poi il mio fisioterapista si convinceva dell’esistenza fisica della mia schiena, provando in diversi modi e con diverse tecniche a distruggerla, pensavo a Berlusconi. Pensare a Berlusconi, oggi, non dovrebbe essere ancora reato. Memore delle ultime minacce ricevute da qualche lettore molto arrabbiato per quello che quivi viene scritto, e conscio del fatto che è altamente inopportuno morire per un opinione su un uomo e il suo operato drammatico, lascio che la storia condanni da se il gesto violento e l’uomo politico allo stesso tempo. Come con il buon vino, occorrerà tempo, ce lo diciamo dal 94, ma poi la storia dirà la sua verità, la vita farà il suo corso e tutto questo finirà.

Grandi domande filosofiche abitavano la mia mente, mentre il mio corpo veniva devastato alla ricerca della Cuffia dei Rotatori. Cercare la cuffia dei rotatori pressandomi il colon non è sicuramente una pratica ortodossa, ma di fondo quando l’assicurazione saprà di dovermi un colon nuovo, saranno loro a giudicare l’operato di questo buffo uomo grasso e sudato che mi alita sul collo e mi infila il pollice ovunque trovi tessuti molli. Bisogna avere fiducia nell’operato di persone competenti. In fondo, se ha studiato che per arrivare alla spalla è saggio partire dalla caviglia, girandola come una vecchia chiave in una serratura arrugginita, buon per lui. Fidarsi dell’operato di una persona permette, alla fine, di giudicarlo ed eventualmente ritenerlo inadeguato. Ritenerlo inadeguato suppone che si possa reperire una persona più adeguata, preparata e intelligente per ricoprire quella funzione. Alla fine, insomma, senza lanciare statuette del duomo in faccia al mio fisioterapista, posso lasciarlo per trovarne uno meno innamorato del mio colon. E il mio fisioterapista, senza armarsi di pompose scorte, potrebbe accettare il fatto di essere inadeguato. Anche per il semplice fatto che sempre meno gente sarebbe disposta a una penetrazione nel colon per un dolore al naso o alla spalla. E lui, sudato e grasso, davanti all’evidenza del fallimento, sarebbe costretto a fare altro o ad impegnarsi a fare meglio il suo. Senza lanci di statuette. Questo, per lo meno dovrebbe accadere in un mondo normale.
Un mondo dove grassi individui sudati non guardano languidamente giantesche culone attillate mentre lavorano sui quadricipiti ansimando e contorcendo la faccia. Questo dovrebbe succedere in un mondo dove la gente corre verso qualcosa, non contro uno specchio.

Inizieremo a preoccuparci quando i cinici cominceranno a crederci

Due premesse, brevi ma necessarie. Scrivo dopo essermi destreggiato dentro un menu in catalano per scegliere la mia cena, accompagnata da del buon vino bianco fruttato. La seconda premessa è ben più importante. Il post che segue è di utilità sociale altissima, talmente alta che mi riprometto di rileggerlo per offrire qualcosa di risolutivo, concreto, drammaticamente reale. Un post che eliminerà la sottile differenza tra questo blog e i blog più tristi dell’etere. Un post integralmente scritto su Text Document, quindi privo di ogni poesia visiva anche per chi lo sta scrivendo. Si tratta di definire le cose fondamentali per un natale felice, le cose da evitare assolutamente durante le feste e i regali più azzeccati. Alla fine, ne uscirete felici e molto migliorati. Potrebbe non essere del tutto vero, ma mi avvalgo della teoria usata da Feltri, per cui è possibile sparare cazzate tremende senza nessun fondamento per poi tornare sui propri passi con discrezione in un paio di mesi. Ma un paio di mesi dopo Natale, sarà troppo tardi per voi.

Un Perfetto Natale
Partiamo dagli elementi base per un natale perfetto: l’albero, il presepe, i festoni e l’aria soddisfatta ed ebete nello scorgere della magia nel vostro soggiorno. L’albero è fondamentale. Tassativamente sintetico. Che si fottano gli ecologisti, ma sintetico è davvero meglio: è molto più trash, garantisce un senso decadente, è imperfetto, ridicolo, insomma un must. Cosa appendere all’albero è importantissimo: ci deve essere appesa tutta la vostra vita. I viaggi, il lavoro, gli amici, l’amore e l’odio. Un riassunto silvestre dell’anno. Foto, ritagli di giornale, biglietti da visita, oggetti, strumenti e quant’altro, ma evitando tassativamente le palle, così impersonali, così Ikea, così famiglia perfetta che si capisce lontano un kilometro che non centrano nulla con voi. Il presepe è questione altrettanto fondamentale. Nonostante voi siate leghisti atei, imbarazzati dal senso religioso del natale, il presepe non può mancare. Il più tradizionale possibile. Quello con le statuine in pose spastiche, quasi doloranti. La donna con il secchio, il pastore con la zampogna, il fabbro che batte e ovviamente la Compagnia della Capannina, non intesa come Briatore e Puttane varie bensì come Bue&Asinello&SacraFamiglia. Meglio se il Gesù di plastica si stacca dalla mangiatoia, perchè il senso del presepe è mettere il Gesù di plastica nella mangiatoia la sera del 24. Evitate di comprare il presepe da fondazioni onlus, missioni africane e altri esotici enti che propinano ambientazioni funky. Il presepe deve essere tradizionalissimo.  Fondamentali sono anche i sempreverdi boa luccicanti appesi intorno alla porta. Innanzi tutto danno al portiere un ottimo motivo per odiarvi, perdendo continuamente micro fili luccicanti che cadono negli angoli delle scale, e poi fanno tanto Ferrero Rocher. E qui scatta l’elemento principe del natale medio, il Ferrero Rocher, in piramidi, lastre placcate d’oro, sfere, cubi e qualsiasi forma geometrica. D’estate il Grand Soleil, a natale il cioccolato con la mandorla. Produttore di enormi foruncoli, perseverante elemento di debolezza, tentazione e riempimento di lacune affettive. Il Ferrero Rocher non deve mancare perchè aiuta a sopperire alla delusione emotiva data dall’apertura dei regali e alla solitudine mentale della sera del 26, 27, 28 e 29. Notti nelle quali, ecco un altro must, è indispensabile armarsi di ricarica per cellulari da almeno 50 euro o anche ChristMas Card, per tempestare gli amici single e le amiche single con messaggi d’autore. Ricercati, decisi, e molto generici, vanno sicuramente a segno, essendo le sere dal 26 al 29, quelle in cui un single medio si sente talmente solo da potersi riprodurre anche con un animale domestico pur di ricevere qualche forma di affetto. Qui si spara sulla Croce Rossa, quindi cercate di armarvi di una ricarica sufficiente anche alle risposte e alle risposte delle risposte (il single in carenza affettiva ha bisogno di conferme. Non sarete voi il prossimo stronzo, non sarete voi a metterlo nel culo un’altra volta, non sarete voi l’ennesimo pazzo mitomane. Poi, sappiamo bene, che lo sarete. Ma il fine giustifica gli sms mendaci).  Altro must è l’irreperibilità, con ricercatezza, ma anche con fermezza. Irreperibilità che segna la differenza con l’uomo medio, che risponde a tutti i messaggi e a tutte le telefonate. Irreperibilità che consacra le feste. Spegnere il cellulare, abbandonare il cordless dentro la lavatrice, nascondere il portatile, evitare con fermezza i bar conosciuti. Premurandosi di sottolineare che, si, non partirete, ma avrete da fare. Fa così chic che è davvero irrinunciabile.  Altro elemento fondamentale del natale è la spesa d’emergenza. Dopo aver passato due giorni in coda al super mercato, con il carrello straripante di oscenità alimentari e costose bottiglie di solfiti e acqua, dovrete rimettere mano al portafoglio e produrvi nella spesa d’emergenza: una bottiglia di passito, da tenere in fresco, una bottiglia di bollicine, un cd adeguato, del cioccolato, una marmellata tipica, due vaschette di gelato e un paio di torte pronte. Quelle in busta, che basta non leggere gli ingredienti per essere felici. Frutta secca e tanti dolci tipici di cooperative sconosciute ma tanto trendy.  Elementi fondamentali per attuare, in tutta la sua possenza, l’ospitalità invadente tipica di questo periodo. Quella per cui, durante tutto il resto dell’anno, non ti sogneresti nemmeno di comprare una zucchina in più e gli ospiti a sorpresa finiscono a pizza d’asporto e birra in lattina, ma durante le feste tutto cambia, seguendo ancestrali istinti d’esternazione del ceto sociale, misurato in base alla larghezza del vassoio della frutta secca moltiplicata per la gradazione del vino offerto. Ci sono poi alcuni elementi portanti dell’intimità natalizia che vanno considerati per affrontare il periodo con la giusta carica. In primis occorre una profonda rivisitazione estetica. Niente di rivoluzionario, un semplice riordino generale, tale e quale a quello che tentate di fare a casa armeggiando con il mocio e l’aspirapolvere. Passate con attenzione il guardaroba, evitando di arrivare alla vigilia con il solito dilemma tra troppo elegante e ridicolo. Preparare il fisico, o per lo meno il suo involucro esterno, serve. In ultimo, abbandonatevi alle tradizioni. Che siano le più osservanti, con tanto di messa della vigilia, bacio al presepe, saluto al parroco e strette di mano alle vecchie amiche della nonna sul sagrato della chiesa; oppure che siano le più atee possibili, con cenone della vigilia, richiamo a pranzo, tombolata nel pomeriggio, brindisi della sera e tutto il resto. Insomma, non abbandonate le tradizioni con cui siete cresciuti, perchè in fondo sono un pezzo importante del natale. Anche la paranoia lipidica del 26, con lo sguardo deluso nello specchio e i conseguenti buoni propositi, fanno parte del pacchetto. Fare buoni propositi e non mantenerli non ha mai fatto male a nessuno, fa parte del ridicolo impianto per cui dopo tre giorni di cibo ti senti grasso e senti il bisogno di rimediare, ma dopo anni di tubo catodico non senti di avere nessun problema e anzi, ti lasci sul divano in cerca di qualche cazzata.

Evitare è meglio

Ora, il capitolo delle cose da evitare sarà breve e pungente. In fondo, per uccidere il natale basta davvero poco. Il primo killer delle feste è quel cazzo di babbo natale appeso alle finestre. In tutte le sue forme, con scala, senza scala, con testa rivolta al pubblico, con gambe piegate, è la cosa più triste, orrenda e scontata che i cinesi abbiano mai prodotto. Da evitare assolutamente, e da rimuovere se possibile. In uno Stato normale, l’appendere babbo natale al balcone, finestra, cornicione, vetrina, sarebbe reato penale. Tolto questo, anche l’addobbo improprio di superfici non natalizie, come la macchina, il cane, i gerani morti sul balcone e il proprio corpo, è da evitare. Brutta malattia. Il cane con il ridicolo cappotto di natale, le mutande rosse di Intimissimi con il babbo natale sorridente, la macchina con la neve finta, il balcone con le luci lampeggianti, sono cose drammatiche. Esternazioni di povertà umana. Lasciamole al resto del popolo, noi che ci basta l’essere felici, noi che natale è un giorno come un altro, noi che la vita è bella anche senza lucine lampeggianti. Evitiamo anche la sindrome Sale&Pepe: quella per cui tutti hanno diritto ad improvvisarsi chef, e propinare immonde accozzaglie di cibo ad amici, parenti e amanti. Se non sai nemmeno bollire due uova, non sarà certo il natale a donarti il tocco per trasformare panna, salmone e fusilli in una pasta decente. Lascia davvero stare. Ci sono ottimi take away e grandiose gastronomie. A ognuno il suo mestiere. Altro mostro da combattere è l’assolo buonista. Quello che ti porta a comprare piccoli pensierini per amici di terzo, quarto o quinto grado, parenti lontani, ex fidanzate, colleghi e condomini. Meglio due sane strette di mano, con sorriso cordiale, che una candela rossa con i brillantini. D’altronde, se per 360 giorni l’anno te ne sbatti le palle del resto del mondo, inutile tentare di rimediare in cinque giorni a Natale. Strettamente connesso è il messaggio penoso, quello che scrivi, armato di buone intenzioni, a vecchi amici, ex colleghi, ex fidanzati. Cerchi le parole, senti il dovere di farlo. Ma per favore. Tieni i soldi per una sana caccia al single nel post festa. Chiudiamo la lista con la cosa più importante da evitare: il messaggio generalista. Che esso sia un sms con una catena di sant’Antonio, un messaggio in rima, una mail con auguri generici e gif animata con albero e stella cadente, lascia stare. Il tuo squallore umano si misura soprattutto con queste iniziative. Ti prego, piuttosto appendi un babbo natale al cornicione, addobba il tuo cane, insomma fai tutto il resto, ma non cadere nella tentazione ipercomunicativa. Lascia davvero stare. Come l’elenco minimo di ex, amanti e possibili conquiste. La tentazione è di rifarsi sentire. Ma non farlo! Piuttosto aspetta il 10 gennaio, data sterilizzata. Roba da accapponare la pelle. E infine, come ultimo, disperato suggerimento, non cercare il senso del natale nelle piccole, squallide, appendici umane come le mutande rosse, il cd con la compilation, lo smalto rosso, le calze rosse e tutto il resto. Evitare il peggio è possibile. Basta ricordarsi della propria dignità.

Cosa vorrei ricevere per natale

La lista dei possibili regali di natale, delle idee geniali, delle trovate molto cool, te la cerchi da qualche altra parte. Comprati Wired di questo mese. Anzi, per esempio, regalare l’abbonamento di Wired è un’ottima idea. Finalmente qualcosa davvero leggibile. Però occhio a non essere il quarto o il quinto con la stessa idea. Sarà un piacere per i ragazzi di Wired, ma non certo per il futuro nuovo abbonato. Un paio di copie al mese sono più che sufficienti. Insomma, gironzola per la rete, troverai soluzioni d’emergenza adatte alla tua povertà umana. Io vado per grandi temi: il primo: La Sorpresa. La Vera Sorpresa. Quanti anni sono che non riesci a stupire davvero, a sorprendere, a lasciare a bocca aperta, con un regalo? Impegna le tue meningi e cerca di sorprendere davvero. Quell’espressione a metà tra l’idiota e il paralizzato, vale la fatica. La sorpresa che avevi da bambino, quando non avevi un malloppo di natali con regali mediocri alle spalle. La sorpresa può essere ovunque. Anche in un bacio. Muoviti, organizzati, ci vuole forse molto meno che per un regalo triste e scontato. E poi Il Sogno. Qualcosa che faccia davvero Sognare. Un viaggio, un oggetto, uno strumento, una lettera, qualcosa che faccia davvero pensare al meglio, al sogno. Tutti vorrebbero sognare con un regalo, e anche un libro può far sognare. Anche un cd masterizzato (1,99 €). Poi il Desiderio Soddisfatto. Qualcosa che lasci davvero l’animo appagato. Che lasci la soddisfazione nello sguardo di chi lo riceve. Anche qui, l’oggetto conta poco. Capirai, che è necessario conoscere la persona per prodursi in un regalo che possa sorprendere, che lasci sognare, che dia soddisfazione. Per questo, fai regali solo alle persone che vorresti davvero con te. In fondo, tutto questo era per dire che mi sono sonoramente rotto i coglioni dei portafogli di pelle e dei maglioni a costine. Risparmiati i soldi e usali per far sognare qualcuno che ti piacerebbe veder sognare.

(questo post è in fase di continua evoluzione. Purtroppo, essendo finito il vino e la batteria del portatile, sono costretto a chiudere momentaneamente. Se sei capitato qui per parole chiave come: regali di natale, idee fantastiche per natale, sorpresine di natale, come stupire la propria donna a natale, regaloni di natale, modelli di abercrombie&fitch, depilazioni natalizie, unghie natale, natale in compagnia, tombola di natale, sesso di natale, bruno vespa si è piegato al potere, natale cristiano, natale nel mondo, regali intelligenti, potrebbe interessarti sapere che sono semplici chiavi di ricerca, per regalare più lettori a questo posto. Anche il Bradipo ha diritto al suo natale).

Uomini che odiano gli uomini

Oggi è giorno di liste. Elenchi mentali, post it scritti fittamente, documenti di word con bullets come se piovesse. Fare liste mi rilassa, mi da un senso di ordine apparente, mi appaga. Sento l’enorme elenco di cose fa fare incombere sulle mie spalle. Basta una brevissima lista mentale, in cui mettere in fila tutto, ordinare per priorità, completamente soggettive, per poi sentire che quasi metà del lavoro è fatto. A letto, nella penombra di piombo delle undici del mattino, guardavo la mensola con i libri ancora da leggere. Mettere in ordine cronologico le mie future letture mi fa sentire tremendamente meglio. Partiremo dal Lamento di Port Noy, passando dalla Vargas, per poi fermarsi su Tropper. Giro di boa con Zafon, allungo sulla Solitudine dei Numeri Primi (primo libro al mondo ad aver fatto più di cinquantamila kilometri in una valigia senza mai essere stato nemmeno aperto). Nella lista delle cose che odio di più, il malfunzionamento delle tecnologie amiche sale imperiosamente verso i vertici, aiutato dal fatto che il nuovo BlackBerry funziona a giorni alterni, creando periocolosi vuoti comunicativi e perdite continue di contatti in rubrica. In verità una lista, ancora incompiuta, galleggia nei miei pensieri da qualche settimana.

Mentre combattevo con i tergicristalli temporizzati, maledicendo l’ingegneria giapponese, molto forte in alcuni campi come la costruzione di inutili robot che portano immaginari cocktails, ma proprio negata nelle cose di ordinaria amministrazione come la regolazione di un tergicristallo, pensavo alla lista di persone che in fin dei conti hanno finito di dare il loro contributo al mondo. Uomini al giro di boa con la vita, grottesche metafore del non sapersi fermare per tempo.  Lista che, va detto, sembrerebbe infinita. Tanti sono gli uomini che continuano a dare grande spessore alle loro vite, tanti altri quelli che si sanno fermare per tempo, quando la loro vis mentale declina, tantissimi, troppi, quelli che continuano a molestare il mondo, forti di un passato che, potendo, li rinnegherebbe urlando.
Nella lista, altra doverosa premessa, vanno forzatamente solo coloro che hanno fatto qualcosa per il mondo. Un esempio fortemente geolocalizzato per capire cosa intendo è il Sindaco di Milano, LetiziaMoratti. Ella è in effetti in pieno declino, ma è pur vero che non ha mai fatto, per lo meno come Sindaco di Milano, nulla che vada ricordato (positivamente) dai posteri. Quindi, per lei e gli innumerevoli uomini e donne inutili che hanno sempre fatto cose inutili se non dannose per il mondo che li circonda, andrebbe creata un’altra lista.
Prendi Vasco. Vasco è stato fondamentale per la musica italiana. Esiste, netto, un prima di Vasco e un dopo Vasco. Vasco ha cambiato le regole, e le regole non sono mai riuscite a cambiare Vasco. E quindi, un indubbio Urrah per Vasco. Ieri. Perchè, cazzo, oggi proprio no. Quando passa per radio la cover (più che cover una libera interpretazione, o un tentativo di uccidere la musica) di Creep si sente un uomo alla fine. Io non ce la faccio proprio. Scendo di corsa dalla macchina, e canto mentalmente "La nostra relazione" e "vado al massimo". Prendi anche Bruno Vespa. Bruno Vespa è un giornalista. Questo è fuori discussione. Quando ancora la Democrazia si discuteva in Parlamento, il buon Vespa dirigeva il TG1. E li, inconsapevole, è arrivato al vertice della sua vita intellettuale. Cerca il suo nuovo libro. Non è difficile, lo vendono tutte le librerie dell’universo. (nel contempo prova a cercare un grande scrittore contemporaneo come Tropper. Niente, niet, nada. Traducono un libro su sei, e una libreria su due non lo tiene a scaffale. Ma questa è un’altra lista). Prendi dunque il tomo di Vespa. Cerca la diginità, l’interesse vero per la scoperta, il fil rouge dell’amore per l’inchiesta. Non troverai niente di questo. Prendi ad esempio Rolling Stone. Rivista carina, genere easy, ottimo taglio, coraggio discreto, grandi recensioni. E la copertina dell’anno a Silivio Berlusconi. Il colpo basso al colpo basso. Colpo basso al quadrato. Come far parlare di se, sperando di vendere trenta copie in più. La fine della dignità di un mezzo di comunicazione non è nell’abbraccio a un padrone ma nel cercare di sollevare attenzione con il nulla. La non vertià, la non notizia. (caldi complimenti al Premier per la vittoria in una nuova categoria. Adesso potrà giustificare l’esercito di veline al seguito come vere e proprie groupies). Prendi ad esempio il team di creativi che pensa le pubblicità della TIM e di Telecom. Frustrati dalla giovane comunicazione di Vodafone, presi alle spalle dal facile tormentone di Wind, attanagliati dalle incomprensibili campagne di 3, i creativi TIM scavano in cerca del fondo.
Il bello di una lista così è che il limite non esiste. L’elenco si allunga di giorno in giorno, le nomination fioccano, sono bipartisan, ambidestre, polivalenti. Un ottimo passatempo per l’inverno.

(nel contempo Vasco sale al primo posto nelle interpretazioni più brutte di sempre, passando di diverse lunghezze anche i più misteriosi orrori discografici d’annata).

Aggiornamento realtime: il libro di Vespa, sul sito Feltrinelli, è nel genere "scienze politiche". Potendo scegliere, rinascerei ancora qui. Nessun posto al mondo è più duro di internet.

Lavare la macchina in modo poetico

Sarò breve. Per non so quale ragione, nella ristrettissima playlist "classifica" del mio iPod è finito Franco Califano. Che io non so nemmeno chi sia Franco Califano, e non mi interessa. La canzone è "tutto il resto è noia". Canzone che io non volevo nella ristrettissima cerchia dei pezzi che mi servono per pensare al mondo come un posto migliore. In effetti questa canzone non può permettere di pensare al mondo come a un posto migliore. Quivi non si discute del talento del sig. Califano, il quale, mi giunge all’orecchio, è stato paroliere per molti. Quivi si discute in primis dello strumento diabolico di Steve Jobs, che mi ha infilato nella "classifica" anche dodici podcast "corso di spagnolo per italiani". E uno, nella pace del suo letto, nella solitudine di un viaggio aereo, nel borbottio dei pensieri che permettono di scrivere, deve sentire interrotta la playlist perfetta da Ectore, che non sarà il tuo istruttore di spagnolo, ma piuttosto il tuo allenatore. Ectore e la Semana Santa a Valencia. E poi il Sig. Califano. Che ad ascoltarlo con attenzione è inevitabile da ricantare. Sotto la doccia, mentre si guida, parlando di lavoro, correndo incontro al futuro, insomma in tutti i momenti banali della giornata. Una specie di droga acustica.  E quivi non discutiamo del talento acustico del sig. Califano, ma di un pezzo della strofa. Che poi credo sia il pezzo che ha autorizzato la cultura italiana a credere nell’autodistruzione. Lo riporto (appartiene al Sig. Califano, quivi non discutiamo sula proprietà del testo):

la macchina a
lavare ed era ora
hai voglia di
far centro
quella sera
si daccordo ma poi
tutto il resto e’
noia
no,
non ho detto gioia
ma noia, noia, noia
maledetta noia.

Ecco. Da qui, proprio da questo punto, potrebbe essere partita la disfatta della poesia italiana e la rovina della canzone moderna. Il sig. Califano prepara l’ascoltatore all’amarezza del post amplesso. Il senso di vuoto di un atto senza amore. Per questioni narrative, il Sig. Califano parte da molto prima. Descrive per sommi capi la preparazione dell’amplesso dal punto di vista maschile. I termini: amplesso, scopata, orgasmo, sono saccentemente evitati, permettendo così la distribuzione del pezzo. Si usa un più sportivo: fare centro. Andiamo a fare centro? I miei genitori hanno fatto centro, e poi sono nato io. E già mi sento solo. La preparazione del fare centro prevede una rasatura perfetta, a cui il Sig. Califano dedica la prima parte della strofa. Occorrono però, per fare centro, dei mezzi materiali. Innanzi tutto il ristorante d’atmosfera. D’atmosfera prevalentemente perchè fa rima con sera. Perchè, per fare centro, basterebbe anche una ristopizzeria. Ma ristopizzeria fa rima solo con Bagheria, moria, follia, idiozia, e molte altre parole meno sceniche di "sera".

Prova a pensare: " ti ho portata in ristopizzeria, mi è costata una follia" o anche a "mangiando in ristopizzeria ho scoperto la tua idiozia". Molto meglio il ristorante d’atmosfera. Il sig. Califano passa poi agli aspetti logistici. Per raggiungere il ristorante d’atmosfera, ma probabilmente anche per fare centro. L’Italia dei lunotti appannati plaude al suo cantore. Ma per un ristorante d’atmosfera, occorre anche una autovettura pulita. Vorrai mica fare centro con l’odore di cane bagnato che aleggia? Comprensibile quindi che si proceda al lavaggio dell’autovettura. Cosa che, peraltro, mezza Italia fa tutti i sabati pomeriggio. Niente di male. Evviva l’igene, evviva il fare centro in un ambiente sano e pulito. Ma perchè aggiungere: "ed era ora"?

Perchè sottolineare velatamente che la macchina era sporca? Perchè questo scivolone nel realismo quotidiano? Perchè distruggere così una vita? Perchè? Comprendo appieno le necessità metriche, ma perchè non mettere un semplice: "ooooo, aah, ooo"? Perchè, sig. Califano, uccidere l’amore, la poesia e anche il mio senso estetico?

Domande che non avranno mai una risposta. In compenso, visto che il lavare la macchina è un gesto poetico e nobile, ho ricevuto nuova linfa poetica e procedo con lo scrivere un nuovo componimento, ovviamente a breve online su RadioCorrida.

Lavare la macchina in modo poetico. Uno passa sopra la barba fatta con maggiore cura, passa sopra le rime da quarta elementare, passa sopra la sordità demente della partner che da noia capisce gioia, ma poi lavare la macchina ed era ora. Questo no. Cazzo, lavare la macchina no.

 

Piccole Differenze (sesso e scrittura)

Tempo di lettura previsto: 8 minuti (media ponderata tra idioti e discreti lettori)
Colonna sonora consigliata: Capossela, ma non troppo se no deprime.
Vino suggerito: Fiano D’Avellino, temperatura ambiente, più che si può (la quantità non la temperatura)

Devi sapere, per tua cultura generale e per procedere nella lettura di questo avvincente saggio su me stesso, che il Memoir è un genere letterario. Come tale, permette all’autore di scrivere in maniera decisamente personale su fatti prevalentemente autobiografici, in forma breve. La struttura letteraria è quella del racconto, che per forma e durata si adatta perfettamente al genere, permettendo di chiudere i periodi. Devi anche sapere che sono un grande appassionato di memoir, nello specifico di alcuni contemporanei americani, molto famosi sul suolo patrio. Li trovo spassosi, cinici, umani, delicati, sensibili e terribilmente bravi. Il primo in classifica è Sedaris, seguito a ruota da Borrough. Entrambi spassionatamente omosessuali, decisamente sfortunati in infanzia e adolescenza, pronti a mettere nero su bianco i limiti e le paranoie delle rispettive vite. Se Sedaris è molto più maturo, leggibile, commerciale e buono, Borrough è molto più scorretto, cinico e frocio.
Bene, sarebbe giusto parlare di cosa mi accomuna ai due di cui sopra, ma preferisco accennare alle piccole differenze che corrono tra me e loro, tra quello che scrivo e dei best seller mondiali.
Questo perchè, in effetti, il memoir è il mio genere. In primis perchè mi permette di scrivere di ciò che prediligo, me stesso, e poi perchè unisce la poca pazienza tipica del racconto, con l’eventuale sconnessione tra un passo e l’altro. Permette strafalcioni, ripetizioni e variazioni sul tema. Si può raccontare cinque volte, in cinque modi differenti, la propria prima volta nel campo del sesso anale con il proprio fidanzato. Argomento sul quale, devo essere sincero, non ho molto materiale. E qui, a un occhio attento, appare la prima piccola differenza: la figura della madre di Sedaris, la figura del padre di Borrough, sono dei veri personaggi bomba. Il sogno di ogni reality, il desiderio recondito di ogni sceneggiatore. La prima volta di Borrough, la ciste rettale di Sedaris, sono veri e propri micro capolavori. Le sorelle di Sedaris, il fratello di Borrough, sono macchiette psicotiche, rovinose entità umane impagabili per la loro preziosità narrativa. In effetti i piccoli gesti psicotici di mio padre, il consumare la farfalla del gas, controllando sette volte al minuto che sia chiuso, il rimettere a posto metodicamente i controlli della macchina, muovendo la rotella dell’aria condizionata fino a ritornare nell’esatta posizione dove l’aveva lasciata prima che qualche maleducato essere umano si sia intromesso nella sua vita, possono essere interessanti. Ma mai quanto una madre sotto psicofarmaci o un padre killer. Il fato mi ha dato una famiglia normale, con interessi normali, con difetti normali. L’offerta speciale che andava in quei giorni era famiglia media per ceto medio. Un quadro patologico che annoierebbe chiunque. Non è tanto lo stile con cui scrivo, ma i contenuti. Ho uno stile, una  punteggiatura, una metrica. Insomma, so di essere leggibile. Sfogliando le prime cinque pagine di un libro di Moccia in aereoporto, mi sono reso conto di essere non solo leggibile, ma profondamente interessante nella mia sconvolgente normalità. La seconda piccola differenza è seduta su un grande bisogno psicologico: il memoir è un modo di fare outing verso il mondo. Un modo diretto e semplice per smettere di vergognarsi di qualche cosa. E il mio retaggio cattolico borghese non mi permette di fare outing, se non nell’intimità di me stesso. Forse è mancanza di coraggio. La terza, ultima, sottile differenza è nella fortunata serie di eventi che hanno portato due vite sgregolate, apparentemente senza nessuna logica e senza nessuna morale, ad essere le vite più spiate della carta stampata. Un’infanzia difficile, e già qui biograficamente siamo incompatibili. Nessuna delle suore che mi tenevano all’asilo, ha mai tentato abusi sessuali su di me. Statisticamente fortunato, qualcuno direbbe. La cosa più sconvolgente della mia infanzia non è stata un padre alcolizzato, ma le scarpe correttive per drizzarmi la schiena (se non contiamo la perdita di cinque exogini ai giardinetti, trauma che oggi mi porta a controllare cinque volte la panchina da cui mi alzo, per essere sicuro di non aver lasciato nulla). Per non parlare dell’adolescenza e della giovinezza. La droga, il dissenso, la dispersione di energie in cose totalmente inutili, sono discipline che ho praticato con ostinazione come i due americani. Ma gli effetti di questo triennio immorale si sono limitati a qualche vergognosa frequentazione, due anni di università buttati nel cesso e un paio di incidenti in macchina inspiegabili se non calcolando tassi alcolemici da alpino in licenza. Non ho avuto fidanzati erotomani, piuttosto ho inanellato una spaventosa serie di comunissime fighette milanesi ossessionate dalla cellulite e dallo status sociale delle proprie famiglie. La serialità con cui sono stato tradito non interesserebbe nessuno, perchè è un male fin troppo comune, di cui nessuno ha voglia di parlare. Potrei andare avanti per ore, a raccontare una sconcertante normalità, a cui, in fondo sono affezzionato. Forse, potendo scegliere, rinascerei me stesso. Pagando il prezzo di non scrivere best sellers, ma anche rifacendo tutte le normali cazzate che mi hanno portato, normalmente, ai miei normali trent’anni.
Il tutto nasce da un pensiero preciso. Nato con la pesantezza di tutti i grandi pensieri, andrebbe spiegato, ma questo esce dagli otto minuti previsti per la lettura di questo post. Per questo rimando i fedeli lettori all’addendum qui sotto.

Addendum fondamentale
(contenuto leggibile solo in abbonamento)

Ero felicemente sdraiato sul piccolissimo letto dell’albergo, deciso a recuperare un po’ di stanchezza, ma impegnato a digerire una sfortunata serie di numeri sbagliati giocati al casinò. Sul taxi, in una Barcellona immersa nella nebbia, cercavo la verità statistica che mi ha portato a inizio serata sopra di cinquecento e alla fine a riportare a casa i soldi giocati. Non c’è pace, la roulette è una piccola malattia. Il ragazzo alla reception, davanti alla mia perplessità per le tariffe da Quinta Strada, ha religiosamente snocciolato gli evidenti vantaggi di una stanza di un metro per due nel centro di Barcellona. In primis la televisione completamente gratis. Ora, visto che solitamente, in Occidente e in buona parte del resto del mondo, la televisione è gratis, anche se il prezzo intellettuale che si paga a guardarla è altissimo, la cosa mi ha lasciato decisamente indifferente. Ho continuato a pensare di essere stato inculato, anche quando lui, zelante, ha precisato che la cosa mi avrebbe permesso di seguire Spagna-Austria in alta definizione (in accadì. Ventidue esseri umani che corrono in accadì. Eccitante). Cosa che, devo ammetterlo, renderebbe invitante anche uno scantinato, soprattutto se non sei spagnolo, austriaco, appassionato di calcio, e così solo mentalmente da guardare la partita nella tua stanza. In ogni caso, impossibilitato al sonno dal rosso e dal nero, ho acceso l’iPod e il televisore in contemporanea. La coincidenza miracolosa ha fatto partire i The Gossip mentre dalla CNN passavo su una inquadratura a campo ravvicinato di una vagina e di un pene. I due elementi, fusi armoniosamente, appartenevano nell’ordine: a un grosso palestrato glabro (il pene), a una simpatica e grassa signorina (la vagina). Architettonicamente incastrata tra i fornelli e una mensola di una cucina di formica bianca, la giovane giumenca si agitava in modo decisamente imbarazzante, lasciando che tonnellate di carne molle si muovessero ritmicamente. Mettendo da parte lo squallore per la cucina di formica, ho apprezzato tantissimo l’associazione mentale immediata tra la poveretta e la cantante dei The Gossip. Disturbato dalla cucina e dall’evidente mancanza di talento in regia, ho dovuto spegnere la televisione.  Rimanendo per quasi due minuti, fino alla fine del pezzo, a ripensare alla cantante dei The Gossip, nuda e incastonata in una cucina low cost, mentre canta con la cattiveria che ha dal vivo, uno qualsiasi dei suoi pezzi. Purtroppo, alla fine, ho dovuto prendere "Correndo con le forbici in Mano". Leggere concilia il sonno e toglie i brutti pensieri. Ma il buon Borrough ha deciso di tirarmi un grande tranello, iniziando a descrivere la prima, violenta, esperienza fisica con il suo fidanzato. Quando la vita è troppo, non resta che spegnere la luce e aspettare che arrivi l’alba. Intanto pensavo a queste piccole differenze. A come la mia vita non possa essere un best seller. Un vero peccato: se è vero che lo stile c’è, la noia dell’eterossessualità, che ha stancato anche la classe politica italiana, potrebbe uccidere il più tenace dei lettori. Per non parlare di un lavoro stressante, di una quotidiana battaglia con la città, di qualche senso di colpa e di tantissimi sogni mai messi in pratica. Della fatica per uscire dal pericoloso loop lavoro-divano-lavoro. Del pendolarismo snervante, eccetera eccetera. Nessuno ha voglia di rileggere se stesso.

Se la playlist della tua vita è terribilmente noiosa, ricordati che non è iTunes a decidere i pezzi, sei tu.

Io Sono

Io sono sempre connesso. Scrivo su tre indirizzi mail, ricevo una media di 300 messaggi di posta al giorno. Più della metà sono comunicazioni di cui devo essere a conoscenza. La metà del resto è composta da pubblicità, newsletter, aggiornamenti. Ho accesso alla mia posta dal pc, dal telefonino, da remoto. Posso connettermi ovunque. In qualsiasi momento. Parlo con tre continenti, lavoro con quattro fusi orari differenti. Quando dormo, mi rispondono. Quando dormono, io rispondo. Ogni dieci o quindici giorni, un amico, generalmente preoccupato dalla mia sparizione, mi scrive un messaggio per sapere come sto. C’è un’altissima probabilità che quel messaggio finisca nello spam. Io non controllo mai la cartella spam. Ho già troppo spam nella cartella normale. Ho due cellulare. Generalmente passo dalle tre alle cinque ore al giorno al telefono. Uso un auricolare a filo, vecchio stile, per evitare che l’orecchio destro abbia una temperatura media molto più alta del resto del corpo. I miei telefoni sono sempre accessi. Li spengo solo in aereo, so di essere uno dei pochi, ma amo le tradizioni. La mia scrivania è un luogo fisico su cui si accumula il passato. E’ come un vecchio tronco. Scavando nei cerchi di riviste e fogli si può risalire alla data di quello strato di carta. Questo perchè la mia vera scrivania è nella tasca davanti della mia borsa di pelle. E’ una penna usb. In verità sono quattro penne usb. Perchè conviene sempre fare backup. In una di queste penne usb tengo le foto che faccio in giro. Continuo a fare foto ovunque. Gli sms finiscono nella stessa cartella della posta elettronica. Così è raro che io sia in grado di leggere un sms prima di una settimana. Sono su facebook, ero su myspace, sono su linkedin, anobii, issuu, twitter e friendfeed. Uso solo facebook, per scrivere cazzate durante le attese o nei momenti morti di una conference call e anobii per tenere traccia della mia libreria. Ho un blog, sul quale scrivo quando ho voglia.

Io sono rabbia. Sono rabbia ormai da mesi. Incontrollabile, continua, esplosiva rabbia. Ho le mie ragioni, come tutti gli uomini. Ho voglia di parlare della mia rabbia. Non con tutti. In nessun luogo digitale. E’ una rabbia sorda, che non mi permette di ascoltare ragioni. E’ una rabbia sterile, che non mi permette di scrivere.

Io sono sempre io. Per tutti quelli che si accontentano di un aggiornamento digitale o di una mail, niente cambia. Cambio spesso posto fisico, cambio continuamente residenza, in un mese non dormo più di tre notti nello stesso posto. Come se fossi in fuga da qualcosa. Dall’esterno, deve essere terribilmente emozionante. Dall’interno, sai che la rabbia si sposta con te.

Io sono un visivo. Il mio olfatto ha solo memoria, nel presente non sento odori. Li ricordo solamente. Il mio tatto è sovraeccitato continuamente da nuovi posti. Il mio udito lavora dodici ore al giorno. Poi cade in un blackout emotivo e cancella tutto. Tutti i giorni. La mia vista è il presente, perchè vedo tutto, osservo tutto, cerco sempre di guardare tutto. La mia vista è la principale memoria, quello che ho visto non dimentico. Inutile provarci. Ricordo perfettamente tutto quello che mi ha fatto soffrire, tutto quello che mi ha lasciato senza fiato, ricordo immagini perfette di tutto. Per questo, oggi, non riesco a domare la mia rabbia. Quello che ho visto farebbe impazzire chiunque. Quello che ho visto, non avrei mai voluto vederlo, leggerlo, soffermarmi a guardarlo. Il mio cuore è nei miei occhi. Posso guardare un quadro ed essere felice, posso vedere un tramonto ed emozionarmi, posso leggere una poesia e rimanere paralizzato. I miei occhi hanno visto quello che il mio udito non sentiva, quello che il mio tatto non trovava, quello che il buonsenso mi stava dicendo da tempo. E tutto si è fermato.

Non riesco a scriverne, perchè scrivo emozioni già finite. Scrivo di ricordi, scrivo nel passato prossimo, non nel presente. E questa rabbia è il mio presente. Più passa il tempo più assomiglio alla mia rabbia. So che finirà, tutto ha diritto al perdono. Allora saranno ricordi, memoria, di cui scrivere. Non ora.

Parlarne mi serve come berci sopra. Per tutte e due le cose serve la presenza fisica, non certo il contatto digitale. Nessuno salverà il mondo con un sms. Il mondo è stato messo in guerra con un brindisi. Il mondo ha trovato la pace con un brindisi. Due bicchieri che sbattono uno contro l’altro, fisicamente presenti. Insieme.

Per fare la guerra basta una persona, contro il mondo. Per fare la pace servono sempre due intenzioni.

Io sono, manca l’intenzione.

Correndo con le forbici in mano

Dietro a un muretto basso che corre lungo tutta la grande strada per l’Ortomercato, Mugelli respira piano aspettando il momento giusto. Nella tasca destra della giacca sente il peso del cellulare e delle manette. Tra le mani tiene la pistola d’ordinanza. Il fiato fa piccole nuvole di fumo, l’aria bagnata entra nelle ossa e la notte si sta impossessando della città, mangiandosi i lampioni gialli, i palazzi e gli alberi spogli. Mugelli non lo sa ancora, ma come in tutti i gialli ambientati a Milano, ci sono pochissime possibilità che gli venga assegnato un finale decente, qualcosa con il botto. Milano non è una città per gialli. Cazzo, da almeno due generazioni, scrittori di talento o meno ci stanno provando. Se fosse per Pinketts, il mondo non girerebbe nel verso giusto, o forse non girerebbe del tutto. Scerbanenco ha fatto il suo, raccontanto la paura di anni in cui si era figli della paura, delle bombe e della paura delle bombe. Cito con stima Elisabetta Bucciarelli e i suoi cadaveri galleggianti al Forlanini, ma un cadavere a Milano è roba per Studio Aperto, non tanto per una buona storia. Mugelli tutto questo non lo sa. Non può saperlo. E’ nato su un foglio di carta della Swiss Air, a undicimila metri di quota, da qualche parte sopra la Russia. In sette ore di volo, Mugelli si è trovato scaraventato in una storia folle di zingari, squallore, odori e gente poco raccomandabile. Lui e i suoi milleduecento euro al mese sono stati trasportati nella galassia degli eroi metropolitani. Dopo aver seguito con la pazienza del segugio una pista a cui nessuno dava retta, che lo ha portato dritto dentro un Campo Rom, proprio dietro l’Ortomercato, ha aspettato che le tessere del mosaico si rivelassero da sole. C’è un poliziotto corrotto, o forse solamente stupido. Ci sono due donne, non una, che fanno a pugni con la sua vita. Di una, Mugelli, è talmente innamorato da dimenticarsi sempre la dignità di un uomo. Dell’altra, Mugelli, non sa nemmeno tanto. Sa solo che vederla è come tornare dietro di dieci anni. Non fanno l’amore, si divorano, mangiando sogni, pelle e tempo infilati sotto qualche portone del centro. Maledetta lei e le sue gambe perfette. Ci sono cose che possono mettere in ginocchio la volontà di un uomo. Due gambe così possono non farti rialzare più. Poi c’è il suo vecchio padre, che vive attaccato a delle strane macchine dentro uno degli ospizi che crescono come funghi dopo la pioggia dentro le periferie della città. Poveretto, Mugelli. Con una cazzo di vita così avrebbe dovuto prendere da tempo la decisione di scappare. Eppure, Mugelli ama la sua città, ama il disordine, lo respira e ci lavora dentro. Adesso è appeso a un destino del cazzo, quello di finire la sua storia uccidendo il suo collega, un colpo per sbaglio, nella penombra tra i furgoni dell’Ortomercato. Nessuno meriterebbe un finale così brutto. Per questo a Mugelli suona il cellulare. Lo sente vibrare in tasca. Lo tira fuori. Sul display compaiono due gambe perfette. Un numero, che manco a dirlo, ha due sette di fila. Non risponde. Rimette il cellulare in tasca, ma qualcosa si è mosso a pochi passi da lui.  Qualcosa che arriva a pochissimo da lui e dal suo cazzo di muretto. Qualcosa che ansima. Qualcosa che potrebbe ucciderlo. Mugelli cerca di guardare al di là del muretto. Alza piano la testa. Il colpo è troppo forte per non fare rumore. Un rumore sordo, che viene subito mangiato dalla notte che si sta mangiano la città. Un colpo che lo lascia per terra, che fa cadere il cellulare dalla giacca. Non riesce a muoversi, Mugelli, ma sente il cellulare che continua a vibrare. Poi vede l’uomo avvicinarsi, schiacciare con forza il cellulare sotto la scarpa. Sente la plastica rompersi. Poi vede la pistola puntata tra i suoi occhi. Riconosce il suo collega. Che in un altro finale sarebbe morto per mano di Mugelli. Destino bastardo. Non sarà mai possibile scrivere un giallo su Milano.

Su Ina

Per quattro anni di fila mi sono ammalato il giorno del compleanno della mia ex-fidanzata. Esattamente nel mezzo delle vancaze di Natale. Andando a vedere gli album di foto di capodanno, compaio sullo sfondo, addobbato con maglioni e sciarpe e dotato di un pallore quasi luminoso, extraterrestre.
Poi ho iniziato un periodo in cui ho preso alla lettera la filosofia post moderna della medicazione preventiva. Consumavo kili di paracetamolo al primo starnuto di stagione, inibendo il mio corpo e distruggendo lo stomaco.
Non ho preso un’influenza per quasi tre anni, ma in compenso ero dilaniato da coliche e dolori addominali spaventosi per via delle dosi equine di medicinali. Dopo un paio d’anni di naturalismo omeopatico, durante i quali mi curavo con radici di liquerizia e tisane di eucalipto, passando l’autunno, l’inverno e buona parte della primavera perennemente raffreddato, sono arrivato al compromesso storico: compro le medicine, ma poi non le prendo. Compro le medicine per sentirmi sicuro, averle in casa mi rasserena. Nella valigia verde non mancano mai cinque o sei medicinali. Ma poi non li prendo mai. Profondamente convinto che ciò che non ammazza fortifica, lascio che virus, batteri e sindromi si impossessino di me. Non cedo alle prime avvisaglie di influenza e arrivo al punto di non ritorno, quando mi infilo sotto il piumone per uscirne 48/60 ore dopo, distrutto. Al piumone seguono 24 ore di divano, in cui assorbo tutto il palinsesto tv con passività stoica. Non voglio intorno nessuno, anche se ho bisogno di essere alimentato e idratato e ho una grandissima necessità di lamentarmi in continuazione. Punisco i miei sensi mangiando pasta in bianco e mele cotte, bevo più acqua di un dromedario e attendo che la vita si riprenda il mio corpo. Funziona. Nessuno se ne accorge se tutto questo avviene tra venerdìe lunedì. Credono tutti tu sia sparito per un week end lungo, anche se vista la faccia qualcuno sospetta che tu ti stia appassionando alle rivisitazioni di Trainspotting. Ecco, in questo esatto momento sono nella fase di passaggio tra il piumone e il divano. Ho subito un intero pomeriggio di televisione, sento la testa che vuole abbandonare il resto del corpo, ho il culo che riproduce esattamente la forma del divano, lo sguardo languido, i capelli in ribellione e la barba sfatta. Se tutto procede per il verso giusto, plausibilmente martedì potrei fare la mia comparsa nel mondo dei vivi. Sono molto di moda, visto che una buona metà di Milano in questo momento versa nelle mie stesse condizioni. Se si tratti davvero di H1N1 nessuno lo saprà mai. Il mio medico curante si è trincerato dentro il suo studio e spara campionature di colluttori a chiunque si avvicini. Ma poi chiameresti davvero il tuo medico curante per una semplice influenza? No, se non fosse per la distruttiva campagna mediatica con cui stanno minando seriamente la stabilità psicologica dell’intera popolazione. Non resta che armarsi di fatalismo e attendere che il destino si manifesti. Per farmi trovare pronto, cerco di tenere a portata di mano un paio di libri e di lavarmi spesso i denti, così da essere più presentabile.

Questo è uno dei due momenti dell’anno in cui sento fortissimo il bisogno di avere Sky o una playstation. Poi mi passa. Ma resta il ricordo di ore passate a seguire telepromozioni di frullatori e coltelli. Se solo avessi la forza di raggiungere la carta di credito, oggi mi sarei comprato due materassi, un orrido macchinario per modellare i glutei e un villino in collina, proprio alle porte di Milano. Un villino tutto mio, immerso nel verde, arredato con cura e pieno di oggetti indispensabili come il convertitore da vinile a mp3, il frullatore multiuso per fare stupendi strudel con noci finemente tritate, una tuta di domopack da avvolgere sulla pancia, due raccolte di cd sugli anni 80, e uno stock di vini da far invidia alle peggiori trattorie di paese.

La prossima volta che mi ammalo devo ricordarmi di tenere il cordless e la carta a portata di mano. Morirò di suina, ma aiutando il Pil a crescere.