A un certo punto della mia vita, tifavo Roma. Beh, tra le tante cose che ho fatto nella mia vita, mi sembra ancora una delle meno stupide, perlomeno una di quelle che hanno avuto meno conseguenze. Quando la Roma veniva a giocare a Milano, andavo allo stadio. Il lunedì pranzavo sempre in una trattoria vicino all’ufficio, dove leggevo la Gazzetta, mangiando insalata, tonno e cipolle. E’ successo, poi, a maggio, che la Roma ha vinto lo scudetto. Era domenica, e facevo il turno in ambulanza. Eravamo parcheggiati in Porta Ticinese e al novantesimo ho tirato fuori un cappellino giallorosso e lo ho messo sullo specchietto. Ho acceso la sirena, trenta secondi. Nessuno ha capito. A Milano, della Roma non interessa molto a nessuno. La gente che passeggia vicino alla Porta, di domenica, vuole vedere il sole, vedere la gente, curiosare in Corso di Porta Ticinese, finire quasi per sbaglio sui Navigli e poi tornare a casa, con l’idea di aver fatto un safari. Nessuno voleva festeggiare lo scudetto della Roma.
Ho messo via il cappellino, e la sera mi sono dimenticato di brindare, anche perchè cenavo da solo con mio padre, che di Roma e delle robe mie non è che fosse molto interessato. Fissavamo il prosciutto, per evitare di parlare. Il lunedì ho letto la Gazzetta, con la grande foto di Totti in copertina. E’ stato l’ultimo giorno in cui sono stato romanista.
La mattina mi ero svegliato presto. Avevo cercato una camicia stirata. Erano gli anni in cui stavo scoprendo, a mie spese, che le camicie non si stirano da sole. Ma ci speravo sempre. Auguro agli uomini di rimanere sempre bambini, di sperare sempre, anche nell’impossibile. Finiva sempre che tiravo fuori la coperta da stiro, con il lenzuolo sopra, dal mobile della cucina, accendevo il ferro, e mi mettevo a stirare. Stirare una camicia è una questione molto variabile: conosco persone in grado di farlo in pochi minuti, altri che ci mettono intere mezz’ore. Io sono più con i secondi. E’ un peccato che questa cosa dello stirare sia finita in mano alle lavanderie o alle signore che puliscono le case. Avremmo risparmiato centinaia di euro di yoga e meditazione, semplicemente stirando, ma pare si preferisca pagare donne terribilmente in forma, con pantaloni terribilmente aderenti e una grande consapevolezza del proprio bacino, e immigrate con pericolanti permessi di soggiorno, per fare yoga e per stirare. Ho indossato la camicia ancora calda, ho cercato una cravatta che non sembrasse una dichiarazione di intenti, ma che assomigliasse più possibile all’idea di un bravo ragazzo, e ho preso la Vespa per andare al colloquio.
L’indirizzo era quello di un palazzo alto, squadrato, di quelli che il fascismo ci ha lasciato come fossili di un’avventura andata malino. Il portiere mi ha fatto salire al sesto piano, si vedevano i tetti del Ticinese, la Porta, il Naviglio con il disordine della Darsena. Il lavoro non faceva per me. Perlomeno questo mi ha detto la ragazza che mi ha fatto il colloquio. Scarpe color panna, con una fibbia rossa, gambe tese, sguardo annoiato, che cadeva spesso sulla mia cravatta.
O ho sbagliato cravatta, oppure ho sbagliato lavoro, pensavo.
Sono uscito e mi sono messo a fumare seduto sulla Vespa. Il quinto colloquio andato male di fila. Il quarto mese senza un lavoro e i soldi finiti. Porta Ticinese davanti a me.
L’ultima volta che ho visto Pietro era nel suo cortile, davanti a Porta Ticinese. Mi invitava sempre alle sue serate. Metteva dei tavoli di ferro davanti all’ingresso dell’officina, e tirava fuori la birra dal frigorifero del piccolo bagno di servizio. Veniva sempre gente fica. Pietro aveva le conoscenze, tutti gli volevano bene, tanti lo ricordavano come il pierre che durante l’università ti faceva entrare sempre alla serata giusta. Poi il lavoro in Banca, come ci si aspetta da uno così. E poi questa roba delle moto. Era bravo.
Pietro è morto nei primi giorni di agosto. In una settimana sono morti quattro amici dell’Università.
Ero a Laigueglia, a cercare di lottare contro il Ponente, che sparisce il sole e che è pieno di torinesi esperti di vela che non vedono l’ora di parlarti di vela, e leggevo di Pietro, di Max, di Paolo e ancora di Max.
Alla morte non ci si abitua certo. Soprattutto alla morte degli altri, che ci lascia qui, a pensarci. Fanno bene in Asia, a festeggiare la morte.
A me la morte fa sempre meno paura. Mi spaventa lasciare le cose a metà. Mi da fastidio anche solo pensare di lasciare qualcuno che soffre.
Mi fa pensare un sacco, la morte degli altri.
Così ho passato un’estate a pensare alla morte. Lo facevo al mattino presto, appena sveglio.
L’altro ieri sono uscito dall’ufficio e sono andato in Porta Ticinese. Ho buttato una lettera che ho scritto sulla morte nel Naviglio. Una signora mi ha guardato male. Non si buttano le cartacce nel Naviglio, dicevano i suoi occhi. Ho risposto con i miei: sto spingendo la morte più in la, signora mia.
Porta Ticinese mi ricorda solo cose mediocri. Come la gente a cui piacciono i Navigli.