Poi un giorno la vecchia Peugeot 507 azzurro cielo è scomparsa. Nessuno sa esattamente che fine abbia fatto, perlomeno nessuno si è premurato di chiederlo, o forse io ero semplicemente troppo piccolo per esser coinvolto in questo genere di conversazioni.
Troppo piccolo per le questioni amministrative, ma già sufficientemente grande per esser capace di rimpiangere la vecchia Peugeot 507 il giorno, un sabato, in cui mio padre si presentò in cortile con una Tempra bianca.
Per capire in quale momento oscuro della storia della FIAT fosse stata concepita la Tempra sono finito su Wikipedia dove, evidentemente, la pagina è stata scritta da un segreto innamorato di una delle più brutte vetture mai pensate nella storia automobilistica, forse proprio mio padre.
Per primo ci finì dentro un piccolo cuscino a fiori, che serviva a mia madre per riposare e provare a strozzarsi appoggiando il collo tra la cintura di sicurezza e la portiera, nei lunghi viaggi di famiglia. Subito a seguire un pennellone giallo di piume morbidissime, usato fin dalla metà degli anni ottanta per spolverare la macchina, dopo aver lavato la carrozzeria con la grossa spugna, terzo elemento finito nel baule, un piccolo museo delle abitudini di mio papà, che è resistito ad altre tre macchine per finire sull’ultima, una Toyota ibrida.
Credo che uno degli errori più infelici dei miei genitori, uno dei per carità, non il primo, sia stato di avermi mandato in una scuola privata.
Lo dico dopo averci passato otto anni, i migliori dicono, perlomeno quelli che li hanno passati nelle scuole pubbliche; otto anni tutto sommato non male, con amici incredibili, uno che è come fosse mio fratello, pochissime storie piccanti da raccontare, per via dell’usanza medievale di dividere in maschile e femminile e, non contenti, di mettere le due scuole a tre kilometri, venti fermate di tram, una dall’altra. In compenso ho interessanti aneddoti sul cameratismo, tantissime sigarette fumate nei bagni, due band musicali, una crew di writers, fortissime lacune sulla storia contemporanea, specialmente comunista, l’assoluta assenza di educazione sentimentale, insomma le solite cose da scuola privata cattolica.
E’ stato un errore educativo grossolano, difficile da attribuire a mia madre, educatrice sopraffina, e a mio padre, uomo buono e attento. La storia vuole che si siano fatti guidare dalla Provvidenza. Oddio, posso capire che per uno estraneo alle robe ultra cattoliche suoni pittoresco, il metodo di scegliere la scuola di un figlio seguendo misteriosi segnali che Dio lascia in giro, ma comunque così è andata.
Forse il difetto principale delle scuole private cattoliche è quello di preparare gli studenti a un mondo idealmente bello, moralmente solido, acculturato e gentile che, varcato il portone della scuola, non esiste. Che è anche una delle ragioni che spingono i ricchi ad iscrivere in queste scuole i loro rampolli.
La mia scuola era frequentata da famiglie benestanti. La scuola femminile era frequentata da famiglie benestanti. Io ero quello che abbassava, drasticamente, la media di reddito.
Non mi è mai particolarmente interessato, essere il più povero, anzi è stata una lezione preparatoria molto importante per la vita adulta, visto che nessuno degli zii americani milionari che sognavo di avere alle elementari si è mai materializzato con regali e prestiti.
Però in quanto a vestiti di marca e macchine non c’era storia.
Giusto qualche settimana prima della sparizione della Peugeot, eravamo stati a un compleanno di un compagno, fuori città sulle colline intorno a un lago. Il viaggio mi era sembrato lunghissimo e tutt’ora non capisco come si possa sostenere un viaggio del genere per andare sulle rive di un lago. In giardino troneggiava questa Renault grigia che il papà del festeggiato ostentava come i maranza di oggi ostentano i Rolex. Ogni dieci minuti trovava una scusa per accenderla, con il grande cruscotto digitale che sparava luci e una voce, una voce cazzo, che sembrava arrivare da dentro il cofano avvisava della portiera aperta. Non solo: era automatica.
Ancora oggi ammetto felicemente di capire pochissimo di macchine, ritengo l’ossessione per le autovetture un introverso modo per giustificare lacune emotive e incapacità di raggiungere soddisfacenti orgasmi in altri modi. Mi piacciono le moto. Mezzi progettati per avvicinare l’uomo a Dio, a volte spedircelo molto prima del previsto, assolutamente scomodi, irragionevoli, rumorosi, insomma perfetti. Le moto sono perfette. Le macchine mi piacciono con le lucine, le cose inutili tipo la voce che ti avvisa della portiera aperta, un grande bagagliaio, e un ragionevole modo per ascoltare la mia musica, prima su cassetta, poi su pennetta, adesso con due click di fretta.
Stavo scrivendo sul mio diario una cosa sul tramandare le passioni di padre in figlio e ci ho messo un bel po’ per trovare una passione, che non fosse Gesù, trasmessami da mio padre. Mentre io provo a inculcare al Piccolo le moto, le donne, i libri e il vino, non ho grande memoria di mio padre che cerca di trasmettermi una passione.
Mi è venuta in mente questa storia delle macchine perchè una parte importante del tempo padre figlio ricordo di averla passata a lavare la macchina con mio padre. A mano.
Le fontane erano una delle prime cose che si cercava, arrivati in vacanza. A Milano possedevamo una accurata memoria per le fontane con un parcheggio vicino. Secchio blu, che è sopravvissuto alla Peugeot ma non alla Tempra, spugna, pennellone morbidissimo, e grandi pause di silenzio. Ricordo l’acqua gelata della fontana in montagna. Ci sono passato la scorsa estate in moto e mi sono fermato a bere, come fosse un santuario. Passare con acqua. Ripassare con acqua e sapone, ripassare con acqua, e poi via di secchio. Pennellone per pulire gli interni e via.
Insieme alla schedina del Totocalcio al sabato, sono i tempi nostri che ricordo meglio.
E mi sono chiesto per quale diavolo di ragione mio padre non abbia mai posseduto una macchina ragionevolmente bella. Non dico un macchinone, dico una macchina ragionevolmente bella. Alla Tempra venne fatto un funerale sommario, per via di misteriose problematiche al motore. Fu allora che passai io una macchina a mio padre: la prima Scenic, tra le altre cose viola. E proprio come in tutte queste storie famigliari, la Scenic fu distrutta in un incidente un sabato sera. Solo che di solito sono i figli che distruggono le macchine dei padri. Ecco arrivato il momento per una Renault Megan, berlina verde acido millecinque benzina, che consumava come un jet e si rompeva ogni due curve. Esasperati dalla tecnologia francese e dal design italiano, abbiamo virato sulla prima Toyota, una Corolla decorosa e spartana. Che poi tutte le Toyota sono decorose e spartane. Il kanban non solo nelle fabbriche ma anche nelle emozioni, credo sia questa la filosofia del signor Toyoda. A oggi, siamo arrivati alla seconda Toyota, con cui mio padre ha fatto un altro incidente, classificandosi primo in famiglia per la media kilometri percorsi / incidenti fatti.
Mi sono davvero chiesto perchè mio padre non si sia mai tolto lo sfizio di una macchina decente, di un colore decente, di un produttore decente, insomma se non tedesca o americana, almeno inglese o slovacca.
Domanda che non farò mai alle mie sorelle, per evitarmi la risposta – papà ha fatto tutto questo per darci quello che ci ha dato, che mi porta sempre a riflettere su una grande questione, molto più grande di quanto si possa sospettare: ma non conveniva comprarsi una macchina divertente e insegnare a tuo figlio a sgommare piuttosto che pagare la scuola cattolica e i raduni dal Papa?
Domande scomode con risposte ostiche.
Ogni tanto scendo in box e osservo la vecchia R65 che sto tenendo per il Piccolo. Mi sfiora il pensiero che, arrivato a diciotto anni, anzi a ventuno, il Ormai Non Più Piccolo mi guardi e mi dica: – a me delle tue moto non me ne fotte un cazzo.
E così la piccola turistica bavarese, che mi ha portato in Sardegna, in montagna, al lavoro, che in quel momento avrà quasi cinquant’anni e con tutte le leggi potrà circolare solo nei miei sogni, si rivelerà un rottame voluminoso. Me la metterò in soggiorno, piuttosto che buttarla, perchè quando scendo in box e la guardo mi solletica l’idea di venderla e prendermi una moto.
Ma poi, esattamente, come si passa una passione di padre in figlio?
Cioè, perchè mio padre non mi ha passato la passione di lavare a mano con acqua gelata delle fontane la macchina?
Semplicemente perchè mio padre non amava lavare la macchina a mano. La stessa ragione che lo obbliga a comprare il caffè scadente e poi dire che non gli piace il caffè, la stessa ragione che lo ha spinto a fumare orrende sigarette leggere dei Monopoli di Stato. Risparmio, parsimonia e moderazione.
No, le passioni non si passano così: per questo odio lavare le macchine, amo il caffè di qualità, e non ho mai rubato una sigaretta a mio padre.
E mio figlio cosa porterà con se di me. Di quel padre che vuole lasciargli una moto e un centinaio di libri.
I figli ricordano le cose che hai fatto con amore, spontaneamente. Ricordo la fede di mio padre, per questo. E mio figlio si ricorderà l’ansia che mi divora ogni volta che devo prendere una scelta importante, o la felicità leggera di quando stappo una bottiglia di gin e annuso le botaniche.
Come al solito, quando si parla di mio padre, siamo partiti da un dubbio e siamo arrivati a delle domande. Che è il motivo per cui vado da una minuta donna mora, in una stanza che da su una strada chiusa, con un forte odore di incenso, a spendere ottanta euro l’ora per provare a rispondere da solo.
Non credo che se mio padre avesse avuto una ragionevole, etero, machista, passione per le macchine, mi sarei comunque risparmiato le ore di analisi.
Però questa storia fosse partità con una Porsche, sarebbe stata sicuramente più divertente.
— questo pezzo finirà sul mio prossimo libro, che dovrebbe intitolarsi Dodici Inizi —– quindi tecnicamente è uno spoiler.