Il 6 di dicembre ho perso il gusto, in via Lorenteggio, all’ora di pranzo. Credo, almeno; nel senso che la mattina sentivo il sapore delle uova e anche l’amaro del caffè. Poi verso l’ora di pranzo ho perso il gusto. Non credo sia direttamente collegato, ma il 6 di dicembre ho iniziato a capire che non sarebbe stata facile. Ho mangiato un risotto, senza sentirne il sapore, e poi sono andato a ritirare questa macchina nuova che ancora guido, e che mi piace talmente poco da continuare a dimenticare dove la parcheggio. Il mio subconscio abbandona la macchina ogni volta che la chiudo.
Prima di Natale ho pensato di scrivere ai miei amici. L’idea era un lapidario: ragazzi sto male. Ma dato che non ho il dono della sintesi e la voglia di far preoccupare le persone intorno a me, ho lasciato il messaggio sospeso, mi sono acceso una sigaretta e ho pianto in soggiorno al buio.
Devo dire che mi aspettavo di piangere molto di più. Mi immaginavo molto più debole. Ho perso la voglia di uscire appena sotto Natale ma ho ripreso il gusto, giusto in tempo per lo champagne della vigilia.
Senza accorgermi, ho lasciato che la vecchia vita mi trascinasse. Persone, discorsi, posti, che avevo già vissuto, respirato, visitato, ascoltato, troppe volte. Così il malessere cresceva comodamente, abitandomi con la grazia di un gatto domestico.
Affiorava la rabbia, il gatto di cui sopra che faceva cadere un vaso, o soffiava a una finestra nel suo riflesso. Il vecchio me rabbioso, la maschera più facile. Che sconfitta.
Ho smesso di leggere, ho iniziato a dormire male, e a svegliarmi sempre prima.
L’otto gennaio ho ricevuto, per mano del mio capo, la lettera di licenziamento. Asciutta, concisa, formale, ogni volta che la rileggevo aggiungevo un pezzo di fallimento, un dolore di perdita, un senso di smarrimento.
La sera ho bevuto quattro birre di fila prima di iniziare a parlare. E poi ho iniziato a scendere, scale ripide, fino al luogo dove nascono i comici.
In fondo alla delusione, dopo il rancore, al di là della paura, dietro al dubbio, ecco quello è il fondo. E sul fondo della vita nascono i comici. I veri sorrisi, i veri respiri.
Sono rimasto seduto sul fondo per un mese. Non che gennaio abbia molto altro da proporre.
Avevo perso il lavoro, ma in verità avevo perso molto di più. Mentre consegnavo le mie cose, firmando un foglio che le annotava tutte, non mi sono reso conto di aver lasciato anche le certezze e le sicurezze, e molte delle difese che avevo costruito per non affrontare le cose.
A metà febbraio perdo ancora il gusto. E mi cola il naso. Una sera mi decido e provo a scrivere.
Resto in piedi tutta la notte. Scrivo cose. Continuamente. Do un titolo al mio scrivere: dodici inizi. Mi sembra un bel titolo. Continuo a scrivere. Nessuno in casa si preoccupa troppo dei miei orari. Se riesco a comportarmi bene, senza dare troppo nell’occhio, tutto viene tollerato in nome della mia disoccupazione.
Mi metto a cucinare e disegnare. Sono due cose che, all’apparenza, mi distraggono. Mando curriculum ed evito di affrontare discorsi profondi. Per fortuna è un inverno pesante, e sono pochi quelli che vogliono affrontare discorsi profondi.
Continuo a scrivere, disegno, cucino. Sto sempre peggio.
Una notte non dormo, cullato da un incubo in cui crocifiggono un passante, davanti agli occhi sbigottiti di mio figlio. Non riesco a proteggerlo da questa visione. Piango e mi addormento la mattina. Per la prima volta resto a letto fino a tardi. Nessuno mi dice niente. Basta non disturbare.
Mi alzo incazzato. Con la mia compagna, che da sola non baderebbe a se stessa, con mio padre, con una lista lunghissima di persone. E la cosa divertente è che ho anche ragione. E la ragione, insegna la storia, si da ai matti.
Bevo un caffè e mi prenoto una seduta dallo psicologo. Il mio non c’è. Torna tra un mese. Il sostituto mi chiede se sto pensando di ammazzarmi. Studiano per anni per poi farti domande così stupide. Come posso ammazzarmi per così poco? Però alla morte ci penso. E penso al dolore. Ne sento uno, caldo, pungente, che mi prende la mattina e mi lascia stare la sera, tardi. Dopo qualche birra parlo. Ma mai volentieri. Nessuno se ne accorge. Frequento persone sospese in un vuoto di abitudini di lusso e rimorsi infantili. E i miei amici. Mi rendo conto di amare il loro modo di stare con me. Si siedono, in riva a questo fiume in piena, con me.
Poi un giorno ho deciso di prender la moto e di andare via. Ho iniziato partendo al mattino e tornando la sera. Nessuno mi diceva niente. Facevo strade difficili, nei boschi, per fermarmi sui passi dell’Appennino.
Parlavo con i vecchi nei bar, entravo nelle chiese dei paesi, e nei supermercati per comprarmi della frutta e dell’acqua.
Un giorno mi sono fermato sotto una roccia a forma di dente. Un grande canino infilato nella terra verde. E ho deciso di perdonarmi. È un posto da dove si vede Milano, confusa con le montagne, e Piacenza, alla fine delle colline. È un posto dove si potrebbe fare l’amore senza esser visti da nessuno. Oppure cantare, senza esser sentiti da nessuno. Oppure perdonarsi.
Si fa così. O almeno, a me è venuta così. Ci si perdona, punto. Fa male come tagliarsi la carne. Mi sono perdonato per aver creduto di vincere, possedendo cose. Per aver creduto di amare, e invece era solo bisogno di essere amati. Per aver lottato per cose così piccole, per aver ferito pur di tenere un punto. Ogni pensiero era un dolore. Come a doverli togliere dal corpo. La rabbia dalla pancia, la paura dal petto, il rimorso dalla testa. Ho passato un ora seduto sull’erba. Respirando a fatica.
Allora ho iniziato questi viaggi in moto verso dei prati dove mi sedevo, respiravo, e iniziavo questa litania del perdono. Inizio da me. E poi perdono tutti. In moto non penso. Non riesco. Guardo le strade, guardo le cose succedere, al massimo penso a cosa fare poco dopo, basta un piccolo balzo, o la ruota che perde aderenza per un secondo, o un furgone distratto, e torni subito con le mani strette sul manubrio e la testa dentro al casco. Ho fatto duemila kilometri in una settimana, battendo metro per metro le colline che esplodono appena fuori Pavia, salendo fino ai passi, una volta ho visto il mare, in lontananza. Le viole fiorite nella neve, ai bordi delle strade, le pietre di qualche frana, gli alberi tagliati. E il mio sedermi, guardando il cielo, e togliendo quel dolore, quei pezzi di dolore. Da dentro.
Ho smesso di disegnare. Ho continuato a scrivere. Ho perso il senso del tempo. Ma mi è tornato il gusto. Nessuno se ne è accorto. Io si.
Ho scritto sessanta pagine di un quaderno, con una preghiera strana, laica, lunga. Una litania di perdono e compassione.
Quando ho finito sono andato in moto a buttare il quaderno in un fiume. In una valle bellissima. Al ritorno ho parlato con questa vecchia signora che mi ha spiegato una storia poco credibile sulle fate. Stava affacciata sulla sua porta, mentre io cercavo di capire come fossi finito nel suo orto senza nemmeno accorgermene.
Al ritorno, in moto, le mie mani sono sempre stanche, il culo mi da noia, un dolore sordo, la testa pulsa, e i pensieri ballano, come danzatrici del ventre, con i sonagli così rumorosi che a volte non sento il rumore del traffico.
Mi fermo incuriosito in un santuario. La Madonna delle Genti. Ci passo di continuo, come fosse il centro di tutte queste valli. Mi siedo su una panca, la chiesa è deserta. Per forza, è martedì pomeriggio.
Ho sospirato e sottovoce ho detto grazie.
Così ho iniziato a ringraziare.
Niente di più facile. Grazie per le mattine di noia, per la paura, per la primavera, per la pioggia, per quel sorriso di mio figlio, per quel pianto che ho trattenuto, per quella canzone in radio. Grazie.
Perdonare e ringraziare penso siano state le cose più importanti che ho fatto negli ultimi quarantaquattro anni.
Domani compio quarantaquattro anni. Dieci giorni fa questo blog è diventato maggiorenne più uno. Domani compio quaranta quattro anni. Mi piacerebbe fare una grande festa. Se penso a come ho speso male il mio tempo, la immagino come una festa di inizio.
Ho iniziato a vivere tardi, a quaranta tre anni. Me ne sono accorto quando ero sul fondo delle cose, in quel buio dove nascono i comici. Mi sono accorto che perdonando e ringraziando ho scavalcato un confine.
Vorrei che questo fosse il mio biglietto di compleanno per i miei amici. Per i miei amori, dovrei forse dire.
Vorrei poter dare questa lunga lettera ai miei amori, quegli uomini e quelle donne che sono la mia famiglia. Che amo come si ama la vita e i suoi regali.
Alla fine, se la vedi come va vista: ho ancora davanti almeno una quarantina d’anni di vita da, finalmente, amare.
Vorrei poter raccontare quanto si stia male, dentro se stessi, a perdonare, a perdonarsi, a capire che la paura, la rabbia, il rancore, sono solo stupide catene. Ma non sono un life coach e poi il mio metodo, fai duemila kilometri in moto per smaltire, non è indicato per tutti.
Vorrei scrivere una lettera, lo farò stanotte, alle emozioni che non ho saputo raccontare, ai ricordi che ho perso per la paura, all’amore che non ho saputo prendere, al bene che non ho saputo dare.
Domani sera pioverà. Al mio compleanno piove sempre. Pensavo fosse sfiga. Invece lava, pulisce.
Berrò un bicchiere di vino sorridendo.
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