Abbi cura di te (Spleen di Capodanno)

Gennaio

Erano decisi, intrappolati nelle loro abitudini, a non perdersi nella banalità delle cose. Avevano passato delle sere, tre sere per la precisione a cui era costretto lui, a cercare un nome con cui chiamare la loro cosa.

Amore. 

Diceva lei. Come la vuoi chiamare, diceva, mentre si pettinava guardando lo specchio, nuda se non per una camicia bianca.

Non ne voglio sapere.

Rispondeva lui, dal letto, dove svogliatamente sfogliava un giornale osservando lei. Avrebbe voluto poter scappare da questa definizione, avrebbe voluto poter scappare da tutte le definizioni, avrebbe voluto scappare da tutto tranne che da lei, che d’inverno girava nuda per casa, che sorrideva sempre, che lo guardava di malizia e passione, ma che sapeva anche ascoltarlo.

Era, oggettivamente, una situazione di stallo, per quanto riguarda le definizioni.

 

Maggio 

Caro Amore mio, aveva iniziato a scrivere lei, su un foglio, mentre finiva frettolosamente una spremuta d’arancia. Iniziava sempre così, tutte le sue lettere, che fossero liste della spesa lasciate a lui, che fossero richieste per una cena, che fossero quei teneri messaggi che ancora adorava lasciare per la casa che avevano affittato da una vecchia signora completamente sorda. Era febbraio, era stato un regalo di San Valentino, per loro che non volevano festeggiarlo.

Caro Amore Mio, aveva iniziato a scrivere lei, con mano ferma, per poi scrivere:

hai ragione tu.

Hai sempre ragione tu. 

Hai ragione quando facciamo l’amore con rabbia, hai ragione quando prendiamo il sole e mi ricordi la crema, hai ragione tu con le tue proteine vegetali, hai ragione tu con l’odio per le novità, hai ragione tu che sei la ragione.

Vuoi sapere una cosa: io odio aver ragione, quindi, amo te.

Non era sicura ci fosse davvero un filo logico, in questa che avrebbe voluto essere una lettera d’amore.

Appoggiando la lettera su una mensola, con un filo di polvere, densa in controluce, aveva pensato a tutto il tempo passato.

 

Settembre

Erano capaci di un desiderio particolare, notturno, primordiale, sincero, che poteva spegnersi di colpo, come una lampadina che si rompe, per settimane. Nessuno dei due se ne preoccupava veramente, attribuendo al tempo passato insieme la mancanza di tremori, l’assenza nebbiosa di passione. Era stato lui una sera a chiedere se fosse normale, per lei, questo quasi non amore, questa docile assenza, questa luce sempre più flebile.

Devo difendermi da te, aveva risposto lei.

Incomprensibile, come spesso accadeva.

Lui, abbassando lo sguardo, aveva però capito una cosa: la fine avrebbe anticipato il suo arrivo. Era un pensiero, la fine, che ricorreva spesso nella testa di lui, sempre abituato a pensare al peggio, sperando il meglio senza coraggio.

Non si parlarono per giorni, abituati a sfiorarsi in una serie meccanica di gesti che da fuori non tradivano nessuna crepa, per un vaso inesorabilmente distrutto dal tempo, o forse dalla terra, o forse dalle radici stesse di una pianta troppo grossa per un solo vaso.

 

Dicembre

 

La terra si è accorta di me, pensò lui, seduto ai bordi di un fosso, in una sera fredda gelata, in cui stava provando a cancellare i ricordi con le lacrime.

Le lacrime non macchiano, non lasciano segni, non lasciano segni fuori almeno.

Si erano lasciati in un mattino della settimana prima di Natale, semplicemente abbandonandosi, senza nemmeno dar peso ai saluti, senza nemmeno dar peso alla vita.

Avevano fatto l’amore, la sera prima, avevano cenato insieme, avevano anche discusso, senza convinzione, sul fare una vacanza, il mare d’inverno.

Chi aveva avuto il coraggio?

Ci vuole coraggio per prendere tutto e scappare?

Ma si tratta di scappare, veramente?

Lui era rimasto seduto sul divano verde, quasi tutta la sera, facendo scorta di rancore, controllando le impronte sui cuscini, per ricordare i segni della vita, aspettando che lei tornasse, sapendo benissimo che non sarebbe tornata.

Aveva trovato una lettera, carta rosa, sottile, inchiostro blu.

Caro Amore mio

Iniziava così.

E finiva con una fine, con la parola fine, scritta come le altre parole, come se il peso fosse lo stesso.

Aveva bestemmiato, di una bestemmia sospirata, quasi per vergogna, aveva cercato i suoi vestiti, aveva cercato le sue tracce.

Poi si era seduto, quasi non fosse capace di fare altro.

Chi aveva avuto coraggio, dei due?

Chi aveva avuto paura dei due?

Erano stati giorni lunghi, i giorni più corti dell’anno, in cui camminava senza far caso alla vita. Arrivava agli angoli della città, capannoni abbandonati, strade illuminate di luce fredda, vuote, silenzio, l’autostrada.

Si era seduto, quella sera, sul bordo di un fosso.

E aveva pianto le lacrime che un anno aveva maturato.

Lacrime che non lasciano segno, quelle di dicembre, sperano gli uomini semplici, gli uomini stupidi.

Gli uomini stupidi sono quelli che fanno buoni propositi, da avvolgere nella carta vecchia di un calendario, per bruciarli insieme alle buone intenzioni che svaniscono nel fumo di gennaio, prima che febbraio ti ritrovi come ti aveva lasciato dicembre.

Eppure, per la prima volta, aveva pensato, è bello che un anno finisca.

Tutte le cose finisco. Gli anni, gli amori, le vite, il vento.

Non è vero?

Ecco, è bello osservare la fine delle cose, avendo il coraggio di piangere.

Avendo il coraggio, punto.

Che nome si può dare a questo anno?

Un anno d’amore.

Che brutte le definizioni, che brutti i confini, che brutte le cose scontate, come le storie d’amore che vanno sempre bene, che bene non vanno più da un pezzo.

Che brutto non avere voglia di ricominciare, direbbero.

Ma ci sono giorni, giorni talmente corti, sospesi, soffici stretti in un calendario ordinario, in cui è bello non aver voglia di ricominciare.

Ricominciare cosa, poi? 

 

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