Venerdì

Era finita che la chiamava Venerdì.
Che cazzo di soprannome è, aveva chiesto lei, nuda, con il trucco colato nell’angolo destro del viso.
Faceva gli occhi dolci, quando chiedeva le cose. Era uno dei suoi pregi.
Aveva l’anima grande, in grado di sopportare la sofferenza del mondo, in grado di portare l’amore del mondo, in grado di sorridere anche davanti a piccole grandi tragedie.
Anime così erano molto più rare dei sorrisi che riusciva a mettere tra un discorso serio e l’altro.
Venerdì.
Nuda.
Quando era nuda, non si erano ancora spiegati perchè, nascevano discussioni profonde, complicate, il futuro, il futuro, il fottuto futuro.
E’ un soprannome.
Aveva risposto lui.
Non bello, aveva incalzato lei.
Tu sei bella.
Non è modo di finire una discussione. Con un complimento. Vecchio trucco.
Non è un complimento. E’ la verità.
Perchè Venerdì?
Che domande.
Perchè è il venerdì, il giorno in cui ti spogli per me, come a chiudere democraticamente una settimana. Metti pace nella mia vita il venerdì. Questo mi fa ricordare due cose, di aver bisogno di pace e di aver bisogno di venerdì, posto che i venerdì siano così.
Quindi non ci vedremo mai di sabato, ad esempio.
Questo dipende da te, mia cara Venerdì.
Non tutto dipende da me.
Allora prese ad accarezzarle il trucco, la guancia, come si fa con i bambini, ma con una pressione delle dita che ricordasse il desiderio, la passione, la pace, la voglia, come se nel discorso, ci volessero punti di sospensione.
Le sue dita facevano i punti di sospensione, quando la voce non riusciva.
Tu sai chi siamo?
Una storia da raccontare, per adesso.
Tu racconti storie, e con le parole levighi gli angoli spigolosi che la tua anima lascia scoperti. Io, questo è quello che mi tocca, resto a viverli, i tuoi racconti. A me spetta la vita, quello che tu dipingi io devo respirarlo. Capisci?
Come se non ti andasse bene, lo dici come se ti facesse male.
Allora è bene che ti racconti una storia, Venerdì. Una storia che dovrai ascoltare. La storia della mia tristezza, che come nebbia mi invade gli occhi, una fitta nebbia di Novembre, che si impossessa dei miei occhi, dei miei ricordi, del mio ritmo e del mio vivere. E’ una cosa passeggera, proprio come la nebbia. Non mi fa paura, è solo imparare a conviverci. So che questa tristezza non è un posto dove tutti sarebbero disposti a vivere. Mi sono chiesto, in qualche notte insonne, di quelle dove divoro libri, sigarette, ricordi, dolori da spegnere in cucina al buio, ecco in una di quelle notti mi sono chiesto se tu fossi disposta, Venerdì, a stare con me nella nebbia, che per una stagione abiterà i miei occhi. Non ti nascondo che, imprevedibilmente, tu assomigli a un sole bello, caldo e pieno, una mattina di maggio, una sera di giugno, un pomeriggio di settembre. Mi scappa, Venerdì, di usare con te il presente, perchè il futuro non lo vedo con la nebbia, il passato mi spaventa rincorrendomi.
E in questa storia la tristezza non starà sempre, è una protagonista non voluta, è una comprimaria.
Lo so bene io, lo sanno anche le persone che mi conoscono.
La mia bellezza è priva di tristezza.
Lo sai anche tu, perchè con te, come sole caldo all’improvviso, io tolgo la nebbia e respiro insieme a te.
Io sono stato una storia bellissima, io sono stato un compagno, un fedele compagno, un amico, un amante, un signore, un punto, come le stelle, che resta fisso.
Sono stato, Venerdì.
Ho perso tutto, nella nebbia. Ho perso i ricordi e le questioni importanti, mi sono perso aspettando maggio, in un inverno lungo e folle.
Tu sei arrivata tardi, arrivi sempre tardi, amo il tuo senso della puntualità disordinato come le tue borse.
Io, mentre arrivavi, iniziavo a vedere nebbia.
Ho smesso di chiedere e di aspettare, Venerdì.
Mi è diventato urgente vivere.
Lo capisci?
Lei ascolta, si lascia accarezzare la schiena nuda, appoggiando la testa sul cuscino, come a voler soffocare risposte troppo avventate. Lei, quando è nuda, ha pazienza da vendere. E contorni disegnati da una mano giocosa e abbondante.
E’ fertile, umida quando ti accoglie, Venerdì, come se volesse farti capire che ti stava aspettando, uomini e uomini, e aspettava te.
Questa è Venerdì.
Nuda è un quadro di una battaglia, che racconta una vittoria agli uomini che lo sanno leggere, che racconta una sconfitta agli uomini che credono di averlo già visto.
Ascolta, Venerdì.
Sembra un gioco, ma quando ascolta, Venerdì assomiglia alle Domeniche d’estate, con i bambini che tornano a casa a cena al tramonto, il paese che si zittisce, il mare che fa meno rumore, i balconi pieni di tavole apparecchiate, il sole che scende lento, il mare che lo aspetta, la luna che si gonfia, settembre che sembra una promessa, o un incubo, dipende da come prendi l’estate, dipende da come prendi la vita.
Risponde piano, quasi sottovoce.
Io non posso dire altro.
Ci sarò.
Sembra una promessa, ma non ho altre possibilità.
Sembra un proclama, una cosa importante da dire, ma in verità sono semplicemente io. Che voglio dirti quello che sento.
Sento che ci sarò.
Sento che ci saremo.
Per Dio, smetti di farmi vivere la tua vita, e vieni a viverla con me.
E smetti di chiamarmi Venerdì.
Lui, seduto ai suoi fianchi, con una mano accarezza la schiena nuda, il culo, l’incavo delle gambe.
Sembra distratto, ma sta ascoltando. Respira prima di rispondere.
Io so che ci sarai.
Per questo ti ho detto grazie, un Venerdì, di qualche stagione fa.
Per questo ti chiamo Venerdì

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