Pampero

Non restava nient altro da bere che del Pampero. Tenuto, sa Dio perchè, in frigo.

Vicino alle olive e al prosciutto.

Eravamo in grado, io de te, di finire le riserve di alcool di un plotone di assetati soldati.

Eravamo, io e te, belli da vedere, nudi e affamati, nel mistero di una casa che tu non sentivi tua e io non provavo nemmeno a rendere mia.

Avevo un debole per le bionde, per il rhum, per le donne che hanno fame di me, per i morsi, per l’attesa.

Nulla è cambiato, a dirti il vero.

Respiravamo piano, rallentavamo il battito, insieme, mentre tu mi aspettavi.

Venire insieme meritava altro che Pampero.

Ma avevamo finito tutto il resto.

Sapevo poco su di te, meno su di me.

Non sapevo fosse finito lo champagne.

Non sapevo di cosa succede a uno come me davanti a una come te, nuda, solo le scarpe.

Non sapevo quali fossero i tuoi film preferiti.

Non sapevo quale fosse il tuo libro preferito.

Conoscevo, a memoria, il tuo punto di non ritorno.

Adoravo arrivarci, sedermici sopra, tenerti lì, bloccata, con le labbra socchiuse, il fiato corto, gli occhi imploranti.

Sapevo, insomma, le cose necessarie.

Il Pampero è un rhum terribile. E’ come un libro brutto, come un film commerciale sulle vacanze di Natale, come uno sconto su un maglione che nasce brutto di suo. I saldi non rendono migliori le offerte.

Il Pampero ha la fortuna della fama, come le star della televisione.

Tu hai il pregio della segretezza, come i rhum buoni. Che so, un Mount Gay.

Invece Pampero.

Freddo di frigo.

Nudi in cucina.

Piastrelle bianche, fredde gelate.

Sigarette lasciate a morire in un posacenere stracolmo.

Noia di chi sa di voler ricominciare subito a fare, apparentemente, la cosa più bella del mondo.

Silenzio.

Adoravo i tuoi silenzi.

Più dei tuoi capelli e del tuo culo, per dire.

Che ho visto con i miei occhi gente morire per il tuo culo.

Io stesso, preso nelle mani, ho potuto capire quanto Dio sia perfetto nelle cose che fa.

Ma i tuoi silenzi erano la cosa più bella.

Forse l’unica cosa che oggi mi manca da morire.

La tua anima silenziosa.

Pampero freddo.

Due sorsi.

L’acido di un rhum immaturo, come una relazione costruita sulla magia della chimica tra un culo e dei pettorali.

Il freddo di un frigo, come di una casa che non sarà mai la nostra. E lo sappiamo.

I vestiti appoggiati vicino alla porta.

Prima di uscire, per dio, rivestiti.

Prima di uscire, per dio, facciamo ancora l’amore.

Perchè non mi scopi e basta?

Ho voglia di fare l’amore.

Facciamo tutte e due le cose?

Trovi sempre una soluzione a tutto.

Non direi.

Perchè?

Non ho ancora trovato una soluzione per quando te ne andrai

Tornerò

Si, lo fai. Ma mai per sempre.

Vero

E non ho una soluzione

Ne senti il bisogno

Per non sentirmi una puttana

Beviamo?

Abbiamo finito tutto

Non ci resta che fare l’amore.

Scopami. Se troia sono, troia voglio essere.

Io sono un uomo molto attaccato alle sue piccole cose. Le liste, ad esempio. Io adoro le liste.

Ho imparato anche che le liste servono. Precisamente a scaricare la responsabilità di un errore su un foglio di carta.

Il Pampero, nella lista dei rhum, sta in fondo, forse nemmeno nella prima pagina. Non merita menzioni.

Se non nelle sue variazioni. L’Especial, odioso trucco commerciale, forse.

Il tuo corpo, nella lista di tutti quelli che ho incrociato con le mie mani nella mia vita, è sempre lì. Al primo posto.

Non la tua anima.

E sono due liste troppo vicine per ignorare un risultato e contare solo sull’altro.

La vita.

Mi ha insegnato a prendere quello che Dio ha disegnato così bene.

Mi ha insegnato a rispettare i silenzi delle donne. Ad amarli più delle loro gambe.

Mi ha insegnato che, Cristo, il Pampero, bisogna lasciarlo a chi lo ha comprato.

Meglio un bicchiere in meno, che un bicchiere di Pampero.

Meglio fare quello che ci viene bene, prima che il tempo risolva le cose.

(e con questo si chiude la trilogia del Rhum)

4 pensieri su “Pampero

  1. I due si erano incontrati nove ora prima, in un anonimo autogrill della riviera ligure poco prima di Rapallo, ed avevano deciso di proseguire il viaggio insieme, ognuno con il proprio mezzo di trasporto.
    Lui guivada una moto di vecchia data, che aveva mangiato tanta strada e aveva vissuto le piu’ impervide stagioni.
    Il suo nome era Ferdinando, veniva da Verona.
    Si era ormai fatta notte e, arrivati in Francia, i due si erano fermati al di fuori di un centro abitato, vicino al tiepido mare della Costa Azzurra, per guardare le stelle ed assaporare un po’ di vino e mare, mentre a Ferdinando la vita scorreva nelle vene delle tempie, e lui guardava un punto indistinto in fronte a sé, incurante della compagnia, tipico di chi ha giá vissuto troppo, di chi ha bevuto e letto fino a sfinirsi, con quello sguardo beffardo e sicuro di chi ha sempre fatto le regole del gioco, con donne di qualsiasi etá ed estrazione sociale.
    Ma questa volta sentiva che qualcosa gli stava sfuggendo di controllo.
    L’altro lui era un camionista, veniva da Messina, guidava un vecchio Scania, e fu proprio lui a rompere l’aureo silenzio che li circondava da ormai due bottiglie di vino.
    “Se vuoi ho un prodotto tipico della mia terra”
    Ferdinando lo guardó con aria incuriosita e gli chiese “che cosa?”
    “La mia nerchia”

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