Qui la prima parte
La Belgique è quel tipo di bar che hanno l’ambizione di diventare qualcosa di più, nel caso specifico una birreria belga. È bello essere ambiziosi, ma non sempre viene bene. Sembrava un posto mezzo abbandonato e mezzo frequentato male. Uno di quei posti dove non porteresti nessun amico, se non per provare a morire attaccando bottone con la clientela.
Il posto preferito dell’ispettore Rizzi, da quando, due anni prima, aveva scoperto che ci si poteva innamorare anche di una birra. Proprio come ci si innamorava di una donna. Cercandone il profumo, rincorrendola, pensandoci, e ritrovandola, proprio come la immaginavi.
Ma soprattutto, regola aurea di tutti gli amori, frequentandola a piccole dosi.
Che con la questione Sacro Cuore, sul discorso delle piccole dosi si potrebbe aprire un dibattito. Ma chiunque, davanti a quel casino, avrebbe bevuto.
I tre, insieme, erano un mix letale tra disordine emotivo, opposti messi insieme da un infausto destino, e occhi che raccontavano molto più delle parole. Li guardava, seduti al tavolino di legno, mentre teneva un occhio sul tavolo alle spalle dove due slavi, accento poco distinguibile, non si erano resi conto di essere seduti davanti a un tavolo di sbirri e continuavano, imperterriti, la conta dei grammi di coca, ordinatamente divisi in piccole buste di plastica.
Ad accorgersene era stato Lupo, mentre cercava nella tasca del cappotto le sigarette. Aveva sviluppato una sorta di sesto senso, per questo genere di cose. Anche se, va detto, anche un vigile urbano prossimo alla pensione e molto miope si sarebbe accorto della scena.
– comunque mi chiamo Claudia.
– scusa per il commento. Sono sanguigno e diretto
– ti avrei ucciso volentieri, se non fosse arrivato l’Ispettore.
– ti ho solo detto che avevi un bel portamento
– ricominci?
Li guardava, l’Ispettore, per capire dove sarebbe arrivato insieme a loro.
Primo, spiegare la questione senza mezze verità. Secondo, osservare la reazione. Terzo, costruire un piano d’azione. Quarto, ordinare altra birra. Quinto, sopravvivere e portare a casa la pelle.
Ripensava mentalmente al piano, che sembrava anche un bel piano, mentre Lupo, con un gesto meccanico fatto almeno un milione di volte, si era alzato e contemporaneamente aveva girato l’avambraccio di uno dei due slavi, bloccandolo alla sedia, puntando la pistola in faccia all’altro.
Come fossero stati insieme da sempre, gli altri due avevano preso il controllo della situazione. Carutiello aveva preso al collo il secondo malcapitato, Gamberale, pistola nella mano sinistra, teneva sotto controllo il perimetro.
– Cristo Santo
Cristo Santo. Una cazzo di squadra. Davvero. Peccato che fossero una cazzo di squadra di novellini. Fottute reclute.
– Che cosa cazzo siete, delle fottute reclute del cazzo, cazzo?
Aveva sentito tutta la frase, parola per parola, ma non l’aveva detta lui. Avrebbe detto, comunque, esattamente le stesse cose. Parola per parola. Con qualche cazzo in meno.
E questo era pessimo. Perché l’unico che conosceva che pensava e diceva le sue stesse cose era Caroni. Ispettore Capo, Antidroga. Tredici anni di servizio, una carriera fantastica. Quasi quasi erano amici.
– Cristo Rizzi cazzo, sono tuoi questi cani bastardi del cazzo?
Era proprio Caroni, splendidamente vestito di stracci, e urlava dall’ultimo tavolo sul fondo del locale.
Pensavano proprio le stesse cose. Sembravano dei cani addestrati. Pensavano davvero le stesse cose, ma poi Caroni per dirle aggiungeva troppi cazzi. Forse per tutto quel tempo passato per strada, vestito di stracci a dare la caccia a balordi del cazzo.
– Lupo molla il colpo, Carutiello anche tu.
I tre non capivano. E anche i sei di Caroni, che occupavano i tavoli sul fondo, non capivano bene. Gli unici a capire erano Rizzi e Caroni. Succedeva spesso. E i due slavi. Che avevano comunque capito di essere finiti in un casino. In un cazzo di casino.
– Rizzi, cazzo, sono sei mesi del cazzo che questi slavi del cazzo mi fanno fare le ore piccole in posti del cazzo come questo. Mi manca tanto così per arrivare al loro capo del cazzo e tu che cazzo combini, mi sputtani tutto facendo una retata del cazzo anni ottanta?
– Siamo fuori servizio.
Gamberale, per dio, abbassa quella pistola, sono tutti sbirri tranne questi due poveretti.
– ok capo.
– siete fuori sevizio, cazzo? Vaffanculo,cazzo.
A metter a posto la questione ci aveva messo un’ora. Caroni sembrava abbastanza incazzato, ed era comprensibile.
La birra era quasi calda, e il barista non sembrava dell’umore di servirne dell’altra.
– Venite con me, andiamo a fare due passi.
– ci saranno sei gradi
– se tenevi il cannone a posto, Lupo, adesso eravamo tutti felici. Caroni, con i suoi, gli slavi con la loro coca, e noi con le nostre birre.
– ho sbagliato?
– ti devo anche rispondere? Non ho messo in piedi una squadra per grattare il fondo del barile. Se volevo prendere spacciatori di coca, continuavo a fare la stessa vita.
– beh, avevo notato dei movimenti.
– anche io, Lupo. E anche tutti gli altri. Erano movimenti che avrebbe notato anche un parroco di campagna. Ma prima di fare qualsiasi cosa, da adesso in poi, tu mi guardi. Hai capito? Mi guardi. E se io dico ok, è ok. Se no, tieni le mani a posto. Ok?
Si faceva così con i lupi e con i cani da slitta. Si addestravano allo sguardo.
– dove stiamo andando, a piedi in questa zona?
– davanti a una scuola.
– a mezzanotte?
– Carutiello, le scuole sono più belle di notte.
Camminavano insieme, sul ciglio della strada. Una di quelle strade che dalla periferia portano nel nulla. Anche a Milano, si sono dimenticati dei pezzi di città. Piccoli pezzi, a due passi dal centro, dimenticati nei piani di sviluppo.
– abituatevi a camminare molto.
Erano le prime parole che diceva, la piccola Gamberale.
Aveva reagito con una prontezza straordinaria, come se le piccole gambe fossero stati elastici, girandosi su se stessa e puntando la pistola sugli uomini di Caroni con una velocità sorprendente. Ma senza dire una parola.
Una donna di poche parole, una splendida rarità.
– abituatevi a camminare molto. Mi avevano detto che l’Ispettore è uno che cammina moltissimo.
– mi piace camminare, è vero. E mi piace parlare chiaro. Per questo vi racconto la storia di questa scuola.
– ho lasciato le sigarette al bar
– potresti smettere di fumare.
– tu devi farti i cazzi tuoi se no riparto da dove era arrivata lei e ti finisco.
– che cazzo, a voi due non si può dire niente. Che problema avete?
Poi l’Ispettore aveva iniziato a raccontare. Che forse era la voce, forse la luna che riempiva lo stradone di periferia, forse la stanchezza o forse la voglia di capirci qualcosa, ma erano rimasti tutti zitti ad ascoltare.
– L’Istituto Sacro Cuore nasce nel 1988, per volontà di una piccola ma forte comunità cattolica che aveva iniziato ad abitare le ultime case del viale. Per costruire una scuola ci vogliono un sacco di soldi e un sacco di permessi. E questi agguerriti genitori trovano subito sia i primi che i secondi. Tutto dalla stessa mano, quella dei socialisti. Voi negli anni ottanta non eravate a Milano. Era come essere al centro del mondo. Un mondo di televisione, soldi facili, ricchezza, gente splendida, e tutto quello che queste cose si portano dietro. Tutti i grandi pranzi fanno tanta spazzatura, diceva mia nonna. E la spazzatura della Milano da Bere aveva un nome preciso: socialisti. I soldi e i permessi di questa scuola sono arrivati dai socialisti. E quando i socialisti e le cose della chiesa si uniscono, fidatevi di me, ci sono le basi per dei grandi casini. Dall’88 a oggi, L’Istituto Sacro Cuore ha fatto studiare e diplomato due generazioni di milanesi. Primari, commercialisti, politici, avvocati, giudici, qualche cantante e anche uno scrittore. Tanti milanesi famosi sono passati di qui. E tutti vogliono più o meno bene al loro liceo. E se vuoi bene al tuo liceo, trovi sempre un modo per fare una piccola donazione. I ricordi sono l’arma più potente per raccogliere denaro. Oggi i socialisti non ci sono più. Ci sono ma si chiamano con un altro nome. Ci sono ancora un sacco di studenti, e la scuola, l’anno scorso, ha ottenuto i permessi per costruire ancora un pezzo, a ridosso della tangenziale, da destinare a venti nuove aule e una palestra. Io sono curioso. A volte troppo curioso, e mi sono incuriosito quando ho visto sul giornale che nella zona del mio commissariato, dove non ci sono nemmeno i soldi per asfaltare le strade, una scuola mette dodici milioni di euro per ingrandirsi. E sono andato a curiosare. Dovete sapere che io sto sul cazzo ai preti.
– io so che lei sta sul cazzo a tutti, Ispettore
– Grazie, Carutiello. Mi serve che me lo ricordino. Comunque, nella maggior parte dei casi è reciproco. Dicevo, i preti, che per certe cose ricordano i socialisti, sono diffidenti quando si tratta di poliziotti.
E io, quando trovo gente diffidente, divento diffidente. E mi sono incuriosito ancora di più. Troppi soldi. Davvero.
– non capisco cosa cazzo centriamo noi con i soldi. Siamo tutti dell’Antidroga.
– infatti non siete qui per i soldi, Lupo. Nemmeno io. Siamo qui per la fonte dei soldi. Sapete come vengono fatti i soldi? O li stampi, freschi e nuovi, oppure lo guadagni. E se li stampi devi essere la Zecca di Stato. Se li guadagni, devi guadagnarne in proporzione a quello che fai. Se ne guadagni troppi, o è stupida la gente che ti paga, oppure non li guadagni facendo quello che dici.
Erano arrivati davanti a un grosso fabbricato di mattoni rossi. Una scuola, come chiunque la immaginerebbe. Con una gigantesca statua di Cristo, sull’angolo sinistro, proprio vicino a un piccolo campanile.
L’Ispettore si era fermato, e aveva smesso di parlare, come se avesse voluto che loro godessero di uno spettacolo sorprendente e unico. Una scuola. Come tutte le altre. Se non per il fatto di essere stata messa alla fine della cittá. L’ultima costruzione prima della Tangenziale. L’ultimo avamposto della città prima che la periferia, che minacciosa avanzava con squallidi quartieri dormitorio, iniziasse a divorare tutti gli angoli avanzati e dimenticati. I bordi della cittá. Dove di solito, da sempre, succedono le cose che nessuno vorrebbe vedere, ma che tutti vorrebbero fare.