Era successo tutto così rapidamente da far pensare a qualcosa di organizzato preventivamente. Un colpo di scena ben pianificato, fin nei minimi dettagli, per sollevare un grande polverone su una questione, in verità, abbastanza marginale e discutibile: la felicità.
Erano, difatti, diversi anni, non si ricordava nemmeno da quando, che aveva smesso di pensare alla felicità come qualcosa di veramente raggiungibile, perlomeno in questa vita, su questa terra.
Così, allenati l’occhio e l’orecchio a sentire e vedere il mondo sempre nello stesso modo, aveva fatto di necessità virtù, adattandosi a quel modo di tirare avanti che molti, impropriamente, chiamano vivere.
Si confondeva, insieme a uno stuolo di altri, in quel vomito di grigio e blu che i vagoni del metrò lasciavano uscire al mattino, in quel fiume uguale di persone, che credevano di vivere in una incredibile originalità, quando invece erano schiacciate in un nulla di bugie.
In merito, ci pensava spesso, seduto sul cesso, ascoltando il rumore rimbombante del suo piscio, non sentiva più una grande differenza tra bugie e verità. Era successo lentamente, ma era successo. Il confine era diventato una coltre di nebbia, difficile distinguere tra una verità e una bugia.
Pisciava seduto. Ma non lo viveva come un grosso problema.
Tradiva la moglie. Ma come per il pisciare seduto, non era un grosso problema. Perlomeno non un problema urgente.
Andava, di tanto in tanto, il mercoledì sera a bere del Porto in un bar del centro con quello che rimaneva dei suoi amici. Amici del liceo, amici del lavoro, amici di amici. Dieci uomini, due ore di libertà, che finivano sempre nel chiacchierare, fumando sigarette, davanti al portone del bar.
Andava, spesso, di ritorno dal bar, all’angolo tra l’ospedale e la circonvallazione, sotto il lampione dove la giovane ragazza croata aspettava i clienti. Si fermava, con la macchina, la caricava, guidava lentamente verso casa sua, annusando il profumo dolce di frutta che lei metteva. Chiacchieravano. Sempre del tempo e del freddo. E del sole e del lavorare in strada.
Scopavano veloci, in un brutto appartamento che la ragazza usava per ricevere. Voleva farlo sembrare un posto bello, aveva finito per essere quello che davvero era: una camera di una puttana.
Riportava la ragazza all’angolo, avendo cura di fermarsi nel cono d’ombra tra due lampioni, per non essere visto, e si riproponeva di non farlo più. Per i soldi, più che per la moglie.
Al mattino, in ufficio, usava rubare la carta igienica per casa. Seppure fosse una carta davvero di pessima qualità. Due rotoli alla settimana. Un bel risparmio, in fondo.
Il suo capo era un uomo forte e deciso. Con una bella moglie e due figlie ancora più belle. Non era invidioso. Si chiedeva solo dove avesse sbagliato. Quale fosse stato il momento preciso in cui tutto questo aveva preso una deriva così, per dire, noiosa.
Inutile.
Una mattina, uscendo dal metrò, era inciampato, letteralmente, in una piccola borsa rossa, appoggiata per terra proprio davanti alle porte.
Rischiando quasi di rompersi un braccio, e rotolando, insieme alla sua valigetta, verso le panchine della banchina.
Alzando gli occhi verso il soffitto, aveva visto lei.
Che pareva essere arrivata da un altro mondo. Un mondo decisamente migliore.
Dove la bellezza lasciava segni visibili sul viso, sulle guance rotonde, sul piccolo naso, sui grandi occhi marroni, sui capelli lunghi e soffici, sulle spalle dritte.
Non sapendo bene cosa fare e cosa dire, aveva raccolto la piccola borsa rossa, allungando il braccio verso di lei.
Che sorridendo, si era ripresa la borsa. Un sorriso che aveva messo fuori fuoco molte cose.
Molte cose vengono messe fuori fuoco da un sorriso del genere.
Si era girata, e se ne era andata verso le scale mobili.
E lui si era ritrovato in piedi, in mezzo alla banchina deserta, a osservare quei piedi camminare per allontanarsi da lui.
Scarpe basse, rosse come la piccola borsa. Passo deciso.
Decise di sedersi. E di aspettare.