Sono le quattro e ventitrè.
Il mare non sembra un granchè. Minaccia pioggia. Invano. Perchè poi non piove.
Fa già caldo. Complice l’umidità, avrebbe detto mio padre.
Appoggiato contro un muro di cotto e calce, sente il sole cuocere la pelle, cerca con gli occhi un punto preciso sul mare, annusa il profumo del limone che esce dal giardino.
Tutto al presente. Lo sta facendo adesso.
Un pedalò passa, a rallentatore, tra l’orizzonte e il mare.
Il vento, manca il vento.
Per questo si sente l’umido, avrebbe detto mio padre.
Per questo si sente il limone, pensa annusando distrattamente.
Rimangono due rivoli di nuvole, che cadono verso il mare, e le nubi delle fabbriche, lontane sopra il porto.
Un traghetto passa, a rallentatore, porta gente al mare.
La magia dell’attesa sta in questo silenzio che si infila fin dentro le radici delle piante, e lascia passare i ricordi.
L’attesa dovrebbe essere dolce, pensa.
Lei aspetta, seduta sul davanzale della finestra, sorridendo nel riflesso del piccolo specchio.
Sa che lui è arrivato. Sa che lui sta aspettando.
Sa che mancano una rampa di scale, quarantasei battiti, sette minuti, due sospiri e un po’ di fiatone, un sorriso, e poi finalmente potranno essere una musica sola.
Scritta da lei, eseguita da lui, pentagramma di ostinazione e verità, di desiderio e silenzio.
Definisci l’amore.
Definiscilo a vent’anni.
Definiscilo a trenta.
Definiscilo adesso.
Scrivi di questo profumo, di limoni, di estate, di sudore, di mare, di porto, di gabbiani, di muschio.
Scrivi di questo silenzio, fruscio di tende, accostate per far passare un poco di luce, un poco di vento, un poco di vita.
Sa che lui sta aspettando.
Pazientemente.
L’attesa, lei la passa al davanzale, guardando gli ambulanti rimettere la verdura sui furgoni. Sente le voci, le bestemmie di un accento lontano.
Si può morire aspettando.
Oppure.
Oppure, si può definire una cosa grandissima senza usare nessuna parola.
Oppure si può ostinatamente volere, fino in fondo, che succeda.
Fino a quando, poi, succede.