6.30 AM CET
Rispondo prendendo il cellulare con due mani, come i bambini quando bevono. Nel frattempo scendo delicatamente dal letto e procedo verso la cucina. Il numero è uno di quei due a cui bisogna rispondere per forza. Per essere in questa lista devi semplicemente aver fatto una di queste due cose: pagarmi profumatamente oppure avermi concepito. Piastrelle congelate in cucina, e fuori il primo traffico del mattino. Che cazzo di vita che fanno i pendolari, penso.
Metto giù. Che cazzo di vita che faccio, penso.
8.12 AM CET
Sto leggendo un libro molto carino sulla gestione cognitiva delle emozioni. E’ bello saper dire, tutto d’un fiato, gestione cognitiva delle emozioni. Ma è ancora più bello saper dare un nome a quello che si prova, decifrandolo.
Eviterebbe parecchi casini, avere in mente la definizione di quello che si sente. Anche saperlo comunicare in modo corretto.
Tipo:
– vorrei solo scoparti, ma così, di tanto in tanto. Ce la facciamo?
al posto di:
– credo di amarti, sai?
Il tipo che ho davanti è lo stereotipo dell’uomo che è in grado di annoiarmi in tempi brevissimi, soprattutto se è seduto nel mio ufficio alle 8.12 del mattino. Non so se la noia sia un’emozione, non sono ancora arrivato alla pagina del libro. Ma provo anche compassione per lui, per la sua camicia bianca lisa, per lo squallido gilet con bottoni di osso, per l’odore di dopobarba del Carrefour e per la pila di documenti che si è portato. Non credo si possa provare compassione per una pila di documenti. Ma io la provo. Genericamente.
8.22 AM CET
Mi squilla il cellulare, vengo risvegliato dal torpore in cui ero caduto per colpa del tipo e della sua mortale presentazione. E’ un messaggio del mio capo. Il mio nuovo capo. Quello che mi paga profumatamente. Sotto c’è anche un messaggio di mio padre. Quello che mi ha concepito. Rispondo a tutti e due: ” mi libero tra venti minuti e ti chiamo”.
Inizio a liquidare il tipo, cerco un avanzo di qualcosa da mangiare nei cassetti della scrivania, mi rollo una sigaretta e accarezzo l’agenda, lasciando che il dito scorra sul rilievo lasciato dalla penna.
Guardo fuori dalla finestra. Mi manca il deserto. Non credo esista, come emozione.
Sulla carta.
Spengo il telefono, chiudo la porta, apro la finestra.
Respiro.
Arrivano sparsi. Come tutti i ricordi. E freschi, come tutte le emozioni.
Il mare di sabbia
il deserto è come l’oceano, dice biascicando le parole. Il deserto è il nostro mare. Non guarda mai negli occhi, quando parla. Guarda sempre oltre il riflesso del sole. Siamo stanchi. Seduti, sul bordo di una pista di asfalto che attraversa il Sahara. Una delle piste. Sono felice di essermi lasciato alle spalle quella merda per turisti fatta di albergoni, spa, hammam, the alla menta, narghilè, sdraio imbottite girate verso il sole da personale troppo servizievole. Mi sentivo a disagio, in mezzo a gente vomitata lì da charter partiti dal freddo, con l’unico obbiettivo di mangiare questo lusso tossico, fingendo di stare bene.
Il deserto è un mare strano, in effetti.
Come il mare non inizia e non finisce in un punto preciso.
Inghiotte e rapisce, uccide e conquista, come il mare.
Dovreste sentire il silenzio che si assaggia seduti nel mezzo del deserto.
Una
cosa
totale
Il sapore del vento caldo che secca la bocca, mentre la sabbia ti conquista lentamente, infilandosi ovunque.
Guardo, desolato, le ruote arrugginite e la marmitta piena di sabbia.
Nella lotta, vince sempre il più forte.
Abbiamo smesso di parlare da un pezzo. E’ difficile misurare il tempo qui in mezzo.
Hai sempre fame, sempre sete, e c’è sempre il sole.
Forse abbiamo smesso perchè non avevamo niente da dirci.
Forse questo silenzio ci ha messo a tacere.
Ci rimettiamo in moto.
Andare in carovana è mortalmente noioso, ma vitalmente indispensabile se a guidarla c’è un tizio che sembra davvero conoscere queste strade.
Il ricordo delle Lacoste verde mela e dei bermuda con mocassino è, fortunatamente, lontano.
Ha di buono questo, il deserto. Cancella l’inutile.
Dovrei venire qui più spesso.
Vittorio
Abbiamo recuperato di che fumare. Inizia ad esserci una stellata incredibile. Eppure il cielo è lo stesso. Un ragazzo dal nome impronunciabile ci ha procurato del fumo, libico. Non sapevo che i libici producessero fumo. E’ buono, non pizzica in gola. Fumiamo in silenzio, in quattro. Avevamo quattro vite molto lontane, siamo seduti insieme a Sud di moltissime cose, girati verso Est, osservando i nostri bagagli penzolare sui parafanghi. La città è viva, brulica di traffico, piena di voci e di rumori. Siamo abbastanza storditi.
Non credo si tratti del fumo libico.
Vittorio arriva con una sospetta motoretta inglese del secolo scorso, ingiallita dalla ruggine.
E’ straordinario come io conosca solo fantastici uomini che si chiamano Vittorio.
Vive in mezzo a questa stellata da parecchi anni, troppi per pensare di tornare, pochi per pensare di andare via.
Ci porta nelle budella della città, le strade si fanno fango, l’acqua riempie gli scoli, poi arrivano le rocce e siamo ancora nel deserto, alle porte della città.
L’acqua nel deserto.
Oasi.
Mangiamo con una fame violenta, questo si che è il fumo libico, penso mentre osservo le mie mani ravanare nel pentolone di verdure.
Parliamo di tante cose, che qui viene più facile.
Sembra che nessuno ascolti quando parli rivolto al deserto.
Per questo racconti tutto.
Cado in un sonno devastante ancora prima che la discoteca dell’albergo apra.
Mi sveglio all’alba, ancora prima che la discoteca dell’albergo chiuda.
Faccio colazione senza scarpe.
Sono troppo pesanti.
Mangio frutta, con le mani, osservando una ordinata coppia di turisti americani aspettare in coda la loro pancetta fritta.
Ho detto cose, davanti alla sabbia, che non ripeterei davanti a nessun uomo.
Anche perchè la verità non va mai ripetuta.
Mondo Troia
Consapevoli del fatto che sia tutto finito, fumiamo davanti al parcheggio dell’hotel. Sono passati giorni, difficilmente misurabili, ma comunque giorni.
Uscendo dal deserto, lentamente ritorni nel mondo e il mondo ti ritorna dentro.
L’albergo ha un numero di camere sufficiente per ospitare la popolazione di un grosso villaggio di montagna.
Invece sono tutti tedeschi.
Tutti.
Seicento sessanta camere vista mare. Extra lusso.
Cinque stelle.
Mica cazzi.
C’è anche il bingo.
E la gente accalcata davanti alla televisione per guardare un reality.
Pensavo, il giorno prima, seduto su un sasso a mangiare un misterioso panino piccante, a quanto sia singolare questa cosa.
Prendi i dromedari.
Animali fortunati.
Pascolano ai bordi del deserto. Un maschio, molte femmine, qualche cucciolo.
Se i dromedari passassero parte della loro vita ad osservarsi da soli, guardando trasmissioni sui dromedari, un uomo saggio, anche solo un saggio pastore, ucciderebbe i dromedari.
Nessuno vuole che un animale scemo procrei altri animali scemi che passano la vita ad osservarsi al posto che mangiare, attraversare il deserto, amare, dormire.
Nessun dromedario, in effetti, passa la sua vita ad osservare altri dromedari che cucinano, che scopano, che parlano tra di loro.
Invece questa cazzo di reception è piena di palme finte, di fontanelle, e di schermi piatti con un reality tedesco. E tedeschi che, al netto del fuso, si sono fatti quattro o cinque ore di volo per venire fino a qui a guardare un reality tedesco.
Un saggio pastore ucciderebbe un animale stupido.
Per evitare altri animali stupidi.
La nostra guida ci ha abbandonato. Dobbiamo arrivare all’aeroporto, che sembra essere l’unica cosa segnalata ovunque.
Basterebbe seguire il rumore.
Mangiamo pesce.
Beviamo vino.
Cerchiamo storie interessanti come quelle del deserto.
Abbiamo ancora fame.
C’è questa leggenda di queste donne, europee, che arrivano fino a qui per gli uomini di qui.
Curiosa leggenda in una terra di uomini con i baffi come Freddy Mercury, la corporatura di Messi e l’odore di un dromedario.
Entriamo nel posto.
Un irish pub, con karaoke arabo, vino italiano, donne tedesche, tantissime, e un sacco di fumo.
Bevo un whiskey caldo appoggiato al bancone, mentre osservo il movimento rapido e meccanico con cui le cacciatrici scelgono le prede.
Al momento, sessualmente parlando, credo di rientrare nella categoria delle prede.
Beviamo ancora.
Abbiamo malinconia del deserto.
Poi seguiamo il flusso, ci spostiamo.
La discoteca è piena, la musica è assordante, e tutti questi cazzo di uomini hanno i baffi.
E ci sono le loro donne.
Dio che belle.
Donne.
E ci sono le cacciatrici tedesche.
Che si muovono veloci.
Hanno fame.
Conosco la sensazione.
Bevo un cuba libre che sa di benzina.
Forse è benzina.
Osservo le mani di un uomo finire molto dentro i pantaloni di una donna.
Che ride.
E l’amica che prende un altro uomo.
E ballano.
E due donne, appena fuori forma, appena pallide, e appena sorridenti, entrare e buttarsi nella mischia.
Osservo troppo.
Ho sonno.
Mi addormento subito.
Mi sveglio troppo presto.
Perlomeno per il mio hangover.
Suona il telefono.
Arriviamo in aeroporto decisamente debilitati.
Ci sediamo a fumare sotto un grosso cartello che vieta il fumo ordinando il loro caffè, che è una miscela di acqua sporca e residui di calcare marroni.
Le due donne appena fuori forma, appena pallide ci passano di fianco. Non sono più sorridenti, ma sono molto truccate. Sono due hostess.
Ho una storia in più da raccontare.
Di quelle storie per riempire i vuoti nel nulla di una serata noiosa.
Di queste due hostess che vanno a puttani.
Come se non lo facessero tutti, tutti i santi giorni, a casa loro.
Ho una storia molto più grande, che parla di deserto.
E me la scriverò con calma.
Magari mi toccherà tornarci.
8.44AM CET
Chiudo la finestra, mi siedo, riaccendo il telefono.
E’ solo una questione di priorità. Su chi chiamare prima. Su cosa ricordare prima. Su dove andare prima.