Di cosa parliamo quando parliamo d’amore

Un pomeriggio di sabato. Giugno. Sole, caldo.

Io non sono mai stato capace di chiedere quello che realmente volevo. Mai. Eppure lei mi aspettava semplicemente al varco, con i suoi grandi occhi pazienti e quei grembiuli a fiori che facevano tanto casa. Uno pensa a casa sua e vede l’immagine di quei grandi grembiuli a fiori. Fiori che poi, a dirti la verità, erano difficili da trovare in natura.

Avevamo parlato, con calma, della mia pagella. Un riassunto drammatico della mia netta propensione per le materie umanistiche. Quelle, in pratica, dove bastava leggere. Peccato che fossi in un liceo scientifico. Avevo provato a spiegarle, sinceramente, quello che poi la vita mi ha confermato: mi mancano le basi intellettuali per poter comprendere le leggi matematiche che governano il mondo.

Lei aveva sorriso, alla fine. Sorrideva sempre. Sembrava ci fosse più sole, quando mi sorrideva. Ricordo la sua voce, il suo tono nasale. Mi aveva chiesto di impegnarmi, di studiare, di andare a fondo, e di chiudere questo maledetto liceo.

Poi mi aveva chiesto di lei. E mi era venuto un tuffo al cuore. Un balzo. Lei sapeva di lei. Ovviamente. Lei sapeva tutto.

– Credo di amarla, mamma. Amo lei. Voglio sposarla. Essere felice, proprio come te e papà.

Si era messa le mani nelle grandi tasche del grembiule e aveva riso, di gusto. Poi mi aveva accarezzato.

– Adesso studia. Tutta l’estate. Poi, a settembre ti spiego che cos’è l’amore.

Ecco, io sono rimasto li sospeso.

Non per altro. E’ morta. A ottobre. Senza avermi spiegato che cosa sia l’amore.

A settembre eravamo troppo impegnati con la morfina.

Non si può dire che sia stata colpa sua, se poi dell’amore io ne abbia abusato e io con l’amore abbia fatto piccoli e grandi casini. Però mi sarebbe piaciuto stare a vedere la risposta alla mia domanda, uscire dal grembiule a fiori con un sorriso e una carezza.

Luglio, notte, caldo, cerco il telecomando del condizionatore, poi mi ricordo di non avere un condizionatore. Mi alzo, le lenzuola sono fradice. Sintetiche. Ho sbagliato il colore, ho sbagliato il tessuto, ho sbagliato.

Cammino nella penombra verso la cucina. Entra una luce forte, artificiale, dalla finestra. Sono i lampioni del parcheggio. Apro la finestra. Mi siedo per terra, mi appoggio allo stipite e mi accendo una sigaretta.

Se lo prendi così, per intero, l’argomento non è facile. L’amore, dico. Impossibile. Troppe implicazioni, in un bacio, in un sorriso, in una carezza. Ti tocca prenderlo a pezzi. E’ decisamente meglio. Piccoli pezzi.

Non ci sono più le risposte, nel grembiule blu a fiori. Ho visto mio padre, qualche giorno fa, ripiegare ordinatamente il grembiule e metterlo in un armadio. Mio padre non ha ancora buttato nulla. L’amore non ha data di scadenza. I ricordi nemmeno.

Così ho controllato, per scaramanzia, se ci fosse, dentro la grossa tasca del grembiule, una risposta per me.

Non c’era.

Il pavimento è caldo. Tutto è caldo. Eppure mi è stata venduta come una casa fresca. Col cazzo. Col cazzo che è fresca.

Col cazzo che l’amore si può negoziare.

Ho studiato, anni, libri, dispense, video, corsi, seminari, workshop, coaching. La lettura dell’essere umano. Il fine negoziale.

L’amore non si può negoziare.

Le ferite dell’amore restano aperte. La notte è come sale, sulla ferita viva.

Poi mi chiedono perchè io dorma male.

Ho amato troppo, per dormire bene. Ho amato troppo male per dormire sognando.

C’è un momento preciso in cui, un uomo saggio, dovrebbe fermarsi a capire. Cos’è l’amore. Quell’amore preciso. Perchè non si può capire l’amore di tutti. Tutti amano a modo loro. Poi, tutti hanno bisogno d’amore. Infinito.

Metti quella tipa che confondeva l’amore con l’essere docilmente inculata in un parcheggio dell’hinterland. E metti quel tipo che vuole solo parlare, e parlare e parlare. Forse potranno amarsi. Notti di parole e incularello al parcheggio del centro commerciale.

L’uomo saggio di cui sopra, dovrebbe fermarsi proprio li, in quel preciso momento in cui i piedi sentono lo sgretolio dello scoglio. In cui ci si sta per tuffare. In cui il peso propende troppo verso il mare. Ormai sei in volo, anche se i piedi sono ancora sullo scoglio. Ormai sei un tuffatore, non sei più un uomo sullo scoglio.

Fermarsi. Esitare.

Magia dell’indecisione.

E guardare giù, un’altra volta.

Fermarsi giusto per sentire, ancora una volta, quel tuffo al cuore che precede il lancio. Ascoltare i piedi, che involontariamente cedono, sentire le spalle che si portano verso il vuoto, respirare profondamente, prima di trattenere il respiro.

Nell’acqua, come tutti, nuoterai. Chi meglio, chi peggio. Nell’acqua, come tutti, berrai, ti sentirai perso, sollevato, freddo. E’ quando ti tuffi che, perlomeno, dovresti sentirti unico.

Di cosa parliamo quando parliamo d’amore proprio non lo so.

Ma so che un piccolo particolare può rendere unico un intero mare.

Esitare.

Fermarsi.

Poi tuffarsi.

 

 

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