Esterno giorno.
Freddo artico, inutile, disperato. Brina sulle macchine parcheggiate. Sole malato, alberi spogli, in fondo al cielo le prime montagne, piene di neve. Si direbbe inverno a tutti gli effetti.
Nel cortile nessun rumore.
Seduto su uno scalino, fumo.
Quanti ricordi che non ho ancora dimenticato, su quelle montagne. Ogni vallata, un grossolano errore di gioventù. Che poi non mi sento molto più vecchio di allora. Ma so riconoscere una colossale stronzata sul nascere. Riesco, a differenza di allora, a capire fin dal mattino, se la giornata prenderà una piega sgradevole.
Sto congelando.
Interno giorno.
Ufficio deserto, sovra riscaldato. Silenzio tombale, e finestroni che danno sul parcheggio deserto. La mia scrivania. Disordine complesso. Diversi strati di carta, plastica, i rami di lavanda che stacco a giugno, due tazze piene di biglietti aerei. Una scatola di biglietti da visita. La fame d’amore è incurabile, penso guardando il telefono. Ventisei chiamate non risposte. Nessuno dei ventisei verrà mai richiamato.
Sono pieno di abitudini. E ho solo trentatrè anni. La mia scrivania è una mappa delle mie abitudini. La fame d’amore è incurabile, penso guardando le mie abitudini.
E se tutti gli errori li avessi fatti, in fondo, per saziare la fame d’amore? E se tutto fosse, semplicemente, una disperata corsa per fermarsi solo una volta raggiunto quello che in molti chiamano semplicemente felicità? E se l’insopportabile sensazione di essere felici, sazi, arrivati, davanti a un corpo e a un’anima, fosse l’unico scopo per cui vale la pena fare tutto questo? E’ questo genere di domande che mi ha fatto sempre fermare, sedere, fumare, pensare.
Uomini e donne impegnati in una rincorsa folle, a tratti disperata, di questa insopportabile sensazione, di questo disagio apparente. L’amore scomodo, quello che obbliga a fermarsi, sedersi, fumare, pensare. A volte, uccidere, negare, colpire.
Sono già stato qui.
E’ il posto da cui nascono le mie lotte, i miei racconti, le mie piccole pazzie urbane. E’ un posto scomodo. Perchè si sente, chiara, la fame mordere l’anima. Chiedimi se sono felice. Fallo. La fame morde l’anima, non la lascia in pace. Mi accarezzo le cicatrici. Errori di gioventù. Potrei essere ovunque.
Sono già stato qui.
Fermo, seduto, fumando, pensando.
Poi, lo so già, esplode dentro me. Esplodono pezzi di cuore, di anima e di testa. L’imboscata dell’amore al corpo.
E’ stato un errore di gioventù, pensare di essere arrivato. La mia fame mi spinge, continuamente, a cercare.
Esterno notte. Caldo, secco. Stelle, appena macchiate da una foschia strana. Vento basso. Termale, direbbero. La valle piena di luci. La festa appena iniziata. Il motore, appena spento, buttava fuori tutto il caldo degli ultimi sei tornanti. Fatti come tutti i tornanti andrebbero fatti nella vita. Senza nemmeno il pensiero della paura. Attraverso i lunghi banconi di legno, pieni di gente, pieni di vino, pieni di rumore. Mi avvicino al lungo muretto di cinta. Chiedo vino, pane e acqua. Non mangio da tutto il giorno. In viaggio per vedere dove finivano le montagne. Ho ventiquattro anni, qualche errore sulle spalle, una moto di vent’otto anni sotto il culo, tutto il tempo di uno appena scaricato, in pieno luglio, dalla donna della sua vita. Di quale vita? Pensi, mentre l’autostrada continua diritta. Non sono le curve della vita, ad uccidere. Sono i rettilinei. Quelli dove, per abitudine, lasci la presa, ti fidi, lasci che tutto continui ad andare come sta andando. E non senti la velocità scendere troppo, la ruota scivolare. Maledetti rettilinei. Ne ho già fatti troppi a ventiquattro anni. Non conosco nessuno. Di queste centinaia di facce, non ne conosco una. Mi siedo su un muretto, appena vicino a un lampione. Mangio pane, bevo vino rosso, caldo. Sento bruciare lo stomaco. O forse è l’anima. E’ bello sapere di non dover tornare in nessun posto. Mi appoggio al muretto, per guardare le stelle. Mi si chiudono gli occhi e i pensieri. Lascio che la stanchezza passi sopra.
Quando mi sveglio è tutto finito. La piazza è deserta. E’ quasi mattino.
Sono già stato qui.
E’ un posto terribilmente scomodo. Si sente la fame mordere l’anima. Ho la schiena a pezzi, la gola gonfia e una fame tremenda.
Mi alzo. Arrivo a una fontanella. Mi spoglio. Mi lavo. L’acqua è troppo fredda. Devo trovare un posto dove mangiare. Devo trovare un cuore dove mangiare. Oggi forse tornerò in città.
Salgo sulla moto. Un grosso orologio, alla fermata dell’autobus, dice che sono le quattro e quaranta sette. Prendo la strada che porta su. La moto sale, senza fatica, e la strada si complica parecchio. Il miglior modo per sentire tutto. Quando tutto si complica. Iniziano a cambiare le case, ad appuntirsi i tetti, qualche camino fuma. I cani abbaiano quando passo. Mi fermo in una trattoria. Chiedo prosciutto, pane e vino. E un caffè.
Sono già stato qui. Ed è inutile muoversi. Tanto questa fame mi rincorrerà. Allora mi siedo e aspetto. Il sole scalda. Luglio. Trovo un giornale di fianco a un cestino. Sono arrivato quasi al confine, a giudicare dal giornale. Nessuna notizia mi interessa. Nemmeno di essere quasi al confine. E’ un confine che non mi interessa. Ne a me, ne alla mia moto.
Salgo, apro i rubinetti del serbatoio. Scaldo il motore. Allaccio il casco. E inizio a scendere, docilmente, verso la città. Tanto non serve scappare.
Vorrei vedere la tua faccia, il tuo sorriso, ogni volta che torno a casa. Pensavo di lei.
Non ti addormentare, mentre ti guardo, pensavo di lei.
Promettevo, pensando a lei, di essere arrivato.
A ventiquattro anni.
Sono già stato qui.
E ho imparato a tornare a casa, senza nessun sorriso.
A non promettere.
Ad addormentarmi, senza l’idea della paura.
La fame morde tutti.