Fuggi, vile uomo

Davanti al terzo specchio, appena di fianco all’asciugamani elettrico, proprio sotto una scritta “Succhio, chiamami” seguita da un numero di cellulare, mi sono guardato per qualche istante.

– Ma tu, esattamente, che cazzo ci fai qui?

Facciamo un passo indietro. Ore 8.28, autostrada semideserta, nebbia, quattro gradi, luce della riserva accesa. Rallento. Freccia, esco. Scendo, osservo una felice famiglia di slavi entrare in Autogrill. Mi viene voglia di famiglia, di slavi, ma soprattutto di caffè.

In fila, osservo i libri più venduti, sullo scaffale.

– Un caffè.

– Menu mattina?

-no

-La brioches come la vuole

– non la voglio.

– Marmellata?

– caffè.

-…

– grazie.

Cesso, acqua fresca in faccia. Non riesco a svegliarmi. Forse l’idea di pasteggiare a Champagne e accompagnare il dopocena con grappa non è stata delle migliori. Forse. Acqua fresca. Chissà se questi numeri di cellulare sono tutti veri. O sono semplicemente ex fidanzati, traditi e abbandonati. E chissà come inizia una telefonata di uno che ha letto l’annuncio e si vuole fare un giro.

– Pronto?

– Si, chiamavo per l’annuncio

– Quale annuncio?

– Succhi?

——————-

– Pronto?

– Si, chiamavo per l’annuncio

– Ah, guardi, è già stata venduta. Mi spiace

– No, dicevo, l’annuncio.

– Si, le dicevo, è venduta.

– No, l’annuncio: Succhio chiamami

———————-

– Si?

– Succhi?

– Scusi?

– Lei succhia?

– In che senso?

– Antiorario? orario? Bah, faccia lei.

 

Mi è già successo un paio di volte, di trovarmi davanti a uno specchio e sentire la mia voce scandire, con lentezza, la frase:

– ma tu, esattamente, cosa cazzo ci fai qui?

 

Era un’estate torrida. Avevo finito i soldi, tutti i soldi, l’otto d’agosto. Mi servivano, a spanne, almeno seicento euro, tra benzina, affitto, alcool, caselli, alcool, alberghi, campeggi o simili. Miquel era stato l’unico ad offrirmi un lavoro senza fare troppe domande. Fighissimi baschi, noiosissimi italiani, aitanti inglesi noleggiavano le tavole nel negozio sulla strada. Longheroni disumani, pieni di paraffina e bozze. Io dovevo semplicemente prendere la tavola, portarla in spiaggia, impartire una rapidissima lezione su come evitare di uccidere i bagnanti, assicurarmi che fosse stata, sommariamente, compresa, e farmene ritorno sotto il mio ombrellone. Dopo una settimana di lavoro avevo le spalle cotte dal sole, ma riuscivo a surfare la sera, e stavo mettendo insieme una cifra in grado, per lo meno, di assicurarmi la benzina per tornare a casa. La sera, rientravo in ostello divorato da una fame enorme. Mi addormentavo svenendo sul letto. Mi svegliavo verso le due. Uscivo, cercavo da mangiare, fumavo, tornavo a letto. La mattina, mi rasavo mentre Joan, il mio compagno di branda, pisciava. Pisciava seduto. Poi spariva fino a sera. Mi aveva detto che era venuto fin là per dimenticare una donna. Ogni tanto lo vedevo in spiaggia. Da solo. Una mattina, guardandomi nello specchio ho sentito la mia voce pronunciare:

–  ma tu, esattamente, cosa cazzo ci fai qui?

Joan, seduto sulla tazza, aveva alzato gli occhi, poi si era girato verso la finestra. E’ dura condividere un cesso.

 

Scrivevo tutte le sere. Era il metodo migliore per evitare di finire nella grande camera matrimoniale al primo piano. Lei aveva smesso di aspettarmi sveglia da un po’ di giorni. Aveva smesso di aspettarmi, di criticarmi, di osservarmi. E iniziava ad andare a letto con dei grossi calzettoni di lana. La fine si vede sempre dai calzini. Scrivevo un racconto. Bellissimo. Era il 2003. Era quasi capodanno. Bevevo liquori locali, fumavo e scrivevo, chiuso in cucina. Fino alle due, alle tre. Poi salivo le scale di legno. E mi sdraiavo più lontano possibile. Da lei, da me. Nell’angolo della camera c’era un grosso armadio, con le ante a specchio. Passando, una sera, mi sono sentito dire:

– ma tu, esattamente, cosa cazzo ci fai qui?

Era una serata importante. Avevo impiegato circa due ore a stirare l’unica camicia che mi era rimasta. Fottuta lavanderia thai. Chiudevano sempre troppo presto. Mi ero fatto prestare il ferro da stiro dalla mia vicina, una simpatica ex majorette in lizza per non so quale casting di non so quale show. Stendeva i costumi da bagno sul terrazzino nuda. Canticchiando. E aveva un ferro da stiro. Il risultato era abbastanza decente. Scarpe lucidate, duecento dollari in tasca. Il ristorante aveva una vetrata circolare sull’oceano. Non si vedeva nulla. Un sacco di gente. Un sacco di bella gente bianca che sorrideva, e un sacco di messicani che servivano pesce crudo. Il riassunto della mia vita ai bordi della Orange Country. Mangiavo gamberi e bevevo Chianti. Cercavo di raggiungere il balcone per fumare. Mi fermavano per parlare. E allora parlavo. Bevendo e mangiando gamberi. Era una serata importante. Argomento principe, una volta scoperto che ero italiano, era l’Italia. In quattro declinazioni:

1) ah, la Toscana! Che viaggio romantico

2) Oh mio dio, che fortuna. Abiti vicino a Verona/Roma/Siena/Venezia?

3) avete un dittatore, o sbaglio? Ma l’esercit0 lo appoggia?

4) Italia? E dove si trova? Europa se non sbaglio, vero?

Il mio amico Philip si destreggiava recitando la splendida parte del padrone di casa. Mi presentava a tutti. Tutti.

– ehi Phil, se non ti scoccia vado a fumare.

– OkiDoki, man.

Terrazzino. Vento caldo del Pacifico. Buio pesto. Solo. Come un cane. Le vetrate a specchio. La luce della mia sigaretta. E:

– ma tu, esattamente, cosa cazzo ci fai qui?

 

Era il terzo aereo di fila. Tre fusi orari. Tre aeroporti. Tre coincidenze. Nel senso che si trattava di pura coincidenza averli presi tutti. Partito da San Diego in un mattino caldo, perfetto, con ottime onde. Atterrato in una tiepida primavera, ai bordi della fine del mondo civilizzato. Il taxista mi aveva detto:

– Lo sa, dall’altra parte del Lago, inizia il Canada. Pazzesco.

Credevo non fosse necessaria una risposta

– Mi capisce?

– Si, perfettamente.

– No, dicevo, il Canada. Dall’altra parte del lago.

– Wow

– Esatto, fratello. Wow. Incredibile. Ci divide solo un lago.

Il motel era l’unico della zona. Motel, stazione di servizio, supermercato, fast food. Non servivano alcoolici. Non vendevano tabacchi. Un posto, tutto sommato, inutile. C’era talmente tanto verde che mi sentivo abbastanza sicuro di averne avuto abbastanza per tutta la mia vita. Voglio indietro la mia Little Italy, a San Diego. L’aeroporto, la stazione, il porto, il traffico. Il Cemento.

Avevo dormito malissimo. E mi ero svegliato prestissimo. Caffè, pankake alla banana, succo d’arancia. Sigaretta. Mi guardavo nella vetrina del supermercato:

– ma tu, esattamente, cosa cazzo ci fai qui?

 

Mi ero ripromesso di non prendere mai più, mai più, un aereo nella mia vita. Mai più. La tempesta tropicale aveva preso il grasso 777 e se lo era ribaltato come un calzino in una lavatrice. Dopo undici ore di volo, tre film, quattro bicchieri di vino e tre pastiglie di valeriana, ero atterrato con la stessa faccia dei ragazzini che tornano da Amsterdam dopo il viaggio della maturità. Puzzavo, tremendamente. Avevo partecipato, attivamente, alla tempesta tropicale, agitandomi come un matto. Pregando. Respirando. Pregando. Merda, che morte del cazzo. Invece ero a Zurigo, nella sala fumatori Camel, davanti a un ologramma di un cammello che ruotava dentro un tavolino trasparente. L’idea di non volare mai più mi avrebbe costretto a vivere a Zurigo. In aeroporto. Pazienza. Fumavo lentamente. Strafatto di valeriana e vino. E una voce, lontana, mi aveva sussurrato:

– ma tu, esattamente, cosa cazzo ci fai qui?

 

Era una freddissima notte di febbraio. Era notte. Tanto notte. Era l’unico club ancora aperto. Era un night. Più che un club. Lo avevo provato a dire, entrando. Spagnoli, italiani, tedeschi e olandesi. La ricetta per creare un ordinato bordello in qualsiasi capitale europea. Che cazzo di freddo, pensavo, entrando. Mi ero seduto al bancone, su uno sgabello di velluto rosso. Io odio il velluto. Sugli sgabelli. Luce soffusa blu. Roba che non si vedevano nemmeno le bottiglie dall’altra parte del bancone.

– Voglio del rhum.

– Coca?

– no, del rhum. Scuro. Vecchio. Qualsiasi.

– Ok. Solo ruhm. Ghiaccio?

– Rhum. Solo rhum.

Bacardi, bianchissimo, odioso, con ghiaccio. Cannuccia, ciliegina.

Poi ti chiedi perchè va tutto a puttane. In senso metaforico. Tu chiedi una cosa al mondo. Una sola. E il mondo ti da un surrogato, pessimo. Una grassa sudamericana si era seduta sullo sgabello vicino a me.

– Ti diverti?

– Ti sembra?

– Parli spagnolo. Bene.

– …

– Ti andrebbe di divertirti?

– No. Sono venuto a bere. Ho avuto una giornata di merda, in una settimana di merda, in un mese di merda in quello che, a spanne, sarà un anno di merda.

– Un massaggio rilassante?

– No.

– Un pompino?

– No. Se ti offro da bere te ne vai?

– Si.

– Cosa vuoi?

– Choocofreeze

– Mi costerà molto?

– Offrire da bere alle ragazze costa venticinque euro. Ma possiamo sederci sui divanetti.

– Vattene.

– Fottiti, spagnolo di merda.

Mi giro, per guardarla andarsene. Ho imparato due cose in questa vita lavorativa: in un night succedono solo cose decisamente fastidiose per le quali la polizia tende a credere a una versione dei fatti che solitamente non è la tua. E i tuoi colleghi, solitamente, spariscono esattamente quando hai bisogno. Camminava portando il culo grasso verso il mio collega olandese, impegnato in una sorta di danza del ventre con una piccola ragazza sudamericana. Ho visto la mia faccia nello specchio, blu:

– ma tu, esattamente, cosa cazzo ci fai qui?

 

Sono tornato alla cassa. La barba bagnata.

– ci ho ripensato. Menu mattina

– marmellata?

– si.

– succo, spremuta o acqua?

– acqua.

– naturale?

-si.

– quattroeottanta.

– secondo lei i numeri degli annunci sui muri del cesso sono veri?

– cosa scusi?

– niente.

– Ha detto marmellata vero?

– si.

 

—————————————————————————————–

– Pronto?

– salve. Ho letto il suo annuncio sul muro dell’Autogrill, Milano Bologna, quello di Fiorenzuola

– Ah, certo, l’annuncio.

– eh, l’annuncio

– beh, posso chiederle una cosa?

– si

– ma lei, esattamente, cosa cazzo ci faceva lì?

 

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