A volte mi capita di voler prendere in braccio mio figlio. E non posso farlo. Potrei. Ancora, per poco, ci riesco. Non lo faccio perchè si vergogna, lo intimidisce questo padre fisico, che cerca sempre l’abbraccio, la stretta. Posso ancora farlo per poco, perchè è un gigante, appeso ai suoi cinquanta kili, con questi ridicoli peli neri, ispidi, che spuntano ovunque, e le gambe grosse, strutturate, lunghe. Le spalle di bambino quasi non tengono più le braccia da ragazzo, e la testa è grande più del resto. Conteneva sogni soffici, qualcuno la ha lasciata aperta, in queste notti d’estate, e sono entrate preoccupazioni e dubbi, sospiri e nuvole nere. Così mi tocca di dover prendere la scala, ne tengo una piccola a pioli appesa sotto al cuore, e scendere dentro la testa, per spostare le preoccupazioni, metter ordine tra i dubbi, pulire il nero pece che si appoggia sulle cose belle, l’inquinamento del crescere. Non sempre posso entrare, gli orari e i modi li decide lui.
Restiamo uniti da questo filo, sottilissimo, trasparente, dell’amore. Una corda di chitarra, invisibile, ma che tira tutti e due. Ci lega, e ci legherà. E’ un filo che sostiene pesi enormi, perchè le nostre anime tirano molto, perchè i nostri corpi cambiano molto. Ma tiene. L’amore, inspiegabilmente, vince su tutto davvero.
Questi peli ispidi, sembrano stuzzicadenti mozzati, neri corvino, crescono ovunque, disordinati. Fanno pensare che tra qualche tempo arriveranno anche i baffi, i miei primi baffi me li ricordo bene. Ce ne sono due sulle palle, di questi peli, appena sopra al pube. E lui se li guarda allarmato, seduto sulla tazza del cesso, con la pancia piegata e gli occhi di un bambino.
Perchè crescono i peli sulle palle, papà?
Per proteggere le palle, mi verrebbe da dirti. Perchè i peli proteggono.
Da cosa?
Beh, dal freddo. E soprattutto dalle persone a cui non piacciono i peli sulle palle.
Ridiamo. Nudi. In un cesso.
A volte mi capita di essere assalito da una terribile malinconia o da una attanagliante dolcezza. Tutte e due mi portano a dover piangere. Subito. Come i vecchi che non riescono a tenere a bada la vescica. Il mio cervello piscia dagli occhi. Ed è incontinente. Piango di gioia e di malinconia, mai di tristezza. Mi son chiesto perchè, ma non trovo mica una risposta. Ho delle supposizioni. E non ci do troppo peso. E’ come quando non riesco a meditare al mattino, che un pensiero stupido tipo: dovevo comprare lo schiacciapatate, quello in plastica bianca dell’Esselunga, mi rovina tutto. Il pensiero resta lì. E tu ti sei fottuto una meditazione. Ho imparato a non giudicarmi troppo. E a comprare tutti i casalinghi che suppongo poi possano tornarmi utili, come lo schiacciapatate.
Stamattina avrei pianto, quando ci siamo salutati sulla strada per la scuola. Mi fa impazzire quel suo voler fare da solo gli ultimi trecento metri. Per arrivare da solo, come i grandi. Con i suoi amici, tutti con le facce tese, come se stessero attraversando un canyon a bordo di una diligenza. Lo lascio andare. Sempre. Sento il filo, la corda di chitarra, tirare, ma non si spezza mai.
E sulla corda di chitarra avrei pianto a lungo, mentre camminavo per la palestra.
Perchè è la corda che avrei sempre voluto.
Una sola ne ho.
Non era piangere di malinconia. Era un pianto prezioso per ricordarmi di tenere sempre un dito sulla corda. Per controllare. L’emozione incredibile di sentire l’amore. Una deliziosa novità. Come i peli sulle palle.