Perchè crescono i peli sulle palle?

A volte mi capita di voler prendere in braccio mio figlio. E non posso farlo. Potrei. Ancora, per poco, ci riesco. Non lo faccio perchè si vergogna, lo intimidisce questo padre fisico, che cerca sempre l’abbraccio, la stretta. Posso ancora farlo per poco, perchè è un gigante, appeso ai suoi cinquanta kili, con questi ridicoli peli neri, ispidi, che spuntano ovunque, e le gambe grosse, strutturate, lunghe. Le spalle di bambino quasi non tengono più le braccia da ragazzo, e la testa è grande più del resto. Conteneva sogni soffici, qualcuno la ha lasciata aperta, in queste notti d’estate, e sono entrate preoccupazioni e dubbi, sospiri e nuvole nere. Così mi tocca di dover prendere la scala, ne tengo una piccola a pioli appesa sotto al cuore, e scendere dentro la testa, per spostare le preoccupazioni, metter ordine tra i dubbi, pulire il nero pece che si appoggia sulle cose belle, l’inquinamento del crescere. Non sempre posso entrare, gli orari e i modi li decide lui.

Restiamo uniti da questo filo, sottilissimo, trasparente, dell’amore. Una corda di chitarra, invisibile, ma che tira tutti e due. Ci lega, e ci legherà. E’ un filo che sostiene pesi enormi, perchè le nostre anime tirano molto, perchè i nostri corpi cambiano molto. Ma tiene. L’amore, inspiegabilmente, vince su tutto davvero.

Questi peli ispidi, sembrano stuzzicadenti mozzati, neri corvino, crescono ovunque, disordinati. Fanno pensare che tra qualche tempo arriveranno anche i baffi, i miei primi baffi me li ricordo bene. Ce ne sono due sulle palle, di questi peli, appena sopra al pube. E lui se li guarda allarmato, seduto sulla tazza del cesso, con la pancia piegata e gli occhi di un bambino.

Perchè crescono i peli sulle palle, papà?

Per proteggere le palle, mi verrebbe da dirti. Perchè i peli proteggono.

Da cosa?

Beh, dal freddo. E soprattutto dalle persone a cui non piacciono i peli sulle palle.

Ridiamo. Nudi. In un cesso.

A volte mi capita di essere assalito da una terribile malinconia o da una attanagliante dolcezza. Tutte e due mi portano a dover piangere. Subito. Come i vecchi che non riescono a tenere a bada la vescica. Il mio cervello piscia dagli occhi. Ed è incontinente. Piango di gioia e di malinconia, mai di tristezza. Mi son chiesto perchè, ma non trovo mica una risposta. Ho delle supposizioni. E non ci do troppo peso. E’ come quando non riesco a meditare al mattino, che un pensiero stupido tipo: dovevo comprare lo schiacciapatate, quello in plastica bianca dell’Esselunga, mi rovina tutto. Il pensiero resta lì. E tu ti sei fottuto una meditazione. Ho imparato a non giudicarmi troppo. E a comprare tutti i casalinghi che suppongo poi possano tornarmi utili, come lo schiacciapatate.

Stamattina avrei pianto, quando ci siamo salutati sulla strada per la scuola. Mi fa impazzire quel suo voler fare da solo gli ultimi trecento metri. Per arrivare da solo, come i grandi. Con i suoi amici, tutti con le facce tese, come se stessero attraversando un canyon a bordo di una diligenza. Lo lascio andare. Sempre. Sento il filo, la corda di chitarra, tirare, ma non si spezza mai.

E sulla corda di chitarra avrei pianto a lungo, mentre camminavo per la palestra.

Perchè è la corda che avrei sempre voluto.

Una sola ne ho.

Non era piangere di malinconia. Era un pianto prezioso per ricordarmi di tenere sempre un dito sulla corda. Per controllare. L’emozione incredibile di sentire l’amore. Una deliziosa novità. Come i peli sulle palle.

Piante da Ufficio, mercati rionali, terapie

Ho dovuto lavorare da casa per due giorni. Due interminabili giorni in cui mi è arrivato tutto il piacevole odore dei ricordi brutti. I ricordi brutti puzzano di muffa e di cozze, quell’odore che c’è nei magazzini del porto di Bari. O nelle cucine dei ristoranti stellati di Milano, per chi non fosse mai stato nel porto di Bari.

Lavorare da casa è sfiancante, per chi come me ha una casa normale, quasi piccola, ritagliata sull’uso che si faceva delle case prima che il Covid cambiasse per sempre l’uso che facciamo delle case e soprattutto dei letti delle case in cui abitiamo.

Il letto è l’elemento più impattato. Se ci pensi, poveri letti, sono andati molto oltre la loro missione naturale. Oltre che farci dormire sono diventati magazzini, ripostigli, mensole, poltrone, sedie da ufficio, e a quanto pare sudari per maratone di Netflix.

Uno sognava una vita professionale come sudario di serate sadomaso, e si ritrova ad ospitare un intero nucleo famigliare intento a divorare una serie, mangiucchiando pizza e pulendosi le dita sotto alle lenzuola.

Un grande abbraccio ai letti, da parte mia. Però io comunque volevo dire che a casa a lavorare ci sto veramente male.

In generale io sto male a casa. Mi rompo i coglioni, a meno che io non sia da solo, rigorosamente, e possa esprimere tutti i miei nascosti talenti. Oppure con una giovane amante lussuriosa, ma questo è difficile che possa accadere nei prossimi mesi. Oppure con un fidato amico e una bottiglia di un qualsiasi vino. Ma i miei amici sono tutti ossessivamente concentrati nel sorreggere precarie vite sentimentali e professionali, e ritagliano sempre meno tempo per una bottiglia di vino in soggiorno alle due di pomeriggio.

Appena uscito di casa ho fatto due cose molto urgenti. La prima è stata quella di bere un caffè. Io odio il caffè del bar. Della maggior parte dei bar. Terribile al palato, bollente, servito male. Eppure ne ho bisogno per poi sentirmi meglio.

Non credo sia la caffeina, credo sia la voglia di lamentarsi interiormente.

La seconda cosa è stata prendere il motorino e andare in giro come uno scemo. Adoro la sciatteria con cui Milano si presenta a novembre. Mi piace vedere la gente coperta che passeggia nel grigio, i negozi chiusi, l’autunno che incede regalmente. Quasi meglio del Natale.

Sono finito in un mercato a comprare piantine per l’ufficio. Piante grasse con vasi di porcellana bianca, a forma di gufo. Se il mondo avesse me come arredatore, saremmo in una concept room gigantesca con piante grasse ovunque. Difatti non faccio l’arredatore.

Alla fine sono tornato a casa che ero quasi contento di tornarci. Poi mi sono ritrovato a letto, che il letto è l’unico spazio salvo e sicuro che mi protegge dal dover interagire con le orde di pre adolescenti che pascolano la suddetta casa, e mi sono detto: cazzo che palle stare a letto.

Non ho una soluzione facile a questo problema, ma ritengo che il poter vivere da soli immersi nelle piante grasse sia già un buon passo avanti. Dovremmo passarlo come terapia, per chi si sente schiacciato in letti che invece dovrebbero sorreggere.

Freddie indossa scarpe afghane

Non posso che invidiare, mi rendo conto della banalità, l’insostenibile leggerezza con cui Freddie affronta i latticini. Ci ho pensato proprio ieri, mentre serenamente navigava con il suo cucchiaio dentro al terzo vasetto di cheese cake. Le cose che gli invidio cambiano con il tempo, e il tempo è nostro alleato e nemico da tanto. Gli invidiavo i capelli, ad esempio, ma adesso sono messo meglio io. Gli invidio la caparbietà, ma ogni tanto stringe come un cappio al collo. Non gli invidio la bicicletta, un orrendo aggeggio semielettrico, dalle linee post industriali, infarcito di accessori family oriented di gusto barocco. E’ roba forte, molto adatta a questi anni di transizione dal fallimento del design al fallimento delle ambizioni.

A Jannella ho sempre invidiato la costanza e la forte capacità di ancorarsi. Avete in mente quelle piante grasse che, lente ma inesorabili, affondano sottili radici in qualsiasi terreno, trovando acqua dove l’uomo non è stato capace? Jannella ha quella forza di volontà. Che come un’arma, se dirottata sul terreno giusto, lo centra come un pino secolare. Forte davanti alle peggiori tempeste. Invecchia lentamente, ma bonariamente ha iniziato il conto alla rovescia dei giorni che lo separano dalla tristezza. Lo fanno i vecchi e gli uomini felici. E’ un buon segno.

A Renato invidio la forza, un disegno interiore di cui non è per nulla consapevole, che lo tiene ritto e forte davanti alle peggiori scosse che la vita gli da. Sembra una leggerezza quasi femminile, come anche i suoi jeans che nel corso degli anni assomigliano sempre di più a dei leggins, ma è molto maschile, onorevole e antica. Sembra una cosa che gli uomini della sua famiglia si tramandano da generazioni. Ehy tu, piccolo nuovo arrivato, tieni questa forza enorme, è tua.

Sempre meglio che ereditare denti deboli e arterie intasate. Mi dico, mentre pedalo verso casa. E’ una sera di settembre più umida del solito e una buona quantità di vino mi suggerisce che non mediterò, una volta a letto, ma cadrò in uno dei miei sogni complessi dove qualcuno muore, io mi innamoro di una qualsiasi puttana, e la vita mi sfugge veloce. Che mi sveglio con il fiatone, corro sotto la doccia e annuso il Felce Azzurra per trovar conforto. Mi piace lavarmi le palle con il Felce Azzurra, per pensare che poi, nel corso della giornata, una donna, preferibilmente la mia, possa annusarle dicendomi: amore ma che delizioso profumo.

Ma poi non succede mai. Piuttosto mi trovo a rimuginare i miei sogni.

Così decido di fermarmi a meditare su una panchina del viale. Davanti a un campo da basket abbandonato, dentro ai lavori del nuovo metrò.

Scriverò un giorno di questi anni in cui mi sono fermato in giro per la città di notte a meditare sbronzo. Scriverò un libro di auto aiuto: “meditare sbronzi”.

Mentre ascolto il mio respiro, tenendo un occhio sulla bicicletta, per evitare di farmela fottere, proprio mentre il mio ying trova il suo yang, mi rendo conto che i miei amici sono parte di me.

Mi viene questo pensiero, bellissimo, importante, gonfio di gratitudine. Mi viene da scriverlo a tutti, ma poi mi escono delle robe strappalacrime, quindi lascio perdere. Eppure mi voglio tenere questa grande gratitudine. Per averli incontrati, per averli amati.

Ho amato talmente male le donne della mia vita che credo meritino un sussidio. Non da me, cristo. Dallo stato.

Ho amato e amo talmente bene i miei amici, da pensare che una vita solo con loro sia davvero un sogno.

Ma poi ci penso bene.

Mi mancherebbero tutte le altre cose. Gli errori, i casini, le cose quasi belle. Che sono poi le ragioni per cui torno dai miei amici, come tornassi a casa.

Inforco la bici e perdo una scarpa.

Maledette scarpe da vela. Che non ho nemmeno la barca.

Da fuori, devo sembrare uno scimpanzè chino sulla sua pancia, mentre cerco di riprendere la scarpa.

Freddie, ad esempio, ha sempre scarpe discutibilmente brutte.

Almeno sulle scarpe ho qualcosa da dire.

Penso.

Solitudini

Di tutte le cose che sto provando a scrivere in questi mesi, la più complicata è quella sulla solitudine. Mi resiste, combatte, si oppone, e non riesco a cavarne che poche righe, disordinate, prima di fermarmi e guardare le pareti, fissando un punto nel nulla. Niente di meditativo, solo sano sconforto. Dal rientro a casa, a fine agosto, la grande parete bianca della sala ha un rosone pugliese illuminato, di verde, giallo e blu, che fa una grande atmosfera. Adoro costellare le mie case di ricordi. Ho vissuto moltissime vite, a volte sono quasi sicuro di essere affetto da una forma di schizofrenia, ma poi non indago troppo. E per ogni vita mi sono portato a casa qualcosa, oggetti che trovano il loro posto su una mensola, appesi a una parete, nascosti dietro a un vaso. Che poi non guardo per mesi. E che magari dimentico. E poi ritrovo. Come con le canzoni. E quando li ritrovo, mi fermo e mi immergo in quel ricordo preciso.

Questo rosone porterà un bel ricordo, per sempre. Viene dal mare, dalla fine di tutti i mari, mi ricorda storie di pesce, di lotta, di una pesantissima consapevolezza. Dice, la consapevolezza alleggerisce. Credo sia vero, ma credo che prima, come la farina nell’acqua, cada pesante sul fondo. Va poi mischiata con la vita, per tornare leggera.

A parte tutto, l’unico libro che avrei diritto di scrivere è su come io abbia disperatamente cercato la consapevolezza. Credo di aver fatto più corsi di meditazione, seminari di preghiera, letto libri, ascoltato podcast, della maggior parte dei guru che vendono pillole facili facili di auto aiuto.

E non ho mai cercato auto aiuto. Anzi, è come se avessi cercato per anni la verità. Quella che i miei genitori mi hanno nascosto, quella che il mio legger male le emozioni mi ha negato. Non ho mai voluto aiutarmi, anzi, sono quel genere d’uomo che prova e riprova a mettersi nei casini, figuriamoci se poi mi aiuto.

Quel rosone, e le sue luci, mi portano all’estate in cui ho mescolato la consapevolezza con le mie altre cose.

E mi sono sentito, per la prima volta, davvero solo.

La solitudine, per come la intendiamo noi, è una cosa molto recente. Gli animali si isolano per morire, o vengono isolati se hanno fatto qualcosa di incredibilmente dannoso per la loro comunità. Lo fanno gli scimpanzè, e anche le formiche. Lo hanno fatto anche gli uomini.

La solitudine è anche diventata una sorta di beatitudine. Sono stati gli eremiti, i primi nel deserto, a scegliere la solitudine, come fosse una roccia su cui costruire i loro spiriti. Il deserto mi fa sempre venire in mente quella storia di Allah che dice agli uomini che ogni volta che mentiranno, butterà un granello di sabbia sulla terra. E così, gli uomini poco preoccupati, hanno continuato a mentire. E sono nati i deserti.

E gli eremiti hanno scelto miliardi di bugie per sedersi e starsene da soli.

La mia solitudine è molto recente, molto meno dolorosa, molto corta, come una coperta che non arriva ai piedi.

Mi sono accorto di esser solo, ma non sempre solo. Mi sono accorto di aver scelto, sbagliando, alcune scorciatoie, qualche trucco per raggiungere una ragionevole felicità. La felicità, me lo dico da solo, è molto poco ragionevole. E’ proprio stupido, questo progetto di provare a trovare una felicità che ti calzi addosso, quando si sa che sei tu, a dover cambiare per poter indossare la felicità.

E così, meditando seduto su delle assi di legno davanti al mar Ionio, mi sono sentito solo.

E terribilmente grato di essermi sentito solo.

Non riesco a scrivere bene, perchè pensare alla solitudine mi obbliga a pensare alla mia solitudine. Mi vengono in mente i baci non dati, le sveglie sbagliate, le notti urlate, le bottiglie di troppo, mi vengono in mente gli anni in cui non capivo di aver iniziato a lottare con la solitudine.

Non sono solo, non siate sciocchi. Ho amici che per me sono una famiglia, ho una famiglia che per me è uno scrigno di ricordi e segreti. Non ho dubbi, anzi.

Della solitudine vorrei raccontare la purezza, quel momento in cui capisci di aver fatto un sacco di cose inutili, per scappare da qualcosa da cui non si può fuggire. Che è la vita, niente di filosofico, è proprio la vita.
Di tutti gli errori fatti, il mio preferito è quello di aver provato a scappare dalla mia solitudine, a cui sono legato da un filo di ragionevolezza, che la tiene vicina e me la fa ritrovare sempre addosso.

Guardo il rosone e capisco che anche oggi non ci riuscirò, a scrivere della solitudine

Lentamente

Chiunque abbia dovuto fare i conti con questioni di anima, spirito o coscienza ha ben chiaro quanto sia importante la lentezza. Centrale, direi. E se non riesci a farlo da solo, di rallentare, la vita ti rallenta, davanti alle grandi decisioni, durante i momenti importanti.

Così è il tempo dei genitori, rallentato. Figli che crescono velocemente, si dice, ma con giornate talmente lunghe da aver il dubbio che le ore si siano dilatate.

È tre mesi, novanta giorni, un centinaio di ore intense, che sto cercando di scrivere una cosa sulla lentezza. Mi è anche venuto il dubbio di non esserne capace. Argomento troppo grosso, e scrittore con troppa fretta.

Mi è venuto in mente di scriverne mentre ero fermo a un semaforo, con il sudore che colava dal casco, su uno dei viali che vanno verso il centro, in pieno luglio. La vita mi stava sfinendo. Un colpo, uno solo, ben assestato, e sarei stato messo a tappeto dalla mia stessa vita. Ho fatto nascere i mostri che mi stavano inseguendo e che stavano avendo la meglio su quello che restava di un pallido ricordo di me.

Senza pensarci troppo ho accostato, ho cercato un bar e mi sono seduto ordinando acqua fresca, ghiaccio, limone e un caffè.

Ho ricominciato a respirare con calma. E ho pensato che darla vinta così ai miei mostri sarebbe stato, quantomeno, terribilmente banale. Odio pensare alla morte, eppure prima o poi succederà. Vorrei consegnare, sul letto di morte, le mie ultime cose, e vorrei esser sicuro di non esser stato mai banale.

Rallentare, mi sono detto. Le cose migliori della mia vita sono state infuse di una lentezza quasi magica. La nascita di mio figlio, con questi minuti eterni di contrazioni, rumori strani, attesa. I migliori momenti con le persone che ho amato e che amo. Talmente lenti da ricordarne tutti gli istanti. Quella donna che, nuda sul letto, mi ha condotto in un lentissimo contatto tra due pelli, due profumi, due respiri.

Lentamente mi sono ripreso. E da quel pomeriggio, lentamente ho ripreso la mia vita. Ho lasciato che il mio razzismo culturale avesse la meglio, ho smesso di rispondere di fretta, di ascoltare la rabbia e la delusione, che portano fretta. Non è una ricetta per improvvisati guru spirituali. A dirla tutta, non esiste niente di più misero di un guru. È più una confessione. Ho scoperto che la lentezza è la soluzione a molti problemi.

Ho scritto cento sedici pagine. È la mia storia d’amore con la lentezza. Mi sono messo a rileggere tutto in queste prime sere d’autunno. In cui tutti mi dicono: sono tornato a correre. Con occhi tristi e squallidi bicchieri di plastica in mano.

Io non pubblicherò mai un romanzo sulla lentezza. Ma ho storie bellissime da raccontarmi su come la lentezza è anticamera di gioie infinite.

Ho iniziato a pensare che sia un fattore differenziante, osservare chi risponde lentamente, chi vive lentamente, chi respira un ritmo diverso. Un altro tipo di razzismo, che indosso volentieri, che mi fa allontanare chi corre per non fermarsi.

Come quel coglione con lo scooter, sudato e sfinito, che si è fermato a bere acqua e caffè.

La lentezza ha un suo profumo, una sua memoria, dei colori ben precisi, ho scritto per prima cosa. Ed è vero.

E adesso che succede (la fame)

Tu non sai di cosa stiamo parlando. Se no ti fermeresti, proprio davanti alla fermata del tram, o vicino a quel bar di cinesi con i tavoli di plastica rosso scolorito dell’Algida. O davanti a quella scuola elementare chiusa, con i finestroni scuri e sporchi, di quell’abbandono che hanno solo le scuole d’estate. Beh ti fermeresti, in mezzo alla città, sommersa da questo pensiero. A controllare il respiro, e osservarti in una vetrina, per capire se da fuori si vede.

Tu non sai di cosa stiamo parlando, perché ogni volta che ti siedi a pensarci, apri quel grosso zaino pieno zeppo di passato, e tiri fuori colorati ricordi, nastri di sofferenza, etichette di rimpianti, e fai un bel pacchetto regalo di questo presente. Si dice presente, in effetti. Ma così, sembra più paura del futuro.

Tu non sai di cosa stiamo parlando, perché se no sapresti dare un nome a questa cosa. Senza girarci intorno troppo.

Io so di cosa stiamo parlando, e non per niente è un mio piccolo vanto.

Mi vanto di annusare la primavera nei primi giorni di gennaio, quando l’aria si fa fredda e pungente ma il sole la condisce con la speranza. Mi vanto di saper ascoltare gli occhi, i motori bicilindrici, e le solitudini. Mi vanto di aver letto tanto e di dover leggere ancora molto per esser sazio. Mi vanto di aver fatto il bagno nudo in quasi tutti i mari. E mi vanto di sapete distinguere la fame.

Vedi, la fame si legge negli occhi, si annusa nelle mani, si intuisce nel camminare, si può ascoltare da un modo di camminare, si intuisce nel modo di parlare.

La fame accende lo sguardo, gli occhi corrono veloci a cercare dettagli, le mani segnano confini, e immaginano direzioni, i piedi camminano veloci, a volte scappano a volte tornano veloci, e parlare diventa difficile.

Io ho fame. Da sempre, insomma da quando lo ricordo. Mi sazia Dio, mi sazia mio figlio, mi sazio di cose che trovo lungo la strada. La fame resta, è parte di me. E cerco uomini e donne che abbiano fame. La mia stessa fame. È così rara, che sono poche le persone che stanno con me. E pochi quelli che voglio al mio fianco.

Vedi cara, la tua è fame. Ed è una delle cose più belle del mondo. È quel fiume di latte e miele che nel Corano circonda il Paradiso. È quella gratitudine che i monaci cercano per una vita. È quella cosa che, appunto, ti dovrebbe far fermare davanti a una vetrina, guardando il tuo riflesso e chiedendoti: ma si vede?

Come le ragazze incinte, nei primi mesi, che con sorpresa ritrovano la prima, timida, pancia.

La fame, la tua fame, si vede, si legge, si sente. È molto e non sarà mai abbastanza.

Se la sapessi riconoscere, la culleresti come faccio io. È una virtù, laica ma Santa. La fame è quella che muove le grande invenzione, i sacrifici incredibili, le intuizioni geniali, le notti insonni. Quella fame, è quella che abbatte i confini, spoglia i discorsi, e scioglie le nuvole.

È preziosa, come il non voler rimpianti. Fai conto che quello zaino con tutto il tuo passato, un giorno, dovrai perderlo. Lasciarlo su un muretto, o sotto al tavolo di un caffè.

E tenere la tua fame, come fosse una bussola.

Benvenuta. Si dice così a chi scopre la fame.

Cerca uomini e donne che possano avere la tua fame. Non cercare di saziarla, nutrila, come si fa con una pianta preziosa. E sarà la tua più preziosa compagna. Godi di questa fame, e delle storie e delle vite che ti porterà. Perché sarà la fame a disegnare la più bella delle vite che ti aspettano.

Lo so perché per me è così

Più culo che anima (Pandemie)

Quest’anno soffro il caldo.

E’ successo anche nel 2014. E anche nel 2000. Che a luglio mi assaliva questo caldo pesante, che mi faceva traballare. Sembro invecchiato di dieci anni.

A me il caldo piace. Più del freddo. Ci penso sempre, anche quando soffro sotto al sole, con un sacchetto della spesa, e il fiato corto. Mi piace più del freddo di novembre, o quel freddo sordo di febbraio.
A me il caldo piace, non mi imbarazza sudare, copiosamente, e mi fa godere restare nudo, più nudo possibile. Anche fuori tema. Nel senso che uno dovrebbe, per costume, stare nudo in posti specifici, in situazioni chiare, in momenti definiti. Sotto la doccia, ad esempio.
A me piace stare nudo con il caldo anche sdraiato su un prato. E respirare lentamente.
Per questo mi ustiono, fisso, le gambe e le palle.
E poi vai tu in farmacia, a chiedere la crema, perchè ti sei ustionato le palle.

Quest’anno soffro il caldo.
Particolarmente.
Ma non mi lamento.

Nel 2000, in quell’estate assurda di caldo, asfalto, piazze deserte, piadine bollenti, e noia mortale, alla fine mi sono proprio rotto le palle. E mi sembrava una cosa abbastanza definitiva. Tipo, accidenti, da quest’anno d’estate mi rompo le palle. Tipo, sto invecchiando, addio.
In verità è tutto più tranquillo. E’ solo questione di punti di vista. L’estate resta sempre estate.

Così nel 2014, giravo con una 500L, una delle macchine più brutte degli ultimi vent’anni, senza motore e senza anima, e continuavo a cambiare città, soffrendo il caldo. Ma stando bene. Finivo sempre a bere vino rosso, in piazza, nelle piazze, a dire il vero. Sconfortato dal caldo, e attratto dalle gonne.
E’ stato l’anno in cui mi sono appassionato ai vestiti anni 50, guardati dal basso mentre ero seduto a bere vino. Con il caldo mi siedo, come i vecchi.

Quest’anno sono stanco. Come tutti. E ho caldo, come tutti.
Siamo stanchi, delusi, insomma storditi. Eppure andiamo avanti.

Mi piacciono le persone che hanno culo. Nella vita, intendo.
Mi piace ustionarmi, perchè sto nudo al sole, o nudo sotto le stelle. A soffrire il caldo e la noia.
Ecco, la verità è che la noia ti uccide, non il caldo.
E mi sto annoiando.

Comunque, si

Mi ci vorrà tempo per scrivere questa storia. E non ho fretta. Io e Anna ci apparteniamo da sempre, così dicono le nostre lettere. Anna non sa nascondere la paura e io non so camminare sui dubbi, così ci incontriamo al confine, una linea ben definita alla fine delle sue paure, appena prima dei miei dubbi.

Io porto una sedia pieghevole, perchè a volte si tratta di aspettarla per ore. Anna comunque arriva. Camminando piano.

Non credo sia il tempo per scriverne oggi. Raccolgo solo le sue parole. Mi ha guardato, e mi ha chiesto: vuoi essere mio amico. E io mi sono fermato, nel senso che si è fermato il respiro, il cuore, anche le palpebre. E ho detto si.

Anna e io abbiamo iniziato così, con una bugia. O forse con una illusione.

O forse con un confine.

La storia che vorrei scrivere è questa qui. Quella dei confini. Quella delle paure.

L’altra sera sono andato a controllare su Amazon l’ebook di Satelliti. La sensazione è quella di aver mandato un figlio a prendere il latte da solo, con una moneta da due euro. In un negozio ne troppo lontano ne troppo vicino. Sei comunque preoccupato, ma sai che non succederà niente di drammatico. Così controlli dalla finestra. E intanto ne approfitti per controllare i gerani dei vicini.

Ho trovato il mio ebook immerso in una complicata classifica. Complicata perchè era piena zeppa di titoli assurdi: La Morte e L’Amore. Destini Fatali. La Regina delle Montagne. Cuori Uniti.

Sembrava una cospirazione internazionale per i titoli brutti.

E mi fermavo sulle copertine. Proiettili, tacchi dodici, tettone, baffoni. Dopo Narcos, è tutto così noioso.

E ho spento il cellulare e mi sono messo a fumare alla finestra.

Davvero guardando i gerani del vicino. Che ha anche i gelsomini e un fico d’india. A Milano. Che invidia.

Io vorrei scrivere solo storie che mi piacciono, ho pensato. Satelliti mi è piaciuto, mi ha fatto bene, mentre mi faceva male. Così è.

Scriverò di me e Anna. Penso avremo tempo di farlo. Di raccontarci, e di fermarci a pensare.

E’ la prima donna che mi ha chiesto: vuoi diventare mio amico?

E’ la prima volta che mi è sembrato di sentire: resta con me per sempre, inizia da una definizione, che ne ho bisogno. Poi vedremo.

Per questo vorrei scrivere di confini.

Vorrei anche scrivere una cosa che avevo iniziato nel 2013, proprio sui confini. Ma alla fine non posso usare la scrittura come un terapista. Quella roba lì è morta e sepolta. Al confine con il passato.

Poi, la sera, riprendo la mia sedia e vado al confine. Mi siedo e lei arriva.

Dicono che gli amici siano così.

Comunque, si.

Cose da fare in zona rossa

Mi ricordo di esser tornato da Amsterdam con cinque pagine di diario scritte fitte, di ricordi incredibili. La prima cosa che vedi in Olanda è il cielo. Sarà che è piatta, sarà che è più a nord, sarà la sorpresa, ma il cielo è infinito e gonfio. Una cosa così la rivedi solo in America. Il grigio dei palazzi ordinati, le finestre larghe, le strane case strette.

La prima sera in zona rossa camminavo guardando le vetrine, con i neox rosa e fucsia, e le ragazze semi nude e ammiccanti. I coffee shops e il via vai di ragazzi, i distributori automatici di hamburger, la gente in bicicletta.

Ho ricordi molto forti di quei viaggi, perchè erano i primi. Quando salivo le scalette dell’aereo per Amsterdam mi sembrava di dover fare un viaggio lunghissimo.

Ho la sensazione siano passate due vite, da quella vita lì.

E adesso, seduto sopra questo duemilaventuno, ho la sensazione di aver fatto un gran bene, a viverle quelle due vite lì. Con tutto quello che si sono portate dietro.

Sto litigando con una strana pigrizia, per cui se posso rimandare una cosa, la rimando per giorni. Leggo poco, fumo molto, sorrido alle donne che mi guardano dalle mascherine, provo a immaginare un futuro diverso, pianifico un viaggio in moto che mi faccia perdere il senso del tempo.

E seguo il mio piccolo libro, nel senso che è proprio piccolo, nei suoi primi passi. Le due copie, credo proprio le prime ordinate, mi sono arrivate ieri. E me le sono godute rileggendolo tutto. Dire che mi piace sembra scontato. Lo trovo divertente, mi fa pensare alla morte in modo diverso, e mi fa sperare in una vita più divertente, proprio perchè mi ricorda quelle vite passate che sembrano sepolte.

Rette parallele

Si può dire di no a un sacco di cose.

Quest’anno ho imparato a dire di no alle tentazioni, alle imposizioni, alle superstizioni.

Ma non riesco a dire di no alla primavera.

Manco fossi una rondine.

Ho comprato un LC8. Un motore rabbioso e stupido. Due cilindri troppo potenti per i boschi, per la strada. Per quasi tutto.

E alla fine mi sono trovato innamorato. Mi innamoro del ferro, della ghisa, delle imperfezioni e dei sogni.

Lo faccio da sempre.

Ho finito Satelliti, quattordici racconti sugli amanti. Che è il mio modo di scrivere sull’amore. Stanotte dovrei ricevere la bozza finale. Mi piacerebbe vendesse molto, per prendermi un altra moto.

Ho cambiato lavoro. Ci ho messo un po’ a fare spazio ai sensi di colpa e ai dubbi in cantina, ma poi ho trovato uno svuotasolai che se li è portati via tutti. E basta.

Basta nel senso che poi crollo a letto. Spossato.

Perchè mi piace sognare le rivoluzioni ma poi a farle mi stanco un sacco