Se tu

Se tu mi amassi come amo io, mi ameresti male, diciamolo. Lo so da me, non ho bisogno che tu me lo dica. La settimana scorsa, in queste ore, arrivavo a Roma. Avevo bisogno di stare un po’ solo, e così sono andato sul sicuro. Roma è perfetta per sparire. O perlomeno, così mi sembrava. Non è stato facile, restare con me stesso. Non lo è da un pezzo. Sto bene con pochissime persone. Con me, dipende. Posso essere la cosa più bella del mondo, posso essere una tragedia in un atto singolo.

A Roma dormo in questo hotel, un portone piccolo, poco visibile, in centro, davanti alla sede di un giornale, vicino a un centro commerciale. Sono camere piccole, arredate come ti immagineresti un motel inglese. Un posto per amanti britannici, con un violento uso dell’azzurro, sulle tende, sulle coperte, sulle pareti. Il risultato è che sembra di immergersi. Alcune camere danno sulla strada, altre su un cortile interno. All’ultimo piano c’è un terrazzo, con una Jacuzzi e un bar con due improbabili baristi in livrea.

Una cosa che mi è passata, a Roma, la settimana scorsa, è il rimpianto dell’uomo che non sono mai stato. Ho smesso. Come la sinusite, è passato. Ha lasciato un po’ di sporco per terra, i rimpianti lasciano sempre qualche traccia. Ma è andato via.

Mi sono svegliato all’alba. Da solo, senza sveglia, per tutte e due le mattine. Uscivo presto, con gli stessi vestiti per tre giorni, camminando veloce, come se avessi urgenza di dover trovare qualcosa o incontrare qualcuno.

Ho usato il telefono il meno possibile. Amarmi non è un bel lavoro, soprattutto se non rispondo. Lo capisco.

Camminavo veloce fino a un posto, non ho avuto un piano preciso, volevo solo cercare delle cose.

La prima: il bello.

Il bello è soggettivo. A me piacciono palazzi, quadri, persone, particolari di persone come un culo o un sorriso, o anche una ruga da sorriso, o anche solo un pezzo, la fine della schiena, di culo. A Roma ho scoperto che mi piacciono le fontane. Cioè, a Roma hanno una questione molto seria con le fontane, siamo d’accordo. L’acqua che sgorga, il sole che illumina il marmo, lucido. Le fontane mi piacciono. Buono a sapersi a quarantacinque anni.

La seconda: il bene.

Questa vita che mi agita, di cui mi porto dietro tutta una serie di emozioni, come una lunga coda, che aspetta a chiudere la porta, adesso arrivano le mie emozioni. Questa vita qui, la mia, mi piace da matti.
Se mi chiedessi perchè mi agito tanto, perchè corro tanto, perchè, insomma. Beh, per il bene. Ho gli occhi chiusi, la mattina, appena sveglio, e la prima cosa che dico è una richiesta: Dio dammi il bene. E poi li apro, e vado a prenderlo. Come il pane, il bene ingrassa e va sempre condiviso. Per questo, amarmi è bello. Dai. Ammettiamolo.

La terza: il vero.

A Roma conosco una cinquantina di persone. Vengono da diverse storie della mia vita, tra di loro non si conoscono. Con qualcuno ci scriviamo una volta l’anno, con un paio ci sentiamo tutte le settimane. Mi viene da dire, rispetto a Milano, che a Roma non conosco nessuno.
Posso girare la città, a passo svelto, guardando per aria, cantando una canzone, e nessuno mi può dire nulla. Ho bevuto un caffè parlando da solo, davanti a Piazza di Spagna. E nessuno poteva dirmi niente. Nessuno che conosco, perlomeno.
Ho provato anche una felpa rosa, che mi piaceva, e mentre mi guardavo allo specchio facevo le smorfie. Secondo me una felpa rosa va indossata facendo lo spaccone.
Comunque.
Approfittando che nessuno mi conosce, nessuno a parte quei cinquanta che comunque stanno tutti in ufficio, ho meditato molto. Nel mio silenzio, sprofondavo dentro pensieri soffocanti, risorgevo sopra inaspettate felicità, respiravo dubbi e mangiavo certezze.

Sto imparando, tardivo, a dirmi la verità. A cercare la verità. Sport difficile.

Scrivici sopra, mi dico sempre. Scrivici sopra, mi dicono tutti. Ma io scrivo tantissimo. Sopra, sotto, di lato. Io scrivo tutto quello che posso.
Non è facile. Amarmi. E scriverci sopra.

Comunque vada, va pur detto che Roma resterà sempre Roma. E io un po’ mi innamoro ogni volta. Adesso è toccato alle fontane.

Del mattino – le cose che mi mancano

La cosa che mi manca di più è la pace del mattino. E’ successo tutto qualche anno fa, meno di una manciata: le mattine hanno iniziato a dipingersi di colori forti: il grigio del dubbio, il nero della paura, il bianco del vuoto. Da subito ho pensato fosse una roba curabile, con gocce magiche elargite da scosciate psichiatre, che con i modi di una madre premurosa, si sarebbero sorbite tutto il pippone del mio malessere, per poi sorridere scrivendo una ricetta, strappando il foglio dal blocco, e consegnandomelo in mano dicendo sotto voce: “dieci prima di dormire e dieci appena sveglio, tesoro”.

Ok, tesoro è troppo. Ma anche la psichiatra con sottili pantaloni neri, culo sodo, vita stretta e fare ammiccante è una licenza poetica poco credibile.

Come poco credibile che tutto questo casino fosse risolvibile con delle gocce. I primi mesi sono stati duri. A volte mi svegliavo con la paura di morire. A volte ricordando una vecchia fidanzata e pensando che avesse fatto bene a lasciarmi. A volte immaginando il Fisco che mi fotteva quei due risparmi che sono riuscito a mettere da parte. Che poi è una cosa che periodicamente accade.

Ma se il grigio e il nero erano duri da affrontare, il peggio era il bianco. Il vuoto. Ci ho messo un anno intero a trovare una soluzione, e un anno in più a capire che era solamente l’invecchiare. Come con gli occhi. Non leggere le istruzioni sul gioco da montare, o il dosaggio dell’aloe, o peggio ancora i sottotitoli importanti di un video di lavoro, mi sembrava il primo passo verso la morte. Mi sono immaginato impotente, davanti a un mondo che fa della visualizzazione il centro di tutto.

Poi è stato il turno della gratitudine, che come una fiamma non alimentata, si è lentamente spenta. Cazzo. Fare di tutto e non sentire niente.

Ero così spaventato che ho provato a parlarne anche con chi mi sta di fianco. Ho pensato di prendere un cane. Ottimo per l’umore, decisamente utile per la cecità, indispensabile per osservare come una pallina da tennis possa generare enormi flussi di gratitudine e beatitudine.

Per fortuna, poco prima del cane, ho provato a cambiare strada.

La cosa che mi manca di più, in questo docile invecchiare, sono le mattine. Il cazzo funziona che è una meraviglia, e anzi invecchiando mi concedo pensieri sconci appoggiati a qualsiasi dettaglio. Certo, tutto diventa più selettivo, quando si sente di avere meno tempo o meno forze. La testa mi segue, a volte dimentico un nome, e per tutto il giorno mi rimbalza in mente l’idea di essere sulla strada della demenza. Ma poi mi torna in mente, di colpo, e mi rassereno. Non reggo più le sbronze, ma ho molte meno ragioni per dover sbronzarmi. Leggo più libri di prima, rido meglio, mangio decisamente più cose sane, respiro a fondo spesso. Insomma, non ci si può lamentare.

Negli occhi di mio figlio, negli occhi dei nostri figli, ritrovo la gioia corsara, l’assenza della paura. Il colore delle loro mattine è azzurro.

La cosa che mi manca di più è la mattina. Ho imparato a convivere con il grigio, ad accettare il nero, a sopportare il bianco. Ora di pranzo siamo tornati a delle tonalità migliori. Ho imparato a sopportarmi, ecco.

Ma la mattina di un bambino, le mattine del me ventenne, le mattine così, quelle mi mancano da morire.

Terra, capitano!

Quando gli uomini si fanno la guerra diventano brutti. No scusate, gli uomini che si fanno la guerra perdono la bellezza, non diventano brutti. Non c’è divenire nella guerra, ma c’è il perdere.

Mi piace quando capisco le cose del mondo, perché io sono uno di quelli a cui la vita è successa, senza troppe spiegazioni, e sinceramente non sono nemmeno un genio. Ci arrivo sempre, un po’ per tenacia, un po’ per talento, e un po’ per culo, io ci arrivo sempre. Il mondo è una grande isola caraibica, in piena estate, e io sono la vedetta di Colombo, la terra la urlo, fortissimo, ma più la vedo più ho quello stupore dei bambini, che mi cade la mascella, e faccio un grande respiro. Espiro e sottovoce dico, per l’ultima volta: terra. Terra capitano. Ma terra mai vista.

Mi succede, di capire il mondo, e a volte mi sento così felice di averlo fatto. Ma è una felicità sfuggente, assomiglia allo zucchero filato, che sembra chissà cosa ma che poi è niente.

Eppure, di uomini e di guerra non ne avevo mai parlato, anzi mi sembra di aver buttato un sacco del mio tempo a parlare d’amore. Per poi finire a parlare di niente.

La guerra degli uomini per il possesso, per il dominio, per il potere. La guerra degli uomini contro l’amore.

Esiste qualcosa di più vicino alla definizione di assenza di bellezza di un amore che finisce? Di un amore che smette di esistere, e spegne la bellezza, il desiderio, l’illusione.

Terra, commodoro!

Quelle guerre silenziose che vedo combattere da tantissimi, fatte di un sorriso in meno, un messaggio mancato, una gentilezza negata. Ecco dove scompare la bellezza degli uomini.

Mai ero arrivato a queste terre, commodoro, mi faccia scendere con lei ad esplorare, perché sono certo che le guerre d’amore, queste finì che nessuno ha il coraggio di scrivere, alla fine nascondano l’amore. Per un altro uomo, per un’altra donna, per se stessi, per dei ricordi. Perché un uomo dovrebbe andare in guerra cancellando la cosa più pura, la bellezza, se non per amore?

Commodoro, voglio stare su quest’isola, mi scuso ancora per averla scoperta tardi, mi lasci dormire qui, sdraiato vicino alla noia, se avrò freddo mi coprirò con la rabbia, e al mattino esplorerò la giungla di non detto, le grandi paludi, e son sicuro che troverò dell’amore da qualche parte.

Non può esistere un uomo che fa la guerra per fare la guerra.

Per favore, commodoro

5 cose da dire a una donna

Monologo messo in scena per la prima volta a Genova, nel 1974. Teatro pieno.

[La sala è piena, le luci soffuse, la scena si apre su un uomo, seduto al centro del palco]

La prima [da dire, eventualmente, a donne nude, ma senza averlo fatto apposta]: com’è profondo il mare, lo sai che è l’unico posto dove non avrei paura di perdermi, fossi nudo con te. Quel nudo lì, che tu stai a guardarmi, io muovo le mani, tu respiri veloce, io sorrido e tu mi dici: ma che cazzo sorridi? Ci pensavo oggi. Non a noi nudi. Alla profondità del Bosforo, perchè la discussione nasceva dal tunnel della metropolitana che porta dall’Europa all’Asia. Roba che un Alessandro Magno qualsiasi avrebbe pagato tutto l’oro del mondo, invece usavano le galee, ci morivano in quel pezzo di mare, ci facevano le guerre, si ammazzavano come bestie, in quel dramma che erano le guerre. Ancora lo sono. Nel mare, con te non farei la guerra, ecco questo volevo dirti. E il Bosforo, davanti a Istanbul è centodieci metri. Che sono tantissimi. Poi è arrivato l’uomo con le sue idee, e un tunnel ha risolto tutte le cose. Non è vero, ce ne sono altre da risolvere, ma questa qui, per buona pace di Alessandro Magno, è risolta.

La seconda [da dire appena dopo aver rubato un bacio, ma non prima delle ventuno e trenta], che mi sono dimenticato di dirti cento anni fa, quando ti ho vista per la prima volta: per me sei bella come l’Ovest. Si, ok, non è un gran complimento, ma ho anche trovato l’equazione che disegna la curva del tuo seno, sdraiata. No, in piedi non è la stessa cosa, è un fattoriale diverso, una curva diversa, e poi che ne so io di come sono le tue tette quando sei in piedi. Comunque, l’Ovest è il posto più bello del mondo, perchè è lì che tramonta il sole. No no, smettila con questa cosa che il tramonto assomiglia alla morte. Anzi. E poi a Ovest, terra di conquista, sono arrivati i cowboys, le diligenze, i sacerdoti sconfessati mandati in missione. Gente che non aveva paura di morire e che cercava l’oro. Io non ho una pistola, l’avessi comunque non sparerei, è un gesto così definitivo e poco poetico. E non ho nemmeno poca paura di morire, anzi ci sono delle notti che mi alzo di scatto e penso: cazzo e se morissi. Ma è a Ovest che guardo se cerco qualcosa.

La terza [da sussurrare, nel migliore dei casi, a colazione, ma senza mangiare cereali che gonfiano]. Fai attenzione, come quando giri in centro di notte. E’ facile fare a pezzi la ragione con le parole. L’altro giorno ti guardavo, nuda, cercare i vestiti. E pensavo che assomigli a una poesia. Ma io, devi sapere, sono appassionato di vino e vita, e non di poesia. Quindi non so quanto sia attendibile, affidabile, ragionevole, questa roba qui. Ma assomigliavi a una poesia. No, non d’amore. Una poesia. Non chieder troppe cose.

[qui l’attore fa una pausa, prende dell’acqua, siamo pur sempre a tre punti, e lo spettacolo si chiama cinque cose, quindi sappiamo tutti che sta per finire. E’ anche ora di andare a letto, lo senti dal teatro stanco, gente che si muove sulle sedie, a qualcuno scappa la pipì, e sono già suonati due cellulari. Chissà chi è lo stronzo che si dimentica sempre il cellulare acceso, pensa l’attore. Poi riprende]

La quarta [da dire con i capelli in mano]: quando ho in mano i tuoi capelli non ti guardo mai. Perchè mi fa impressione, le mani piene, quanti capelli, e poi sbircio il tuo sorriso, e li tiro un po’. Son cose che se le racconti, poi passi per pazzo. Ti alzi, quasi di scatto, e cerchi qualcosa. Ma ti devo dire questa cosa: a tenere i tuoi capelli capisco di esser perduto.

La quinta [due della prima fila si sono alzati, un peccato, ma cazzi loro]: nudo nel letto penso che dovrei trovarti una canzone. Dovresti essere una canzone, per potermi entrare in testa a sorpresa, mentre distratto leggo il giornale, oppure compro i broccoli, scegliendo accuratamente quelli più gonfi. Dai, è una cosa che fanno tutti. Si dedicano una canzone. Dedichiamoci una canzone. Ci devo pensare. La penombra della stanza fa il contorno delle mie gambe. Non capisco mai niente del mio corpo. Non so, ad esempio, se le mie gambe siano belle. Ma non mi interessa nemmeno. Mi piacerebbe sapere di che colore è il tuo pelo, sarà nero come i capelli, corvino, denso. E non c’è da dire niente, ma resto qui, con l’occhio cerco le mutande, che dormire nudo mi da fastidio. Mi viene in mente il respiro, forte [l’attore respira nel microfono], quello che sale, insieme alle mie mani. E poi ti blocco un polso, con la mano, e tu mi guardi. Lì, proprio lì, capisco che tu meriti una canzone, la canzone merita un posto, le mani finiranno di sperare, ma il posto resterà. Io sono ottimista. Ma la canzone non mi viene.

La troverò.

[qui l’attore si alza. Nessuno in sala si era accorto fosse nudo, dalla vita in giù. Si mette a posto la camicia, guarda fisso il soffitto e sospira. Il pube, molle, il corpo teso. Le signore delle prime file mormorano, un ragazzo ride, due ragazze applaudono. Dalle quinte esce una ragazza. Si mette di fianco all’attore, lo prende per mano. Si inchinano alla platea. Dalla terza fila si alza un signore sui cinquanta e urla: ma che cazzo di roba è questa? Ho pagato per del teatro! La platea mormora. La ragazza lo guarda e ride. Una risata sonora, piena e poi dice: ma tu che cazzo ne vuoi capire di canzoni? Luci spente sulla scena.]

Otto minuti (quanto durano gli uomini a letto?)

Ho otto minuti per scrivere una cosa che ci vorrebbero almeno due giorni.
Stamattina il cardiologo si è soffermato, tenendo pigiato l’ecografo sul cuore, su un punto. E mi ha detto: vedi? Cosa? Non vedi? Bah, fossi stato capace di farmi ecocardiocolordopler da solo, non sarei venuto qui a lasciare due centoni sulla tua deliziosa scrivania di radica.

si vede la stanchezza.

Morirò?

Nessuno muore di stanchezza.

Sabato mattina mi sono svegliato con l’idea di scrivere una cosa importante. C’era un delizioso sole, l’inverno pungente che si confonde con la primavera, anche gli alberi in piazza non sanno bene cosa pensare, e sparano foglie arancioni e rosse insieme a foglie verdi. Possibilisti. Odio quelli che stanno in mezzo. O spari l’inverno o stai sull’autunno, prendi delle scelte, albero del cazzo.

Il cardiologo chiude la cartellina con tutti gli esami dentro. Abbiamo guadagnato altri dodici mesi, sembrerebbe. Statisticamente c’è un bel 85% di probabilità che io schiatti di cuore. Dev’essere terribilmente doloroso, ma molto veloce. E’ una questione di eredità. Mio papà mi ha lasciato 20K, bruciati in due anni di matrimonio quando credevo che comprare mobili fosse un bel piano per una relazione felice. E un cuore decisamente ballerino.

Certo, se smettesse di fumare, sarebbe meglio, dice.

E poi lo stress.

Io odio i compromessi, dottore.

Ma cosa c’entra?

Ha in mente le foglie degli alberi in questi giorni? Quell’indecisione tra inverno e autunno? Non la vede anche lei, da questa splendida finestra che affaccia sulla splendida piazza dove il suo splendido studio si è guadagnato un nome, grazie al suo ecografo e al fatto che di cuore moriremo sempre? Ecco, io quell’indecisione la odio.

Ha una v5 bellissima. Vuol dire che l’allenamento serve. Continui mi raccomando. Continui con la dieta e l’allenamento. Che cosa sta facendo quest’anno? Rugby?

Leggo, prego, corro, piango, penso e medito. Tutti i giorni.

L’anno scorso ho buttato via ore, davvero ore, a discutere con gente che è peggio di quei dannati alberi. Resta nel mezzo. Appesa a passati disegnati sulla routine e futuri pensati da altri.

Dottore sa quanto dura un uomo a letto?

A proposito come va li sotto?

Li sotto io sto bene.

Bene.

In che senso?

beh, a quarantacinque anni

Otto minuti, dottore. Gli uomini, durano di media otto minuti.

Quarantadue minuti per corteggiare, otto per godere.

I numeri la fanno sentire più sicuro?

Al contrario, mi sconfortano. Io voglio vivere per quei quarantadue minuti, non per gli altri otto.

Esco dallo studio, alleggerito di due centoni e con le prove di quanto spingere tutti i santi giorni serva a qualcosa. La grinta batte il talento. Lo dice il mio elettrocardiogramma, cazzo.

Mi prendo un caffè, trovo Freddie. Che in effetti è il suo bar, e sto andando nel suo ufficio, quindi ci sta. Solo che è tutto nella mia mente.

Ieri ero a casa di mio padre, la casa in cui sono cresciuto. Ho spulciato i miei cassetti, e ho trovato le vite che ho vissuto. Scrivevo lettere d’amore bruttissime. Scrivevo, senza saperlo, per scopare. Insomma, scrivevo per gli otto minuti di gloria. Avrei potuto scrivere: senti, io non sono sicuro dei miei sentimenti, ma sono sicuro che le tue tette stiano da dio nella mia mano. E quindi, mettiamocele. Invece scrivevo mi manchi molto.

Infatti non è andata benissimo.

Dirsi la verità fa un male cane, sospiro, mentre sto in una call di lavoro.

A me, per farla breve, stanno sul cazzo le persone che assomigliano agli alberi di Milano.

Brucia il tuo inverno, e se ti stai sbagliando, pazienza.

Proteggi il tuo autunno, e se congeli, pazienza.

Ma non stare in mezzo, stupido. Credi di farlo per gli otto minuti, ma la vita dei quarantadue prima è la cosa più bella del mondo.

A me, al momento, stanno sul cazzo il 60% delle persone che vedo.

Devo, come gli alberi d’autunno, cambiare foglie.

E trovare gente che brucia come me.

Sbaglieremo. Magari. Ma sbaglieremo in gruppo.

E che cazzo.

Duecento euro un cardiologo, ma dove andremo a finire?

Momento Mero – Memento Mori (come curare l’ipocondria)

Ci sono delle volte che le mie paure prendono forme strane. Di solito l’angoscia mi si ferma sullo sterno, si siede e si fa portare in giro per tutto il giorno. Uno pensa, ah la gastrite. Poi, essendo ipocondriaco, ci pensi bene e dici: santo cazzo sto per morire.

E’ questa roba qui della morte che ci fotte a noi ipocondriaci. Le persone presenti a se stesse, quelle che pasteggiano a consapevolezza e tranquillità, non si perdono così. Sentono un peso sullo sterno e capiscono subito che si tratta della pesantezza enorme della loro compagna, che scarica con violenza l’assenza del padre, diversi traumi infantili e la noia proprio sullo sterno dell’amato compagno. E risolvono la cosa.

No. A noi non è dato vivere ragionando. La medicina moderna, quella che trova cure per mali incredibilmente complicati, ha una sola risposta: prenditi due goccine. Mi piace pensare a questi ricercatori americani, alti e magri, con degli occhiali un po’ fuori moda, il gilet della Patagonia, in laboratorio, che sono in grado di spezzettare proteine, infilarci roba, cavarci diagnosi e soluzioni potenzialmente da Nobel. Poi chiudono il loro Mac, spengono le macchine, escono nel cortile del MIT di Boston, per prendere la loro Toyota Camry usata e sporca. Tornano a casa, dove li aspetta una moglie sorprendentemente bella, che si veste con quelle felpe che sembrano sciatte ma che sono sexy. Un saluto in cucina, e lei che prepara una cena veloce. A tavola due chiacchiere, la scuola dei figli, la politica americana, le borse di studio e poi lei che dice: ma amore, perchè non trovate una soluzione all’ipocondria?
Lui appoggia la forchetta sopra un broccolo, e sospira: ma amore a noi che cazzo ce ne frega. Che si prendano due goccine.

E così, abbandonati dal progresso, noi ipocondriaci, restiamo dove ci avete trovato. Le mie paure stanno tutte sullo sterno, poi si liberano, come gli spiritelli cattivi dei cartoni Disney, e raggiungono la testa. E’ lì che di solito dico: santo cazzo, sto per morire.

E’ sabato, questo novembre mi ricorda di quando a novembre stavo a Taipei, che faceva caldo e uno pensava: che clima questo clima tropicale. E un po’ godevi a pensare ai tuoi amici a Milano, con due giacche, a combattere contro l’umido scivoloso e pessimista. Mi ricordo di un bicchiere di cabernet bevuto davanti alla statua di Bruce Lee, ad Hong Kong, in maglietta a metà novembre dove pensavo: mi piacerebbe vivere in un paese subtropicale. Per il clima.

Ed eccoci qui, accontentati.

E’ sabato, e ho deciso di sedermi nella piazza sotto casa a mettere a posto due o tre cose, finire una roba di lavoro noiosa, scrivere mezz’ora il mio nuovo romanzo, che oramai è talmente poco nuovo che se mai dovesse uscire in libreria, possibile che esca già scontato al 50%.

Di fianco a me c’è un ragazzo che sta con la schiena dritta e gli occhi chiusi e respira con una invidiabile calma. C’è una signora con un cagnolino. Lei gli parla e lui scodinzola. Non credo, sinceramente, che i cani possano capire un gran chè di quello che gli dite, ma sono felice quando vi vedo felici e quindi parlategli pure.

Un ragazzo senegalese mi chiede soldi. Glieli do. Fa il giro della piazza e ritorna a chiedermeli. Ora, posto che non sono certo Hemingway, ma se tu mi interrompi il flusso creativo, di certo non ne esce nulla di buono. Gli do ancora soldi. Riparte con il giro. Una strategia che potrebbe pagare, in effetti.

Mi chiama mio figlio. Sento dal tono di voce che c’è qualcosa che non va. E’ iniziata l’adolescenza, quindi non bisogna essere dei geni per capire che c’è qualcosa che non va. C’è sempre qualcosa che non va. Un foruncolo che rovina la giornata, un brutto voto, uno di quei bulletti egiziani, figli di egiziani, italianizzati, che vivono in contesti in cui è normale scassare il cazzo ai figli degli altri, per cui l’unica soluzione che vedo io è che i padri si menino fortissimo, per vedere chi vince e chi ha ragione. La fidanzata, che poi lo sappiamo benissimo che la fidanzata della seconda media durerà, nella migliore delle ipotesi, fino alla terza media, quindi io sarei per il non preoccuparsi per nulla, ma è facile per me dirlo, perchè ho finito la seconda media da un pezzo. Il rugby, che bisogna giocare per vincere, anche se vincere non è fondamentale, ma cazzo bisogna davvero dare il massimo.

Il problema di oggi è proprio il rugby. Stiamo al telefono una ventina di minuti.

Quando metto giù torna il senegalese. Gli faccio notare che così è troppo. Mi risponde male.

Passa una ragazza con un seno enorme, chiuso in una giacca minuscola. Dove mettono le paure, le ragazze con il seno enorme, visto che il seno sta sullo sterno? Più di tutto: ha senso rifarsi le tette se sei ipocondriaca? Non credo. C’è rischio di schiacciare il cuore.

Se lo spremi, il cuore, esce succo di cuore. Ma non conviene farlo troppo spesso.

Chiudo il computer. Il senegalese, mio figlio, le tette della ragazza, mi hanno distrutto il potere creativo.

Passo la lingua tra i denti. Sono reduce da una traumatica pulizia dei denti, per cui per tutta la settimana mi limono i denti da solo, passando la punta della lingua in posti dove tra pochi giorni ci saranno nicotina, resti alimentari, rancore e tutto quello che compone il tartaro.

La vita, a volte, andrebbe solo vissuta. E non pensata.

Bisognerebbe dirsi la verità.

Forse noi ipocondriaci siamo solamente persone a cui non hanno insegnato come dire la verità.

Ma perchè poi dare la colpa agli altri? Forse siamo noi che non vogliamo dirci la verità.

Detto questo, se incominciassi oggi a dire la verità, nel giro di una settimana avrei da rimediare ad almeno sedici disastri colossali nelle mie relazioni più prossime.

Il peso sullo sterno non è un peso: è una bilancia. La cura è semplice: togliere peso, dicendo la verità. Vi invito solamente a ponderare con attenzione le conseguenze. A volte è meglio un peso sullo sterno di un calcio nei coglioni.

La Morning Routine segreta delle star

Ho letto su un libro che il miele della vita che stai cercando affannosamente è nascosto dietro alle sofferenze che stai evitando. E’ una bella frase, mi dico. Di quelle ad effetto, tra LinkedIn e Instagram, che uno la legge durante lo scrolling sul cesso e pensa: che intelligente questo ragazzo. E poi finisce di cagare, si pulisce, si alza, e si è dimenticato di te e della tua frase, ma non di quel video con quel gatto che fa quella cosa che fa tanto ridere, tanto che in cucina, in mutande, mentre scalda il caffè, accenna un : “amore ma perchè non ci prendiamo un gatto”. Mica le dice: “amore ma perchè non cerchiamo insieme il miele della vita nascosto dietro la montagna di cazzi che tutti i giorni affrontiamo stancandoci come degli schiavi e poi ripiegando su picchi dopaminici ed eccessi alcoolici?”.
Lei lo ama, distrattamente, come si ama dopo i sei mesi di innamoramento, che ho letto in un libro che l’innamoramento dura sei mesi, e non lo ascolta davvero, che è un segreto delle relazioni dove si vuole andare avanti per più di sei mesi.

Stamattina mi sono messo sul cesso e mi sono accorto di non aver voglia di leggere. Ho gelosamente costruito una routine che sconfina nell’ossessivo compulsivo per le mie mattine. Mi sveglio, prego nel letto, mi alzo, bevo un litro d’acqua, cago, leggo, leggo cagando, vado in palestra, finisco un workout diverso tutti i giorni con dieci minuti di meditazione, ed esattamente 80 minuti dopo essermi svegliato sono pronto ad andare in ufficio.

Funziona? Ma che ne so io. A me fa stare molto bene. Vivo una vita lavorativa in cui hanno cancellato qualsiasi pallida ombra di comfort zone, cresco una pattuglia di adolescenti che fanno a pugni per trovare il loro posto nella vita, e nel frattempo invecchio. Mi serve una cosa calda, una coperta, un processo semplice, cose che assomiglino al comfort di un abbraccio.

Comunque, questo non è un post sulle routine del mattino. Ricordati di pregare Dio. Il tuo Dio, quello in cui credi. Credono tutti in un Dio. Magari si chiama successo, o soldi, o anche quella malsana idea di possedere tutte le tue coetanee senza voler procreare. Sono divinità minori, decisamente più stupide di un vero Dio, ma è pur sempre quello in cui credi. Chi sono io per giudicarti. Ok, svegliati, ricordati qual’è il tuo Dio. Pregalo. Alzati. E fai la cosa più difficile di tutte: amati. Ho finito.

Non avevo voglia di leggere, così sono rimasto a fissare il calorifero. La luce d’autunno mi stronca, mi dimezza le forze, mi manca quel chiaro che arriva dalla finestra del bagno a ricordarmi: ehy baby, guarda che fuori c’è il sole. Esci. No, fuori c’è un grigio enorme, compatto, soffice come una lamiera. Caga con calma. Nessuno ti aspetta fuori.

Allora mi son messo a pensare al miele della vita.

Sai di cosa non ho voglia di parlare? Di morte. E’ questa la vera cosa da superare quest’anno. No, non parlo della mia morte. La immagino, a volte. Ma poi mi rendo conto che non mi serve. Arriverà. Farà male, forse. Penso alle morti che ho avuto intorno negli ultimi mesi.

Il miele del mio novembre si nasconde dietro alla morte.

Beh, per lo meno me lo sono detto. Cagando, davanti a un calorifero, mi sono detto che succederà. Di dover affrontare questo argomento.

Vi penso, amici. Pietro, Max, Massi, David. E’ stata un’estate tragica, se la mettiamo così. La vita, diceva Chaplin, è una tragedia in primo piano, una commedia in campo lungo. Io, sto giro, ero sul campo lungo. Ho bevuto delle birre, pensandovi. Ma poi sono tornato alle mie cose. A volte penso alle vostre mogli, che sono rimaste vedove a quarant’anni. A volte penso ai vostri figli. Mi gira la testa, perchè penso a mio figlio. E sempre chiamo l’assicuratore e verifico che la polizza sia in ordine. Se muoio oggi, gli arrivano ottantamila euro. Meglio che un calcio nei coglioni, dice l’assicuratore.

Che lavoro del cazzo, l’assicuratore, quando devi parlare di morte quantificandola. Se chiedessi alle mogli dei miei amici, oggi, quanto vale la vita dei loro compagni, se davvero lo facessi, forse dieci milioni non basterebbero.

Ma mi rassicura, sapere di averci pensato.

E prima di morire voglio lasciargli due cose importanti, a mio figlio.

E voglio scopare sotto la pioggia vicino al mare.

E voglio leggere tutti i libri del mondo.

E voglio respirare con l’affanno sulla vetta di una montagna.

Cagarmi addosso dopo un tornante sbagliato in moto.

Sta storia del miele della vita è comunque carina.

Mi sa che me la rivendo.

Cosa fare se si vede poco da vicino

Tre cose mi hanno fatto decidere, repentinamente, di prendere una mattinata di ferie. I peli sulle gambe, le scritte in piccolo sui barattoli delle vitamine, qualche sbadiglio di troppo. C’erano le nuvole, stamattina molto presto, c’era però un sole rosso, che sbucava, tra i palazzi. Ho camminato fino alla chiesa e mi sono seduto in una delle ultime panche. Mio padre ci tiene molto, ultimamente tiene molto a un sacco di piccole abitudini, sedersi nello stesso posto, mangiare le stesse cose, mettere le chiavi di casa nell’angolo del tavolo del bar prima di ordinare un orzo macchiato caldo, due gocce di dopobarba a sinistra, chissà perchè no a destra. Le prime messe per mia mamma erano uno strazio, controllato, ma pur sempre uno strazio.

Il tempo non aggiusta niente, ma insonorizza. Le giornate, come i cartoni delle uova, si attaccano al muro della memoria, e senti sempre meno. Fino a chiederti, ma è normale che non faccia più male?

E’ da poco che mi affronta, ormai è quasi alto come me, le spalle sono larghe, le gambe grosse e sode. Sono uno dei suoi vanti, queste gambe grosse. E i peli, irti, duri, che sono peli da uomo, su gambe da quasi uomo. Ci affrontiamo, e viene a galla il peggio e il meglio. E’ così che si fanno le cose tra padre e figlio? Non lo so, ma resto poi seduto di fianco a lui, con calma, mentre si asciuga le lacrime, a portare quella pace che nessuno mi portava, parole calme, e guardo le gambe e i peli irti. E sento tutta la sua giovinezza. E la mia vecchiaia. Non è male, come sensazione. E’ solo che non te la aspetti. Perchè al bar guardi ancora le ragazze e sorridi, perchè se vedi uno scoglio alto ti viene l’idea di tuffarti, perchè andresti a tutti i concerti più stupidi. Solo davanti alle gambe di un piccolo uomo, ti arriva il passare del tempo.

Questi cazzo di barattoli delle vitamine sono sempre una grande scomodità. Scrivono piccolo piccolo, e io che sono curioso, anzi curioso curioso, voglio leggere tutto quello che c’è scritto in piccolo piccolo. E non riesco. Devo prendere una luce, devo allontanare il braccio, devo strizzare gli occhi, per arrivare alla vitamina K. E mentre leggo, non mi resta in testa niente, se non il fatto che non vedo più. Da vicino. Comprerò degli occhiali, e anche un cordino per non perderli. E’ quello il confine, che attraversano le ragazze al bar, quando le guardi, tra il sorriderti e il darti del lei. Quel cordino lì è molto più di un cordino.

Era talmente noiosa, quella dannata call, che mi sono messo a sbadigliare come se fossi posseduto. Continuavo a sbadigliare. Almeno dodici, ne ho contati, uno in fila all’altro. Eppure, così al volo, sto dormendo bene. E non ho nemmeno bevuto ieri sera. Allora dev’esser proprio noioso. Tredici, questo più lungo, non si può nascondere. Quattordici subito dopo. Mi scrive in chat un collega. Sei stanco? No, rispondo. Sono stufo. E mi piaceva un sacco, qualche anno fa, essere stufo. Quando potevo, di colpo, dare i numeri. Mollare un lavoro. Mollare una moglie, mollare una squadra, mollare un’abitudine. Il mio modo di fare rivoluzioni era questo. Abbandonare, di colpo, e sparire.

No, non ha mai funzionato. Non sarei qui. E non puoi abbandonare niente, nella vita. Perchè un filo ti resta sempre attaccato. E se guardi, quei fili sono quelli che adesso ti tengono in piedi.

Però era divertente, abbandonare, così, le cose, le persone, il passato, il presente, sognando un futuro tutto diverso.

Allora, tra peli, vitamine e sbadigli ho pensato vado a messa, così faccio felice mio padre, che la sua felicità è vederci nelle sue abitudini, come se solo esserci volesse dire che stiamo bene, che siamo tutti insieme. E poi dopo la messa vado a piedi da qualche parte. E poi torno. Perchè sono diventato bravo a tornare, ultimamente.

Mentre cammino ci penso: non mi ricordo quando mi sono cresciuti i peli, sul pube. Non ricordo il mio pube da giovane. Niente di male, credo. Mi ricordo la mia prima barba. Quei tre peli. E le basette. Dio come ero fiero delle mie basette. E non mi ricordo nemmeno quando le vitamine hanno iniziato ad avere bugiardini troppo piccoli per i miei occhi. E non mi ricordo nemmeno l’ultima volta in cui mi sono seduto e mi son detto: va bene anche così.

Allora mi sono seduto. E mi son detto: guarda che va bene anche così.

E son tornato a lavorare

Antonio lo Zingaro

Per un certo periodo tutti, a Zibello ma anche nelle frazioni di Case Rosse e Mulino, avevano seriamente pensato di fare la rivoluzione. O per lo meno una manifestazione. O, al limite, di bloccare la strada provinciale con dei bidoni dell’umido, per farsi sentire dal Governo Centrale. La decisione di lasciare il terreno davanti al distributore di carburanti a quelle cinque roulotte, arrivate nella notte tra il 12 e il 13 di settembre, e mai più partite, anzi vanno tenute anche da conto le tre macchine che si erano aggiunte e la tenda rossa piantata sul lato della farmacia del paese, insomma la decisione di lasciare che gli zingari fossero messi proprio lì, a Zibello, era evidentemente una dichiarazione di guerra.

C’erano seri dubbi che fosse stato Alvaro Fontana, sindaco di Fontananuova, paese da sempre in concorrenza e in battaglia con Zibello, sia per la produzione di prosciutto sia per la raccolta delle nocciole, fiore all’occhiello di Zibello, a chiedere al Governo Centrale che le roulottes e i loro inquilini fossero messi proprio a Zibello.

La tensione era tale che ci volle Roberto Goldi, figlio di Giulio Goldi, il primo che con le nocciole aveva fatto i soldi, adesso residente a Genova, sul mare, ma da sempre protettore di Zibello, e una riunione al Bar Luce, proprio davanti al distributore, per calmare le acque.

Alla riunione era stato invitato il sindaco, l’Alvaro Fontana, il Rappresentante del Governo Centrale, tale Ugo Chiozzi, e il prete del Santuario del Santo Ricovero, Don Lino, famoso per la tonaca sporca di fango.

A sorpresa, si presento Antioco Antonius Koedel, – chiamatemi pure Antonio – aveva detto, stregone del Circo degli Zingari e inventore.

Antonio disse : – ce ne andremo sei giorni prima di Natale, per essere, il giorno di Natale, sul mare. Prima di quella data arrecheremo meno disturbo possibile, a voi e alle vostre donne. Se volete, potremmo aprire il tendone del Circo e offrirvi diversi spettacoli di magia zingara, o aiutarvi nella raccolta delle nocciole, per sdebitarci del, va detto orrendo, spiazzo che ci avete gentilmente concesso –

Parla facile, aveva detto ad alta voce Don Lino. Le nocciole son già raccolte, il Circo è noioso, insomma non servono a niente.

Uomo di chiesa e fango, aveva risposto Antonio, se volete possiamo anche offrirvi le nostre invenzioni. Saprete bene che sono gli zingari ad aver portato le migliori cose nelle vostre terre. Ad esempio le vacche da latte, con le loro grandi mammelle, o i numeri arabi, o anche il colore rosso.

L’Alvaro allora rispose: ma che dici zingaro: i numeri sono arabi perchè vengono dall’Arabia. E tu non sei Arabo, sei zingaro.

Ma siamo stati noi, con le nostre carovane, a portarli a voi.

Vero anche questo, rispose il Roberto Goldi. E quindi cosa ci offri oggi?

Antonio si piegò, come se un dolore lo avesse preso alla pancia, poi si rimise in sesto e, guardando in alto, disse: oggi vi porto la compassione e lo stupore, due cose che abbiamo trovato tra le montagne della Mongolia, nei templi dove monaci pelati le coltivano da secoli, insieme alle erbe mediche e alla pace.

Ci volle un bel po’ di tempo, e parecchio vino rosso, per convincere tutti su questa questione. L’accordo fu, alla fine, di trovarsi la domenica mattina, dopo la messa, nel bosco di noccioli davanti alle stalle del Guaroli, per fare si che Antonio lo Zingaro potesse dare a tutti la compassione e lo stupore.

Lo stupore, aveva detto, serve ai bambini, agli innamorati, ma soprattutto agli adulti che perdono lungo i binari degli anni la voglia di aprire gli occhi.

La compassione serve a tutti, ma soprattutto agli uomini che sentono di essere già arrivati.

Che poi arrivati dove, non si capiva.

La domenica Antonio lo Zingaro si fece trovare con un piccolo tavolo e due sedie, nel bosco, e appena finita la messa tutto il paese si mise in fila per sedersi davanti allo zingaro e ricevere questa benedetta compassione e lo stupore.

Quello che è successo dopo è poco chiaro, perchè l’unico testimone attendibile, il Gino Verdelli, cronista dell’Eco di Piacenza, era talmente pieno di stupore per ogni cosa da aver deciso di smettere subito il mestiere del cronista per lasciarsi andare nei boschi.

Si sa che Antonio partì con la sua carovana, il giorno prescritto, per il mare.

Si sa anche che a Zibello aspettano gli zingari tutti gli anni, ma gli zingari non sono più tornati.

A Zibello hanno imparato a passarsi lo stupore, di padre in figlio, e la compassione tra sorelle e fratelli, tra vicini e vicine.

Sappiamo anche che Zibello non è mai entrata in guerra, dopo questi fatti, e che l’Albergo Postale è sempre aperto per chi ne ha bisogno.

E sappiamo che a Zibello è nato, sette anni dopo questi fatti, Germano Lanzi, figlio di Ettore, il lattaio.

La storia di Germano, e della sua idea di andare nelle montagne della Mongolia a prendere anche l’amore infinito, è un racconto troppo lungo e pieno di cose, per poter stare qui. Per questo, oggi ci basta di sapere che la compassione e lo stupore possono essere insegnati, anche lontano dalle montagne sperdute della Mongolia, e valgono ben più del più prezioso dei raccolti di nocciole.

Ogni volta che piangi

  • Ogni volta che piangi, io vorrei morire, sciogliermi, affogare in quel fiume di lacrime.
  • Aspetta, cosa hai detto?
  • che vorrei affogare nelle tue lacrime.
  • e che cazzo vuol dire?
  • In che senso?
  • Cosa cazzo vuol dire che vuoi affogare nelle mie lacrime?
  • Non so, mi sembrava una cosa per dirti che voglio stare con te sempre

Amanda lo guarda, fisso, gli occhi piccoli, neri, veloci sempre ma adesso immobili. Dobbiamo fare un passo indietro, anzi due. Eccoli qui:

1944, Appennino Tosco Emiliano, strada statale S433, ore 12 del 15 settembre.

Cammina, meglio dire ciondola, cercando ombra, acqua, munizioni, salvezza, e sarebbe perfetto un panino, anche senza salame, ma almeno mangiare qualcosa. I tedeschi sono scappati, meglio dire sono spariti, ma ci sono questi figli di nessuno, che parlano italiano, ma pensano tedesco, che sparano se riconoscono un partigiano. E lui non sa se è un partigiano. E’ solo uno che ha difeso la sua terra, quel confine di meli e pini, il piccolo paese, le donne rimaste, insomma quelle cose li. Ve la faccio breve, ma il tempo non passava più, e le gambe erano come fasci di legna pronti per il fuoco, non si volevano piegare. Arriva vicino a un ponte, la curva in fondo da su un bosco di faggi e pini, il sole batte, c’è odore di bagnato. Una pattuglia di partigiani, i Grigi della Valle, lo recupera, non lo riconosce ma capiscono che è uno dei loro. Lo lasciano alla stazione di Porretta, gli dicono di tornare a Modena.

Lui prende un treno, poi un altro, poi un altro, poi a piedi il confine, e poi un altro. Sono giorni in cui chi controlla è controllato, e chi scappa assomiglia a chi lo insegue, insomma nessuno lo controlla. E arriva a Aix En Provence. E li resta.

1945, Aix En Provence, Chiesa di Saint Maxime

Il matrimonio è molto più di una festa, per Guillame e Amadou. La loro primogenita, Sophie, e questo italiano, comparso dal nulla pochi mesi prima, esplodono di felicità, di intesa, di entusiasmo, di amore, di passione. Lo sa tutto il paese, dove l’italiano lavora come garzone in una banca sul corso. Sophie è mezza matta, anche questo lo sa tutto il paese. Che poi, mezza matta è un modo sbrigativo per raccontare tutto quello che è Sophie. Occhi neri, veloci, capelli color del tramonto, le guance rosse con il sole d’estate, bianche come il latte a gennaio, le gambe sottili e i seni grandi, sodi, forti. Sophie sarebbe bellissima, dicono in paese, se non fosse matta. Per qualcuno, Sophie è semplicemente bellissima. E così è una festa enorme, il 12 giugno del 1945. Anche se sembra tutto così veloce.

1949, Ventimiglia

Sembra che Ventimiglia sia il punto migliore per trovare un compromesso. C’è il mare, a cui Sophie non può rinunciare, c’è l’Italia a cui lui non può rinunciare, c’è un lavoro, a cui non possono rinunciare, c’è una vita intera davanti. Sono giovani, hanno visto la guerra, è ora di ricominciare. A Ventimiglia.

Amanda nasce a Ventimiglia, nel 1968. Nel 1968 nascono cose pazzesche, e muore la fiducia che andrà tutto bene. Amanda ha gli occhi della mamma, le mani di papà e il cuore grande come il mare.

E’ nel 1988, a Milano, per precisione in Piazza Santo Stefano, che Amanda si trova davanti a Giulio. Giulio vuole fare l’amore. E’ chiaro a tutti, anche ai compagni di università, Lettere Moderne. Amanda vuole fare la guerra. Perchè ha la guerra nel sangue, la Provenza, il mare, insomma tutte quelle cose che possono rendere una donna bellissima una questione difficile da risolvere per un uomo. E Giulio, se dobbiamo mettere i puntini sulle i, non è un uomo. Ancora. Lo diventerà nel 1994, con il cancro di suo padre, e tutto il casino che verrà. Ma non lo sa ancora.

Amanda piange spesso. Le viene così. Sono lacrime eterne e infinite, per questo quando piange sembra un fiume in piena. Non sa perchè. Ha pianto in spiaggia, al tramonto, mentre tutti brindavano. Ha pianto la prima volta che un uomo è entrato dentro di lei, ha pianto una notte, svegliandosi sola. Ha pianto tante volte senza sapere perchè.

Con Giulio ha pianto al cinema e a cena. Niente di strano.

Ma Giulio non sa niente.

Amanda prende la sua bicicletta azzurra e inizia a pedalare verso casa.

Giulio non la segue.

Ma che cazzo vuol dire affogare nelle lacrime, pensa Amanda pedalando.

Ma cosa cazzo devo fare con questa donna, pensa Giulio, ma ci pensa poco, perchè trova degli amici, davanti all’Università, con del vino e un programma che sembra la fine del mondo.

Amanda e Giulio prendono due strade diverse. Molto diverse. A Giulio tocca di crescere di colpo, beh insomma di colpo a ventisei anni, Amanda si sposa, sul mare, nel giorno giusto ma con l’uomo sbagliato. Giulio ha due figli, un problema con il lavoro, una macchina che non funziona, come il matrimonio, una madre che non si ricorda come si chiama, e tanta stanchezza, tutta quella che gli occhi riescono a contenere.

E’ ottobre, fa freddo, piove. Che palle, pensa Amanda.

Entra nel bar dove Lucia le ha dato appuntamento.

Al bancone ordina un gin tonic. Si appoggia. Fa un sorso. Sta pensando a quel corso di yoga che costa come un motorino, ma che sembra davvero bello. E al cibo per Nerone, il gatto sordo che ha trovato mentre era in vacanza a Roma.

Giulio riconosce le mani, gli occhi e poi i capelli. Amanda è sempre bellissima.

E glielo dice.

  • sei sempre bellissima, Amanda.
  • cosa cazzo vuol dire, che sono sempre bellissima?
  • Ah, ricominciamo?

E’ andata così