Milano, 29 Gennaio, un sabato quasi caldo.
Ti scrivo perché tu sei quella a cui ho sempre scritto dal confine. Avrai una discreta collezione di queste mie, avendo vissuto buona parte della mia vita a cercare confini da saltare, valicare, superare, distruggere. Mi piacerebbe ritrovarti, un giorno, come ti ricordo io, sorridente, con in mano tutte queste mie lettere, e del tempo per farmele rileggere. Mi piacerebbe rileggere dei miei confini, un po’ come accarezzare la mappa di una vita, seguendo questo viaggio che tutte le mattine ricomincio.
Sono felice. E’ importante da dire, perchè tutto direbbe il contrario. E posso scriverlo solo a te, perchè chiunque, leggendomi mi prenderebbe per pazzo. Sono felice, per davvero, me ne sono reso conto alle cinque e quarantasei dell’altra notte, seduto in un letto inzuppato di sudore, mentre cercavo le forze per bere acqua. La febbre mi ha abitato come una padrona, il corpo si è sottomesso, una lugubre danza di respiri affannati e continuo movimento tra le lenzuola per trovare un pezzo che non fosse bagnato.
Ho avuto paura. Ho ancora paura. La paura mi salva, tutti i santi giorni. Ho avuto paura di qualcosa che non conosco. E’ una paura che ricordo, che so addomesticare, con il respiro profondo e con il grande segreto di togliere il frutto e guardare il nocciolo: non è paura di morire, è paura di soffrire. Inutile.
Questa strana felicità non assomiglia per niente alla felicità mansueta e puttana a cui mi ero abituato, che mi ha lasciato solo quest’estate, andando da chissà chi altro. E’ una felicità grande, respira con me, abita me e solo me, ma viene da altro.
Forse questo punto meriterebbe una noiosa spiegazione. Di quanta fatica io abbia fatto, negli ultimi anni, per provare ad essere felice di me, per me e con me. Ho provato a coltivare erba che credevo potesse essere irrigata dalle lacrime, le mie. Lo dicono le canzoni d’amore, quelle facili che ascolti al mare. Ma le canzoni facili che ascolti al mare sono stupide, come i prezzi degli ombrelloni. Per questo vale sempre la pena stare sugli scogli in silenzio. Questa grande felicità, questa erba verde su cui poggio i piedi adesso, è frutto di tanto lavoro. Ma non è mia. E come tutti i doni, va custodita gelosamente.
Altro grande confine, che ho superato, quella volta senza scriverti, lo ammetto, ma era estate, ero stanco, ero solo, ero di fretta, che sai che io le rivoluzioni le faccio sempre di fretta, così se falliscono non mi sento troppo in colpa.
Ho preso questa felicità, e questa felicità mi abita.
Mi abitava anche in queste notti strane, che tra febbre e pensieri, si dorme poco e si riposa ancora di meno. Lascio la finestra sempre aperta, di giorno, per far entrare aria, come se l’aria di Milano andasse portata in casa, e la notte non chiudo tutte le tapparelle. La luce bianca di un lampione mi fissa e illumina un balcone deserto. E questo vedo, mentre penso a questo confine.
Il mio corpo si è ammalato come si ammalano tutti i corpi. Si ammalerà ancora. Presto o tardi questa lotta la perderò, e non saranno momenti semplici, credo, per chi mi sarà intorno. Io da morto dovrei, spero, non aver grossi problemi con questa cosa. Ma magari i morti soffrono ancora. Immaginiamo angeli pazienti e sorridenti, che ci guardano e ci accompagnano, che è poi come io ti immagino sempre. Ma magari soffri ancora.
Appena la febbre mi ha lasciato, più che sconfitta, gustando un pareggio in cui non ero più caldo ma ero sfiancato davvero, ho lasciato gli strani pensieri sulla paura, sulla morte, e su quelle cose che come fantasmi, abitano le stanze vuote della mia mente quando pensieri più leggeri se ne vanno.
Ho iniziato a pensare ai confini della mia vita. Perchè questo virus, e l’aver provato per due anni a non prenderlo, prima per non morire in un corridoio di un ospedale senza che nessuno sapesse cosa fare, poi per non soffrire, poi ancora per non avere il dubbio di cosa può accadermi domani, insomma questo virus era un confine. Che avrei evitato, forse. Che ho valicato.
Anche la tua morte è stato un confine che ho dovuto attraversare. Ma è un paragone infame. La morte delle persone amate è un confine che passi da sconfitto. L’unica similitudine è la paura. La paura del domani. E domani cosa c’è? Senza di te, mia amata. Dopo questo virus. Domani.
Ho scritto tantissimo sui confini, costruendo un’epica eroica, immaginandomi svelto, energico, forte. E ridendoci sopra. Ma non tutti sono stati momenti facili.
Vorrei la mia biografia si chiamasse “Confini”, e fosse un semplice diario di tutti questi passaggi. C’è un denominatore comune, che rende l’equazione giusta. Un filo conduttore, di tutti i miei confini, di tutte le mie storie, di tutte le mie tentate rivoluzioni. C’è questo filo nelle mie vittorie, e nei miei grandiosi fallimenti.
La redenzione.
Ho speso, a cercare di costruirmi la felicità da solo, un sacco di tempo sulla compassione. Compatire gli altri è nobile e puro. Stare dove sono gli altri, in quel piacere, in quella sofferenza, in quel modo di vedere il mondo, questo è compatire. Nobile. Ma inutile.
Nella tradizione ebraica, la redenzione è, come tante cose nella tradizione ebraica, una questione molto pratica. Se un uomo ha perso dei beni, il suo parente più prossimo può riprenderli, a un giusto prezzo. Anche il figlio primogenito, che appartiene a Dio, può essere redento, con un dono al sacerdote. A volte vorrei essere così pragmatico, come gli ebrei. Ma si perdono il bello della redenzione.
Ho letto, cercato, e studiato, per trovare la laicità della redenzione. Niente di interessante, sul Corano, nemmeno negli scritti sacri del Buddha. A Est, la redenzione si perde confusa nella reincarnazione, a Ovest si macchia del senso di colpa.
Così nemmeno la morte porta redenzione.
Eppure è la redenzione che rende possibile tutto il resto. Il perdonare davvero l’errore, l’orrore, per davvero.
Ci pensavo camminando dentro la Riseria di San Sabba, a Trieste. Mi sembrava di sentire ancora le urla di quei poveretti, uccisi con una mazza ferrata. Come si può perdonare? Come può esistere la redenzione?
Quello si che è un confine.
Che pensavo di non riuscire a superare.
Come posso perdonare il tradimento, l’abbandono, la delusione?
Come ho potuto non farlo subito, mi chiedevo l’altra notte, ripassando con le dita sulle lenzuola, la mappa dei confini e trovandone molti che ho valicato per rabbia e per scappare. Quante volte sono davvero scappato perchè incapace di perdonare, di perdonarmi?
Ti scrivo da questa camera, che affaccia su una piazza che sento di non aver scelto come casa, mentre sorrido pensando a quanto io abbia sofferto inutilmente per non esser stato capace di aver perdonato.
Questa malattia è stata un confine, è un confine che resterà impresso nella memoria, è una scorciatoia per sentire vicino chi vicino è davvero, è un modo per ripensare alle cose importanti, come ogni volta che ci si ferma.
Ti scrivo solo per dirti che ho perdonato la morte, per averti portata via, e che vorrei tanto essere perdonato per non aver portato la vita ovunque, per aver perso tempo a fare cose stupide, a mentire a me stesso e alle persone, per aver giocato le carte sbagliate nelle partite sbagliate. Ecco.
Ti scrivo per dirti che sono felice. Senti cosa ti scrivo adesso, ascolta le mie parole. Una alla volta. Ti scrivo perchè sono felice.
Questo confine è stato quello più difficile da valicare.
Vorrei davvero che la mia biografia si chiamasse “confini”, e che fosse una lista di tutti questi passi avanti, indietro, di lato, di questa mappa a cui aggiungiamo oggi un altro confine.