Prima Vera

E di quest’anno in cui non ci siamo scritti, parlati, chiamati, cercati, voluti, sperati, insomma nemmeno immaginati, cosa mi dici?

Inizia tu, che io faccio sempre fatica ad ascoltare. Certe cose non sono proprio cambiate, anche se ti devo dire che le mie orecchie hanno trovato pace, e mica solo le orecchie. Anche le rughe sopra gli occhi, e gli occhi, la bocca, l’ingombrante naso. Senza andare troppo per le lunghe, pare che tutto me abbia trovato pace. Forse le ginocchia meno. Scricchiolano, come vecchie credenze di campagna, quelle che tengono le stoviglie, che quando le apri fanno quel rumore sordo, amaro. Le mie ginocchia stanno diventando così. Instabili. Ci ho corso quasi seicento kilometri. Tantissimi in posti noiosi, terribilmente noiosi. C’è questa idea poetica per cui mi piace correre per seminare i miei pensieri. Ma a dire la verità, quando corro in città, i miei pensieri mi aspettano, agli angoli delle piazze, dietro gli alberi, seduti sulle panchine. Sanno come trovarmi. I miei pensieri. E forse io voglio farmi trovare. Però ho anche corso a Venezia, all’alba di domenica, da solo sui canali. Ho anche corso sulle colline marchigiane, perdendomi per seguire il profumo dell’erba. Ho corso tra gli ulivi in fondo all’Italia, ho corso a Trieste, nel gelo tremendo della bora di gennaio, ho corso a Londra, insomma provo a correre anche dove io e i miei pensieri andiamo più d’accordo.

Ho fatto la pace con molte cose. Non sapevo che a quarant’anni si dovesse fare la pace con le cose, con le situazioni, con le emozioni. Ero rimasto che la pace si faceva con le persone, come l’amore. Ma a quarant’anni non è più così. Non mi sento migliore di prima, ma mi sento molto meglio di prima.

Prima di cosa, quando avremo tempo, te lo spiegherò.

Ho ancora paura della malattia e del rimpianto.

Mi è venuta una strana fissazione per i cantautori italiani, una predilezione per Battiato. Una scoperta tardiva. E’ stato l’anno, il mio quarantaduesimo, delle scoperte tardive.

Battiato, i pomodori, l’origano, il piacere senza il sesso, il sesso senza amore, l’amore senza sesso, il silenzio senza amore, il giornale la domenica mattina, la sveglia presto, la poesia italiana, il cinema la domenica, la pizza la domenica, e il digiuno di martedì. E la marmellata al mandarino, i libri arabi, lo scrivere libri, e il non riuscire a scriverli, i maglioni marroni, le camicie che non si stirano, le moto pericolose, la sincerità con gli amici, le occhiaie del giorno dopo, i sorrisi contagiosi, le mani che corrono veloci a cercare nelle tasche cose che hai dimenticato a casa.

Penso che niente mi abbia sorpreso come i pomodori.

Ma niente mi ha accompagnato come Battiato. Perchè si presta all’estate, perfetto per l’autunno, ideale d’inverno, amabile in primavera. Per tutte le stagioni, come quel maglione blu che ho sempre addosso.

Più di tutto, la scoperta della solitudine. Quella buona.

Mi è arrivata addosso una domenica di luglio, mentre in moto rifacevo strade di quando ero bambino. Ero andato a cercare ricordi che mi facessero stare bene. E ho trovato cose normali, posti niente di che, un fresco fastidioso, e la solitudine di dovermene accorgere da solo. Mi è rimasta addosso come una coperta. A volte mi ci nascondo, io che sono sempre in mezzo alla gente.

Insomma, anno intenso. Perfetto da ricordare, faticosamente bello da vivere.

A capodanno ho guardato il cielo, ero sotto una stellata stupenda, e ho lasciato cadere qualche convinzione per terra, due o tre certezze. Ho provato a lasciar scivolare anche dei dubbi, ma sono rimasti attaccati ai pantaloni.

A un certo punto, una sera, sono sceso in box. Ho costruito una specie di nascondiglio segreto. Ci ho messo delle luci accoglienti, una scrivania, due libri, dell’acqua. Ogni tanto ci vado a leggere. E a guardare le moto. Insomma, sono sceso in box e ho deciso di vendere la moto. Mi sembrava troppo, avere una moto che andava a nostalgia e rabbia. Ho trovato un commercialista di Legnano che la voleva a tutti i costi. E come dargli torto, quella bellezza spigolosa, quella rabbia che si sentiva nel motore e sul telaio.

Quando l’ha caricata sul furgone mi sono sentito liberato di un obbligo.

Poi mi sono messo a girare tutti i concessionari, come uno sfigato qualunque, a farmi spiegare le cose che spiegano adesso, dei navigatori, dei caricatori dei cellulari, delle sospensioni regolabili come se dovessi andare nel deserto tutti i giovedì pomeriggio. Mi sono fatto fare un preventivo, che ho appoggiato sulla scrivania dell’ufficio. E ci ho fatto i conti. Per un mese. E poi ho deciso, sul cesso, una mattina, che non solo si vive una volta sola, ma che è indispensabile per me tornare alla bellezza. Che quando la trovo non so staccarmene. E ho scelto una moto che mi toglie il fiato. E che mi fa sorridere.

Quando la lascio fuori dai bar, mi piace guardarla dalla vetrina. Ha le tette e i fianchi larghi. E mi ricorda la bellezza delle donne. Mi piace guidarla. E a lei piaccio io.

Ho anche scritto un secondo libro. Più un diario, scomposto, ma serio.

Se togli che ho finalmente messo a posto la questione delle mutande, non mi sembra manchi altro.

Le mutande sono riuscito a prenderle tutte uguali. Un po’ alla volta, che la commessa ormai mi riconosce. Ah lei è quello dei boxer a righe. Mi piace guardarmi nello specchio la mattina e trovare i boxer.

Ho ricominciato a viaggiare. Ma ho ancora nel cassetto quell’idea del deserto in moto e del Tibet. Non vorrei lasciare le mie idee nel cassetto per troppo tempo.

Non ha senso che poi le trovino altri.

Ma ho anche imparato a non esagerare, con l’idea di dover fare tutto.

Ti avevo chiesto di iniziare a raccontare, che poi come vedi se inizio io è un disastro. Mi piacerebbe ci raccontassimo più cose, e che guardandomi tu trovassi il coraggio di ammettere che ha senso immaginare la tua bellezza appoggiata sui miei occhi.

Scrivimi. Parlami.

Così si inizia sempre.

P.S.: quest’anno, ad agosto, ero seduto su degli scogli, e cercavo di capire una cosa sui bambini che giocano con i salvagenti. E mi è venuto chiaro in mente che l’amore, quello vero, è uno solo. E’ una cartuccia sola, sparata senza preavviso. Ho deciso che sarei tornato a sedermi su uno scoglio, spesso, per capire se quella cartuccia fosse già stata sparata per me. Toccando il foro sul cuore, per sentire quel vuoto che l’amore lascia quando entra. Mi sono reso conto che l’amore vero è uno solo, che è un peccato anche solo pensare che sia facile trovarlo. Mi piacerebbe solo poterlo riconoscere, anche dopo. Da agosto mi cullo nell’idea di un me vecchio, non troppo, ma comunque vecchio, che fumando una pipa di radica, si abbandona nel ricordo di un unico grande amore.

Devo iniziare.

Almeno a fumare la pipa.

Per esser pronto.

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