Mia mamma è morta un giovedì pomeriggio di ottobre, mentre pioveva. Facile da dire, ma i giovedì, ottobre, e la pioggia mi sono venuti subito antipatici. Anche l’espressione “si è spenta”. Mia madre non si è spenta, è morta, come solo il cancro è in grado di uccidere. Si spegne una lampadina, si spegne una moto, una morte ha pochissima poesia, perlomeno per chi rimane. Mi ricordo che non riuscivo a stare nel silenzio surreale della camera, ritmato dai singhiozzi di mia nonna e di mia zia. Cercavamo di capire se stesse ancora respirando. Insomma, la cosa andava avanti da troppo, un respiro in meno o uno in più non avrebbe fatto molto la differenza. Ma per noi, i rimasti, era questione fondamentale. Come anche l’orario preciso. Le sedici e quaranta. Alle sedici e quarantadue ero seduto in soggiorno, appoggiato allo stereo, mentre la radio passava “gli angeli” di Vasco. E fumavo la mia prima sigaretta in casa. Alle sedici e quarantaquattro mi sono reso conto che il tempo sarebbe passato molto più lentamente. A questa cosa del tempo mi ero abituato. La morfina, il silenzio, i cucchiaini d’acqua, e Kundera. Per allungare il tempo, accorciando la sofferenza. Il tempo si dilata, quasi ti volesse regalare momenti in più, proprio quando tu non sai assolutamente cosa fartene, anzi vorresti che tutto scorresse molto più velocemente.
Alle sedici e cinquanta hanno citofonato. Tu vorresti stare da solo, nel mondo, invece ti ritrovi gente che citofona. Allora, alla lista, dopo i giovedì, ottobre, la pioggia, aggiungi anche il citofono.
Alle sedici e cinquantacinque ho deciso di smettere di guardare l’orologio. Sono andato da mio padre, e ci siamo abbracciati. Insomma, non avevo molto altro da fare. Poi di colpo, mi sono caduti addosso agosto e settembre, tutte le notti insonni, tutte le lacrime che non avevo pianto, tutti i sospiri, tutte le volte che sono rimasto in piedi, quando il ragionevole senso comune diceva di lasciarsi cadere per terra.
Mi sono sdraiato, nella mia stanza, per terra. Mi sono addormentato. Ho dormito. Mentre il citofono suonava e la pioggia cadeva infernale. O forse non infernale. Ma comunque era giovedì, era ottobre, e pioveva.
Poi, alla fine avevo diciotto anni. E queste cose dovrebbero succederti quando di vita ne hai a sufficienza sulle spalle. Non a diciotto anni. E allora, ho pensato, ci ripenserò quando sarà più giusto pensarci. Pensavo, forse l’età giusta per vivere una cosa del genere è venticinque, o forse trentasei, o forse quarantadue. Non sapevo che la risposta era molto più semplice: mai. O forse sempre.
Quelli che dicono che il tempo migliora le cose, sono come quelli che dicono che un battito d’ali di farfalla a Pechino provocherà una tempesta a New York. E’ delizioso da credere. Ma non è così.
Non è il tempo che migliora le cose. Sono le cose che migliorano il tempo. E sono le cose a migliorarti.
Le cose e le persone. Quando vedi tutto questo andirivieni di speranza, attaccata a una TAC, quando vivi appeso a un appuntamento da uno specialista, quando il mobile della camera si riempie di flebo, cotone e pannoloni, capisci il peso specifico di una persona. Oddio, impari anche un sacco di cose pratiche, diventi pragmatico, sviluppi una lodevole predilezione per il rhum, fai un sacco di cazzate per le quali ti consigliano uno psicologo, ti trovi forzatamente a crescere di un paio d’anni in un paio di giorni, trovi sempre gente disperata al cesso, e ti tocca urlare alla zia di Torino, sorda come un toro sessantenne, che la mamma non può rispondere perchè al momento è zeppa di morfina, e no, non ti richiamerà dopo, perchè dopo sverrà nel letto. Poi, in un secondo tempo, impari anche a mandare a fare in culo la zietta sorda. Che di contro, ti chiederà, con il candore della demenza, perchè non le passi la mamma. Impari a vivere come tutti. Andare avanti. Tu hai una lista lunghissima di ottime ragioni per non uscire nemmeno di casa, il mondo ha una lista lunghissima di ottime ragioni per pretendere che tu lo faccia. Impari a farlo.
Impari a guardare le persone negli occhi, impari quanto sia relativo un problema, quanto piccole siano certe cose della vita. Impari a pensarci a fondo. Senza occupare il cesso. Che sta cosa del cesso sempre occupato per piangere, non ti va giù. Ma, sembra sia così, in questa fottuta cultura occidentale, ognuno ha diritto di esprimere la sofferenza come meglio crede e dove preferisce.
Impari, in verità, a non perderti niente. E’ troppo importante. Impari, anni prima di Facebook, a contare gli amici. Basta, ti avanza, una mano.
Impari a dare amore, come se davvero domani, che ne sai, i pannoloni fossero per te. O per la persona che hai davanti. Se lo dici ti danno del pessimista. Poi vanno sotto come un treno quando la nonna novantenne scompare per un pomeriggio, accompagnata dal vecchio Alzheimer, in giro per le stazioni della metropolitana.
Impari a dare amore, e a prendertelo.
Impari. E non te lo dimentichi. Mai.
Poi, con il tempo, le cose prendono il loro posto. I giovedì tornano ad essere accettabili. La pioggia,te ne fai una ragione, è normale. Ottobre, cazzo, capita tutti i fottuti anni. E ce ne sono stati anche di stupendi. Di ottobre. I citofoni ti urtano ancora, ma questo per via del suono orrendo.
Poi con il tempo, le persone prendono il loro posto nella tua vita. Non pensi più ai pannoloni e alle flebo. Ma sai riconoscere, in meno di un battito d’ali di farfalla, una persona che ti sta dando amore.
Sai quanta paura abbiano le persone. Di dirlo. Che stanno dando amore. Che lo fanno.
Ma tu le senti. E le tieni vicino.
Perchè le persone non sanno quanta paura abbia tu, di ritrovarti infilato in un pannolone, sapendo di non aver amato abbastanza.
Poi, permettetemi di dirlo, ma che cazzo di sfiga quella di aver sentito “gli angeli” di Vasco. Avete una fottuta idea di quante cazzo di volte la passano per radio? Che uno i giovedì, ottobre e la pioggia se li fa andare anche bene. Ma Vasco no. Una canzone di Vasco, te lo insegnerà la vita, sopravvive a intere generazioni di nuovi cantanti, e continuerà ad essere programmata, in eterno.
Come è evidente che sia, questo pezzo è dedicato a mia Madre, che mi ha insegnato ad amare. E a tutte le persone che, in questi quindici anni, mi hanno dato del coglione perché non ho amato abbastanza o perché piango sempre quando ascolto “gli angeli” di Vasco.
Quattordici, di anni, notte tra il 30 aprile ed il primo maggio, festa dei lavoratori- cavolo ma non si può morire il giorno della festa dei lavoratori- l’odore dell’incenso nelle narici che, non ho potuto più sopportare anche a distanza di anni. Il vuoto si colma, con il tempo, con la vita che scorre, ma resta lì, resta come un cappotto di lana addosso con 30 gradi all’ombra. Una madre, non dovrebbe mai morire…e forse non lo fa mai davvero.
Raffaella
Muoiono. Lo faremo anche noi. L’importante è cosa lasciano