E’ successo repentinamente. Repentinamente, se lo scandisci, da proprio quell’idea lì: repentina – mente. Sembra velocissimo, stretto, un po’ acido.
Ci sono parole che raccontano intere sensazioni. Repentinamente, ad esempio.
Anche colluttazione, ti da l’idea di pugni tirati su nasi non pronti, forse per la doppia elle e la doppia ti, messe lì vicine.
Ad ogni buon conto (non voglio usare “comunque” per tutto il mese di giugno), è successo repentinamente. Sono diventato mio padre, alle 18.24 di un martedì sera di giugno, la data resterà segreta per garantire la privacy dovuta ai testimoni del fatto, successo repentinamente, come già detto, al Parco Fomentano, Milano, uno dei parchi cittadini che riescono a raccontare la sconfitta del verde sul cemento.
Sto scrivendo questo dannato nuovo libro, che doveva essere una passeggiata, che avrebbe dovuto esplodermi addosso come un barattolo di ketchup spremuto male, dannati tappi di plastica, niente è così approssimativo come un tappo di plastica. Il flusso di coscienza, le storie, le idee, avrebbero dovuto copiosamente sgorgare dalla mia duttile mente, per finire questo dannato nuovo libro in men che non si dica, darlo in pasto all’unico editor che mi da retta, provare a convincerlo che i racconti sono ancora la forma più nobile di letteratura, magari chiamandola autofiction, che adesso va tanto, e concordare un compenso adeguato, una data di pubblicazione, eccetera eccetera.
Come per tutti i miei progetti, ho sottovalutato il nemico. Anzi, questa volta non lo ho proprio visto, il mio nemico. Silente come un navy seal, preciso come un chirurgo, ossessivo come un avvocato penalista al secondo divorzio e con due case in Liguria (una fronte mare che è una delizia, sulla baia di Sestri, che è una delizia, proprio sopra quel negozio di focacce, che è una delizia, ma cosa te lo dico a fare, fatti una casa a Sestri anche tu), il mio nemico è arrivato.
La mia nemesi. La mia fine. E la fine delle operazioni di scrittura di quello che doveva essere il mio prossimo libro, facile facile.
Il primo racconto è andato via liscio. Il secondo, il terzo, fino al quindicesimo, tutto benissimo, a parte che avrebbero dovuto essere dodici, ma meglio abbondare che deficere, dicevano. Poi ho deciso di scrivere una cosa su mio padre. Perchè alla fine questo libro racconta le cose che mi stanno succedendo, e quel naufragio emotivo che è il rapporto con mio padre è in continua evoluzione. Perizie sul relitto, mareggiate che spostano le prove, giornate di sole in cui non facciamo niente, e pomeriggi di tramontana in cui piangiamo i caduti. Una bella storia, la storia di tantissimi di noi, forse. La questione è semplice: inizio a scrivere. Mi incazzo dopo dieci minuti. Mi accendo una sigaretta, mi incazzo perchè mi sono acceso una sigaretta, penso che sia un pezzo bello da mandare al Mucchio Selvaggio, che insieme a Will sono quelli ancora interessati a queste robe qui, ricomincio a scrivere, mi incazzo ancora di più.
Allora medito.
Ecco la svolta, cazzo.
Ho letto almeno venti libri sulla meditazione, mi sono sorbito una cinquina di corsi, trainings si dice, di cui uno sul respiro che è stato una bellezza perchè quando le donne respirano con il diaframma si gonfiano le tette, e tutto torna a posto nel mondo dell’uomo che le guarda.
Posso dirvi, lo dicevo ad un amico che è appena rientrato da un ritiro, si chiamano ritiri, retraits babies, che la meditazione è la più grande arma che abbiamo a disposizione.
E’ la chiave con cui apri la porta della consapevolezza. Che frase. Traduco: a volte serve anche pensare. Trainings, retraits, seminars: pensare, cazzo. Lo facciamo da tempi immemori, ma ultimamente pare che per farlo bisogni meditare.
In ogni caso (“comunque”), mi metto a pensare a mio padre. Visualizzo, respiro, modello, respiro, sposto, respiro, localizzo, respiro, mi incazzo cristo santissimo.
Allora mollo tutto. Tanto nella vita non faccio lo scrittore, quindi posso permettermi di mollare.
Chiudo il laptop, e vado a letto. Dove mi incazzo ancora di più. Incazzo è una parola mozza. E’ una scorciatoia: vuol dire tutto e niente. Mi arrabbio, provo rabbia, forte, densa, concreta.
Ci penso tutta la notte, e non dormire è un bel problema per noi, giovani adulti con un lavoro nove diciotto, dei figli diciotto ventiquattro, un mutuo treseicinque eccetera.
La giornata che segue, appunto quel martedì, è un disastro. Mi va bene che, ultimamente ho imparato a gestire le giornate disastro con un sapiente cocktail di tecniche di sopravvivenza, tra cui la corsa.
Sport tra i più stupidi e pericolosi del mondo, praticato dai più saggi e resilienti del mondo. Che è sempre meglio del tennis, sport tra i più saggi e resilienti del mondo, praticato dai più stupidi e pericolosi del mondo.
Corro, è ormai sera. Passo veloce, tengo botta, pulsazioni fuori controllo, ascella sinistra che piange un lutto di cui l’ascella destra non era al corrente, il che porta la mia ipocondria a pensare di avere un problema alle ghiandole. Menisco destro che cigola, schiena che batte e rincula sull’asfalto, musica casuale che poi finisce sempre per prendere le dodici canzoni che mi fanno cagare nella mia libreria da nove e novanta al mese. Passo un gruppo di bambini, ragazzini, insomma di dodicenni, indaffarati a fare delle cose su una panchina. Quattro maschi, una femmina. Mentre passo origlio delle bestemmie, di quelle belle e articolate, con divinità, animale e job description.
Mi viene spontaneo, con un fiato corto vicino allo spasmo, di dire: “dai cazzo almeno le bestemmie no”.
Che poi è un retaggio culturale che mi porto dietro da mio padre, appunto.
Cazzo vuoi che sia una bestemmia, detta per altro inconsapevolmente, e con fare da duro per darsi un tono, davanti alle loro esistenze fottute dalle loro tossiche abitudini? Il male minore, direi. Piuttosto fermati e ruba loro i cellulari, togli le sigarette elettroniche, obbligali allo studio di Battiato e della musica elettronica. Se vuoi essere d’aiuto.
Mi sono fermato e mi sono detto: cazzo, sono diventato mio padre.
Repentinamente.
Non repentinamente me lo sono detto, ma repentinamente lo sono diventato.
E’ stato illuminante.
E’ una dura verità.
Mi piace? Non lo so ancora. Sono restio ai cambiamenti imposti e ad ogni buon conto (“comunque”) fatico ad adattarmi a scelte imposte come la monogamia e il bon ton.
Non voglio urlarlo troppo forte, ma credo che ci siano buone possibilità che questa cosa sia definitiva. Che sia un inizio, insomma, e non una fine. Cioè non è che sono diventato mio padre e che tutto finisce qui, peggio: sono diventato mio padre e tutto inizia da qui.
Ho le prove che stia succedendo, ma non ho voglia di analizzarle. Quindi temporeggio. Il libro nuovo resta sospeso, con questo racconto mozzo, e io mi osservo da fuori, fare cose che, a tutti gli effetti, avrebbe fatto mio padre. Nella cessione del quinto delle mie aspettative, chiedo in giro, con fare finto distratto, cosa siano i padri dei miei amici per i miei amici.
Ascolto racconti superficiali, ascolto storie di rabbia, ascolto storie di stima. Insomma ascolto. Potrei scrivere un libro sui vostri padri. Ma non ne abbiamo voglia, vero?
Potrei scrivere un libro su mio padre, su di me.
Forse dovrei.
Spiace dirlo, ma è tutto tecnicamente complicato, se ti fermi a pensare. Che poi è il motivo per il quale mediti sei giorni e poi torni alla tua vita, superficiale come la schiuma del cappuccino.
Sono, tecnicamente, in un momento complicato, in cui so di dover fare una cosa, ma non ne ho molta voglia. Mi ricordo mio figlio. Sono diventato mio figlio?