Rivelazioni

Mi piace svegliarmi presto. Mi piace svegliarmi presto e restare per qualche minuto a respirare, nel letto. Non mi piace il buio, lascio sempre due dita di luce. Mi piace sgarrare, a volte tre dita di luce, a volte lascio aperta la finestra, anche se fa freddo. Mi piace l’imprevisto. Mi piace, mentre respiro, sentire il corpo, osservare la pancia che si gonfia, inspirando, sentire le gambe che si rilassano, espirando.

C’è stato un momento in cui mi sentivo di avere tutte le risposte. E’ forse stato il momento in cui, mi avessi incontrato, mi avresti dato per arrogante. Era una difesa, infantile, contro la vita, che schiacciava sul pedale dell’acceleratore. Non per giustificarmi, ma solo per dare il giusto peso.

C’è stato un momento in cui mi sentivo di avere tutte le domande, e cercavo almeno una risposta. Respiravo veloce, mi avessi incontrato mi avresti potuto scambiare per un cerbiatto molto spaventato. Non so perchè, ma i cerbiatti mi sembrano molto spaventati. Diffidenti.

Momenti, comunque, che mi piace ricordare. Dice, tu sei cambiato, forse troppo. Vero, rispondo. Non credo nessuno cambi troppo. Ma credo di aver dovuto pagare qualche debito alla vita, e di essermi trovato a corto di idee, poi di essermi ripreso, poi di essere caduto ancora, poi di essermi rialzato, zoppicando, poi correndo. Insomma non mi sono annoiato. Sono cambiato, dai facciamola breve. In meglio? Dipende da come mi guardi.

Adesso, mi piace la mattina, restare nel letto a respirare, qualche respiro profondo. Poi mi piace pregare. Scandire nella mente il nome di Dio. E ringraziare. Ci sono stati dei giorni in cui non avrei saputo per cosa, esattamente, ringraziare. Ma poi ho imparato. La gratitudine è una cosa che si impara, ho imparato. E’ un muscolo delicato, che va allenato tutti i giorni. Così ho fatto. Giorni in cui ringrazio per la frittata della sera prima, giorni in cui ringrazio per essermi innamorato di un film, di una canzone, di un sorriso, giorni in cui ringrazio per dei soldi, giorni in cui ringrazio per non averne. La mattina mi piace ringraziare, pregando.

E poi, mi piace fare spazio. Respirando. Faccio spazio al niente. Sposto pensieri, preoccupazioni, perplessità, dubbi, sposto tutto in un angolo, come quando volevi ballare in soggiorno, al liceo, e spostavi i mobili di corsa. E faccio spazio.

Aspetto, questione di due o tre respiri, e mi arriva qualcosa. A volte paura. A volte rimpianto. A volte gioia, qualche volta felicità. Una volta niente. A volte mi viene da ridere, al buio nel letto. A volte da piangere.

Non ho grandi domande. Non ho grandi risposte. Faccio spazio.

Poi mi alzo, a memoria cammino verso il cesso. Piscio. Bevo acqua, metto sul il caffè. Mi siedo sul divano, al buio, e mentre apro il giornale, mi chiedo sotto voce: è così che te la immaginavi da bambino?

Non mi rispondo.

Poi, si alzano tutti gli altri, ma è tardi. Sono già via.

Somatizzare male

Un bambino che gioca con la sua bicicletta, una bicicletta pieghevole, portata nel baule della macchina, in una domenica qualsiasi, per farlo stare buono, come tutte le domeniche, mentre i genitori fanno altro. A un certo punto incontra un serpente, sulla ghiaia, nel mezzo del giardino.

La psicologa mi chiede di tornare a un ricordo specifico, io lo faccio. Mi sono fidato delle donne, in passato, ed è sempre andata maluccio, ho pensato mentre Marina mi diceva: dobbiamo fare in modo che lei si fidi di me. Una delle prime donne della mia vita che me lo chiede senza spogliarsi o gettarsi sul mio divano. Io mi fido, Marina, di Dio, di me stesso a volte, e del senso del bello che mi salverà, ne sono certo.

Lavoriamo sul somatizzare. Io non somatizzo. Io esplodo. Ed è un bene che abbia imparato la parola giusta, per definire quelle giornate in cui, paralizzato dal dolore, dal rimorso, dalla paura, vado prima in tilt con la testa e subito dopo con il corpo.

Marina non è la prima che vuole lavorare su questa cosa, ma è la prima volta che non ce la faccio più. E Beatrice, che di lavoro fa la dottoressa, ma che con me ha esercitato molta pazienza, mi dice, l’ultima volta in uno studio in Piazza della Repubblica: prendi sul serio questa roba, Franz. Ed eccomi qui.

Il bambino sta davanti al serpente, in piedi, di fianco alla bici. La prima cosa che sente è il caldo sulla gamba sinistra. Pisciarsi addosso senza riuscire a fermarlo. E poi una disperata voglia di chiedere aiuto. Solo che non c’è nessuno intorno. Come tutte le fottute domeniche. Sempre e solo questa dannata bicicletta azzurra.

Mi piscerò addosso altre due volte nella vita. Sempre per paura. Non contiamo quelle in piscina o in mare, che sono per noia.

Cammino agitato sul terrazzo dell’ufficio, c’è un sole forte, un dicembre strano. Il mio corpo non risponde. Sono quel bambino, sono davanti al serpente. Mi tocco la pancia. Ascolto il mio polso, continuo a camminare. Così.

Il bambino non riesce ad urlare. Il piscio è sceso nella scarpa, inzuppandola. Il serpente si muove. La paura si trasforma da paralisi a rabbia. Il bambino esplode, salta sul serpente, non lo prende, il serpente scappa, il bambino prende la bici, le gambe tremano, pedala fortissimo fino alla vecchia villa. Lascia la bici.

Mi siedo su una sedia di quelle di ferro, da cafè francese. Prendo il sole in faccia, inizio a respirare. Penso a Dio, penso a un enorme quantità di cose, tutte insieme, tutte adesso. Conosco il problema. Riprendo il respiro nel naso, trattengo. Rilascio. Io potrei tenere un corso sulla respirazione. Una ragazza che lavora in ufficio con me esce sul terrazzo, mi sorride. Sento il cuore esplodere. Il trucco è non smettere. Mi fa cenno con una sigaretta, come a dire ne vuoi una? Lavora in un fondo immobiliare, avrà quarantacinque anni, le labbra sono tese e gonfie, il seno esplode, o per un reggiseno di tre taglie in meno o per le sapienti mani di un chirurgo. Le guardo sempre il piccolo diamante al dito. Promessa che poi qualcuno dovrà mantenere, immagino.

Il bambino entra nella villa, cerca sua madre, sono stanze enormi e ordinate. La trova. La guarda senza dire nulla. Lei si avvicina e lo guarda sorridendo. Poi ride. E sottovoce gli dice: non è tardi per farsi la pipì addosso amore mio? E chiama il padre. Il padre arriva. Negli occhi disappunto, guardando i pantaloncini e la scarpa zuppa. Il bambino non riesce a dire nulla.

Respirando riprendo il controllo, parziale, del mezzo. La ragazza è tornata dentro, ma sono usciti due colleghi che ridono sul sole a dicembre. Respiro l’aria fredda dal naso. Aspetta un attimo, Franz, non iniziare a parlarti in terza persona. Aspettami ancora qui, proprio dove sei, e ti prego non sdoppiarti. La terza persona la lasciamo agli psicotici. Mi alzo, so benissimo che non riuscirò a lavorare o a parlare, o a fare altro, per un po’. Allora cammino ed esco in strada. Tutti che corrono dentro e fuori dai negozi. Cammino fino alla piccola chiesa ortodossa. Mi siedo di fianco a un ragazzo, sui gradini, davanti al sole. Non parliamo, sembra che lui non respiri, guarda fisso per terra. Si gira, mi guarda. Mi chiede, hai una sigaretta? Rispondo che no, ma ne vorrei una anche io. Allora tira fuori un pacchetto, distrutto, di Rothmans bianche. Ne prende una. Mi dice: iniziala tu. Gli dico, ok. Fumo, guardando da terra la gente che corre nei negozi. Gli passo la sigaretta, lui mi dice: dormi qui anche tu? No, rispondo. Sono vestito così male? Gli dico. Una delle cose più stupide che si possano dire. No, non per quello. Credevo di averti visto anche ieri sera. Ieri sera ero passato di qui, in effetti, a portare del cioccolato. Ok, allora hai dei soldi? Si. Me li dai? Si. Prendo il portafoglio, tiro fuori trenta euro e glieli do. Li guarda, ride, e dice, madonna. Sono tutti quelli che ho, rispondo. Tienili per le sigarette, mi risponde. Tienili tu per vivere, dico io. Non stai bene vero? No, rispondo. Sta zitto, spegne il mozzicone per terra e poi raccoglie il tabacco misto alla cenere con le dita.

Questa storia è particolare, Francesco, ma non centra con quello che ci eravamo chiesti. Lo capisce? Lo capisco, rispondo. Quel bambino è rimasto lì. Marina, le dico. Fermati. Se non centra, non entriamoci. Va bene, dice lei.

Mi alzo. Come ti chiami, chiedo. Julius, risponde. Ciao, sono Franz. Torno, in queste sere, con qualcosa di caldo, aggiungo. Dormo sempre qui, dice lui, fino a quando non morirò. Forse cambierà qualcosa, mi viene da dire, ma poi non lo dico. L’ottimismo da supermercato mi ha intossicato fin troppo. Entro nella piccola chiesa ortodossa, prendo una candela, sottile, di cera d’api, il profumo mi ricorda Gerusalemme. Accendo la candela davanti a un’icona di Cristo. Non dico niente, non penso niente. Resto fermo, respiro. L’odore di incenso e di cera è forte.

Marina, un ultima cosa, ma dove sono gli altri quando sto così? Lo chiedo con disperazione e con forza. Lei è abituata, le nostre sedute sono delle montagne russe. A volte mi imbarazzo, ma poi penso che abbia studiato per questo. No, non solo per questo, ma anche per questo. Sembro un orso ferito, quando mi lamento. Goffo. Francesco, a cosa servono gli altri, quando sta così? Marina gira le mie domande, le sue risposte diventano domande. Parte del suo lavoro, credo. Non diceva di credere in Dio? Le dovrebbe bastare, no? Provocante. E se dicessi di no? Non rispondo. Restiamo in silenzio.

Nella mia economia personale, l’aver ceduto gli ultimi euro a un barbone è decisamente una cazzata. Sorrido, nel silenzio della chiesa. Nemmeno la peggiore che potrei fare oggi, penso. Guardo l’icona. L’amore che mi avevi promesso, dov’è? Spero poi, nessuno mi senta parlare con un’icona. Anche se sono lì per quello. Esco e mi incammino verso l’ufficio. Quando, a Gerusalemme, siamo andati contro il muro del pianto, ho sentito forte la scelta di rimanere su un dolore grande come una promessa disattesa. La guerra, degli uomini, fatta per una promessa disattesa, pensavo guardando ebrei ortodossi in riverente preghiera davanti a un muro. Eppure è uno dei posti più incredibili del mondo. Sono stanco, ma mi sono ripreso. Posso tornare a lavorare.

Marina interrompe il silenzio. Era una provocazione, Francesco. Gli altri ci sono sempre, è solo come lei racconta la sua vita, forse, a non tenerli vicini.

Mi siedo alla scrivania e riprendo in mano la storia che sto scrivendo. E’ un libro assurdo, per ora. Ma immagino a un certo punto prenda una piega ragionevole. Lo scrivo di notte, o quando non sto bene. Sarà un libro delicato. Inizio a scrivere, e mi viene il ricordo di me in bicicletta.

Non so bene come finire questa giornata, esattamente come la storia che sto scrivendo. Somatizzare è una parola dolcissima, per raccontare cose più complesse.

Niente che un bicchiere di vino non possa risolvere, parrebbe.

Ultimamente

Mi era venuta l’idea di scrivere una lettera al me stesso del passato, una pessima idea ma molto di moda, nel senso che è una cosa da cui potrebbe anche uscire un bel libro, un racconto, una canzone, e comunque è un’idea da psicologo della mutua, quindi molto mainstream.

Il fatto è che, quasi in simultanea, mi è venuta l’idea di pubblicare un libro sul perchè correre sia quasi meglio che scopare, sicuramente meglio che pensare, oggettivamente meglio che sbronzarsi, e questa idea qui mi sembra più piacevole rispetto all’idea di scrivere una lettera al me stesso del passato, soprattutto perchè:

a. non saprei a quale me stesso scriverla

b. non abbiamo molto da dirci, di fondo

c. poi cosa ce ne facciamo di questa lettera?

Scrivere al me di dodici anni, quello che ricompare nelle vecchie foto che mia sorella è capace di recuperare da chissà dove, vestito in modo improbabile e con una velatura di tristezza negli occhi che, a saperla prendere subito, si capiva che le cose non erano così perfette come si diceva.

Oppure scrivere al me stesso di sedici anni, un ragazzo sicuro del mondo, sicuro della vita, sicuro di se stesso, terribilmente innamorato, impegnato, molto sportivo, decisamente vestito meglio di quello di dodici anni. A questo qui di sedici cosa posso dire? Mi manchi, mi manca la tua sicurezza, la tua gioia corsara, la tua fecondità, no non quella sessuale, ma quella velocità di pensiero, quella fertilità di idee, quell’energia nel metterle tutte in campo. Mi manchi amico mio, eppure tu non lo saprai mai.

E se scrivessi al me stesso di ventuno anni, invece? Se uno dovesse dare dei nomi di mesi, agli anni della sua vita, i miei venti/venticinque sarebbero un novembre noioso, senza prima ottobre e senza dopo Natale. Perso, deluso, ferito, rabbioso, giravo per Milano con questa povera Vespa gialla, che strapazzavo per andare a cercare risposte, come in una canzone di Ligabue, nei bar peggiori di tutta la città. Scopavo pochissimo, ridevo malissimo, votavo con pessimismo e avevo meno di duecento euro sul conto in banca. Questo non è cambiato molto, ma dopo un po’, ci fai l’abitudine, a essere sempre al verde e ad aver votato male. Sul ridere e sullo scopare, che scritti così sembrano due vizi, ma sono due virtù fondamentali, invece poi ci fai tutti dei conti, delle proiezioni, senza voler e dover ammettere che, insieme a respirare e amare, sono le uniche quattro cose che contano.

Non vorrei mai scrivere al me stesso più recente, ci siamo lasciati da poco, le ferite sono ancora fresche, la tentazione di tornare insieme troppo forte.

Ultimamente ci sono mattine in cui mi devo sedere, e restare a guardare fisso per un po’ un punto, un dettaglio, lo stipite di una porta, una finestra, per riprendere il filo della conversazione con tutti i miei cazzi. Se la vita fosse un incontro di boxe, beh non scommetterei su di me, ma sappiamo tutti e due, io e tu che scommetti, che comunque devo uscirne. Sto prendendo grandi botte, al mio angolo, ma per fortuna ho degli auricolari. E tu dirai, sei matto?

Per nulla. Basta mettere gli auricolari, ovunque tu sia, per far sembrare il tuo minuto di pausa con la vita, quello dove resti a fissare un punto imprecisato e riprendi fiato, una call importante di lavoro.

L’altro giorno ero in stazione, appena arrivato, e mi sono seduto sulla panchina davanti a un negozio Legami, ho messo le cuffie e sono rimasto fisso sul tornello numero 7, gente che entra di corsa, gente che esce, io che riprendo fiato.

Non lo dico a nessuno, tranne alla mia psicologa, che non ci trova nulla di male, nel indossare degli auricolari e provare a non mollare tutto. A volte mi sembra che quei soldi che ci diamo all’inizio, possano giustificare qualsiasi cosa io dica o pensi di fare. Bisognerebbe vedere se non ci fossero i soldi, se fosse davvero obbligata a darmi una mano, se questa roba di non farcela e di crollare in mezzo alla gente facendo delle finte call, le sembrasse così normale.

Non lo dico a nessuno, ma mentre prenoto l’appuntamento della settimana dopo mi chiedo quante donne ho pagato nella mia vita per salvarmi, e mi sento molto Marlon Brando. Sorrido e le dico: a settimana prossima, e penso “baby”.

Una sera di una di queste settimane non proprio semplici la mia fidanzata se ne è uscita con il dubbio che io abbia una amante. E’ ciclico, il dubbio intendo, non il fatto che io abbia amanti. E, come insegnano i libri di psicologia per i bambini delle elementari, è sintomo di inadeguatezza e di frustrazione. Io non penso di poter reggere una amante, nei prossimi dieci anni, perlomeno. Questione di mutui, adolescenze dei figli, morti dei genitori e tutte le cose che tra i quarantacinque e i cinquantacinque mi andranno accadendo. Poi, forse, mi lascerò cadere nelle braccia di una donna che mi voglia davvero accudire, accompagnare, amare.

Capisco, però, che un dubbio del genere, si porti dietro delle conseguenze e dei bisogni. Vorrei poterle dire: sono esausto, sfiancato, non mi vedi sul ring, nel mio angolo, che prendo solo jab? Tifa per me cazzo. Invece le dico qualcosa di confuso, che finisce per non convincerla di smettere di essere convinta che io possa gironzolare per Milano a limonare con altre donne.

Questo per dire, che ultimamente faccio anche fatica a spiegarmi. E’ una cosa nuova per me. Anche mio figlio, ci sono certe volte che mi guarda come uno che non ha capito cosa diavolo stia facendo. Forse penserà anche lui che abbia un’amante.

Vorrei dirvi che no, non ho nessun amore nascosto o da nascondere, sto solo lottando.

Invece non dico niente ed esco a correre. C’è un momento, dopo due kilometri, in cui le gambe cominciano a partire, il fiato si rimette a posto, i dolori si assestano sul tollerabile, e mi sento che potrei andare avanti per sempre. Cerco un passo che mi permetta di lasciare indietro i miei pensieri, e lo tengo il più possibile. Non sento il freddo, la pioggia, il caldo, sento solo lo smog, per questo cerco parchi e giardini. Correre è meglio che scopare, non si può dire davvero, ma è così. Lo ho detto alla mia psicologa, e mi ha detto che non è sbagliato pensarlo. Le avevo già dato i soldi, mi rode il dubbio che mi dia ragione così, per pigrizia, ma che poi pensi: ma questo è scemo integrale.

Ultimamente sto facendo più fatica del solito. Questo scriverei, al me stesso di qualche anno fa.

Potesse rispondermi, mi direbbe: ma pure io non sto una crema, non ti ricordi? Che forse il tuo talento più grande è proprio quello di saperle incassare bene. Che non è un talento.

Vero, gli risponderei io.