L’altra sera ero sul divano, leggevo una cosa, distratto dal troppo silenzio, coccolato dalle lucine calde dell’albero di Natale, e un improvviso dolore, nel petto, mi ha bloccato il respiro: e se davvero tu non ci fossi più, il Natale prossimo, papà? Che sei stanco si vede, che sei disorientato anche, si vede anche la rabbia, ma non si capisce se ne vuoi ancora, di natali così, di estati sospese, di tutta questa roba qui. Tu che mettevi in ordine anche le posate nei cassetti, e che adesso muovi meno cose possibili, per paura di non trovarle più. Che ridevi, con i film su Rai3, e i piedi sulla sedia della cucina, e che adesso non trovi più il telecomando e quando lo trovi che non funziona l’audio, e si sente poco. Che stai in cucina, seduto, con il ticchettio del vecchio orologio, che lui avrà almeno cinquant’anni, a guardare nel vuoto. E se davvero si potesse dire, a chi vogliamo noi, basta, ho finito. Ma tu ci parli con mamma? Glielo dici che non ce la fai più, che ti venga a prendere, che ti porti in Paradiso con lei? Ma tu ci credi davvero, adesso che si avvicina a grandi passi, al Paradiso?
La casa è in piena festa, c’è tutta la famiglia, ci siamo anche vestiti bene, ottantanove sono un bel traguardo. Ci arrivo, ai suoi ottantanove, convinto che quel cuore di ferro possa fare serenamente ancora cinque o sei giri intorno al Sole, certo che la testa invece abbia dichiarato kappao tecnico, gong che suona, arbitro che si accovaccia per capire se respiri, e tu che pensi: ma basta con sto pugilato dai.
Se c’è una persona che crede davvero al Paradiso, quella è Anna. E’ una donna forte, simpatica ma severa, metodica ma paziente. Ha cinquantasette anni quando le danno tre mesi di vita. Giugno settembre, e sbagliano di un mese, bravi loro. Se li prende tutti con paura e pazienza. Una domenica mattina la trovo in cucina davanti al televisore, che guarda i funerali di Madre Teresa di Calcutta. Mi guarda mentre mi faccio il caffè e mi dice, sottovoce: poi ci rivediamo in Paradiso. E io non mi sono spiegato ancora se me lo ha detto solo a me, o se era un invito di gruppo. La certezza di doverci, presto, andare, era già sua. Ma, leggera, non ha fatto fretta a nessuno. Non ho capito se ci ha invitato tutti, oppure se fosse un modo di dire, basta. Si dice basta alla vita? Lo ho chiesto alla mia psicologa, l’anno dopo. Mi ha chiesto: lei pensa di togliersi la vita. Le ho detto che non capiva un cazzo e me ne sono andato. Ma si dice basta alla vita? Ho chiesto a mio padre. Non è un uomo di grandi risposte, non lo è mai stato.
Da quel momento a oggi non ci ho pensato molto a scrivere: ti voglio bene papà, a mio padre. Forse due messaggi, niente di più.
Papà,
cazzo che fretta, quel dolore in mezzo al petto l’altra sera. Che fretta di dirti che ti voglio bene, te ne ho voluto, te ne vorrò. Non ho capito bene se ne hai ancora voglia, di queste cose qui, non si capisce mai bene cosa vuoi, tu che fai sempre quello che vogliono gli altri. Mi fa ridere che tu vuoi rallentare e tutti ti corrono intorno per tenere il ritmo. Sembra un ballo scoordinato, di adolescenti ruggenti che non capiscono cosa sia la vita, figurarsi la morte, di giovani adulti che sanno che sta finendo tutto, ma è tutto troppo lontano da loro, di adulti, quasi vecchi dai, che ti accudiscono e, secondo me, pensano: potrei essere il prossimo.
Mi è venuta l’urgenza di scrivere le cose che ho ereditato da te, l’altro giorno in palestra. C’è sempre una ragazza con i capelli rosa che si fa le foto alla pancia, tenendo il piede contratto. Ma tu le donne, oltre alla mamma, le hai mai guardate? Ma tu le notti le hai mai attraversate di traverso, ubriacandoti di gente e vino? Ma tu hai mai pensato di mollare tutto, scappare, evaporare? Possibile che io non sappia queste cose, che diamine?
Mi hai lasciato una calvizia che per fortuna oggi va un po’ di moda, un cuore da tener sotto controllo, anche se io non avrò voglia di tutti quei viaggi in ospedale, stanne certo, un paio di manie e una velata tristezza che tu hai combattuto a suon di rosari e io a suon di gin tonic. Non ci vuole niente a capire che ne un rosario ne un gin tonic siano la soluzione.
Non mi hai raccontato le cose importanti, papà. Di come ci si perde, di come si fa a ritrovarsi, di come si tiene la paura nella pancia, di come si fa a ricominciare, di come si fa a smettere. Non mi hai insegnato come ci si mette in piedi dopo esser caduti, ma sei venuto sempre a prendermi. Non mi hai insegnato come si mette la cravatta, ma mi hai aspettato fuori dall’ufficio il primo giorno di lavoro. Non hai mai giocato con me a basket, ma sei venuto a vedere le partite. Non hai mai capito il mio modo di amare, ma sei venuto al mio matrimonio. Non te lo farei rifare, ma lo hai fatto con quel tono semplice con cui hai fatto tutte le cose per me. Che non si capiva se era un po’ dovuto e un po’ voluto.
Ma io, che amo il mare, il disordine, la sfida e la fine di tutte le cose, sono davvero figlio tuo, che amavi la montagna, l’ordine compiuto dei gesti ripetuti e l’inizio di tutto?
Sai che penso proprio di si. E’ stupido cercarsi nelle cose dei nostri genitori, davvero.
Non mi sono mai trovato, nelle passeggiate in montagna, a seguirti nei sentieri, in silenzio. Ripasso in moto da quel tornante in montagna, vicino alla fontana dove mi portavi a lavare la macchina. Ma che razza di sabati pomeriggio erano? Non mi sono mai trovato nella tua colazione salata, e nemmeno nella grappa Nardini.
Ma mi ritrovo nei tuoi passi, fatti sempre con ordine, per non smettere mai di amare, ostinatamente, un’idea di futuro fatto per gli altri, costruito per i figli, senza dirlo ai figli.
Ma mi ritrovo nel mettermi la camicia, con calma, anche quando fuori fa caldo, ma serve farsi vedere in ordine, dalla tua amata o da tuo figlio.
Stiamo, però, parlando di me. Non dovremmo. A Dio piacendo, ho ancora qualche natale davanti, e sicuramente ne voglio fare ancora di estati.
Parlami di te, adesso. Davvero, ho fretta.
Per questo arrivo a casa tua, quando sono sicuro che siamo soli, e con pazienza evito gli ostacoli delle chiacchiere sui tuoi malanni, delle lamentele sulla badante, che poi ti giuro io la farei santa per la pazienza che ha con te, evito di lasciarti entrare nella stanza della malinconia, e invece insieme apriamo delle porte che forse avremmo dovuto aprire prima. Stanze spoglie in cui i ricordi vanno spolverati con cura, per non romperli. E restiamo in quelle stanze per un tempo che a me sembra infinito, proprio perchè avremmo dovuto starci molto di più, io e te.
Non capisco se ti rendi conto, di dove andiamo quando siamo seduti uno davanti all’altro, in cucina da soli. Io si. Sto, con molta fretta, ritrovando mio padre.
Io non lo so mica se sei stufo, ma so che sei stanco. Non lo so mica se questo sarà l’ultimo Natale, possibile di sì. So solo che vorrei scriverti una lettera, scritta per tutti quelli che ci sono ma forse non ci saranno più: grazie per avermi amato. Ti ho amato anche io. E se lo abbiamo fatto così, come è venuto, è perchè è così che sappiamo amare.
Forse ci sono modi migliori, ma chi lo doveva insegnare a chi non ci è stato detto, e allora abbiamo fatto di testa nostra.