Ultimamente

Mi era venuta l’idea di scrivere una lettera al me stesso del passato, una pessima idea ma molto di moda, nel senso che è una cosa da cui potrebbe anche uscire un bel libro, un racconto, una canzone, e comunque è un’idea da psicologo della mutua, quindi molto mainstream.

Il fatto è che, quasi in simultanea, mi è venuta l’idea di pubblicare un libro sul perchè correre sia quasi meglio che scopare, sicuramente meglio che pensare, oggettivamente meglio che sbronzarsi, e questa idea qui mi sembra più piacevole rispetto all’idea di scrivere una lettera al me stesso del passato, soprattutto perchè:

a. non saprei a quale me stesso scriverla

b. non abbiamo molto da dirci, di fondo

c. poi cosa ce ne facciamo di questa lettera?

Scrivere al me di dodici anni, quello che ricompare nelle vecchie foto che mia sorella è capace di recuperare da chissà dove, vestito in modo improbabile e con una velatura di tristezza negli occhi che, a saperla prendere subito, si capiva che le cose non erano così perfette come si diceva.

Oppure scrivere al me stesso di sedici anni, un ragazzo sicuro del mondo, sicuro della vita, sicuro di se stesso, terribilmente innamorato, impegnato, molto sportivo, decisamente vestito meglio di quello di dodici anni. A questo qui di sedici cosa posso dire? Mi manchi, mi manca la tua sicurezza, la tua gioia corsara, la tua fecondità, no non quella sessuale, ma quella velocità di pensiero, quella fertilità di idee, quell’energia nel metterle tutte in campo. Mi manchi amico mio, eppure tu non lo saprai mai.

E se scrivessi al me stesso di ventuno anni, invece? Se uno dovesse dare dei nomi di mesi, agli anni della sua vita, i miei venti/venticinque sarebbero un novembre noioso, senza prima ottobre e senza dopo Natale. Perso, deluso, ferito, rabbioso, giravo per Milano con questa povera Vespa gialla, che strapazzavo per andare a cercare risposte, come in una canzone di Ligabue, nei bar peggiori di tutta la città. Scopavo pochissimo, ridevo malissimo, votavo con pessimismo e avevo meno di duecento euro sul conto in banca. Questo non è cambiato molto, ma dopo un po’, ci fai l’abitudine, a essere sempre al verde e ad aver votato male. Sul ridere e sullo scopare, che scritti così sembrano due vizi, ma sono due virtù fondamentali, invece poi ci fai tutti dei conti, delle proiezioni, senza voler e dover ammettere che, insieme a respirare e amare, sono le uniche quattro cose che contano.

Non vorrei mai scrivere al me stesso più recente, ci siamo lasciati da poco, le ferite sono ancora fresche, la tentazione di tornare insieme troppo forte.

Ultimamente ci sono mattine in cui mi devo sedere, e restare a guardare fisso per un po’ un punto, un dettaglio, lo stipite di una porta, una finestra, per riprendere il filo della conversazione con tutti i miei cazzi. Se la vita fosse un incontro di boxe, beh non scommetterei su di me, ma sappiamo tutti e due, io e tu che scommetti, che comunque devo uscirne. Sto prendendo grandi botte, al mio angolo, ma per fortuna ho degli auricolari. E tu dirai, sei matto?

Per nulla. Basta mettere gli auricolari, ovunque tu sia, per far sembrare il tuo minuto di pausa con la vita, quello dove resti a fissare un punto imprecisato e riprendi fiato, una call importante di lavoro.

L’altro giorno ero in stazione, appena arrivato, e mi sono seduto sulla panchina davanti a un negozio Legami, ho messo le cuffie e sono rimasto fisso sul tornello numero 7, gente che entra di corsa, gente che esce, io che riprendo fiato.

Non lo dico a nessuno, tranne alla mia psicologa, che non ci trova nulla di male, nel indossare degli auricolari e provare a non mollare tutto. A volte mi sembra che quei soldi che ci diamo all’inizio, possano giustificare qualsiasi cosa io dica o pensi di fare. Bisognerebbe vedere se non ci fossero i soldi, se fosse davvero obbligata a darmi una mano, se questa roba di non farcela e di crollare in mezzo alla gente facendo delle finte call, le sembrasse così normale.

Non lo dico a nessuno, ma mentre prenoto l’appuntamento della settimana dopo mi chiedo quante donne ho pagato nella mia vita per salvarmi, e mi sento molto Marlon Brando. Sorrido e le dico: a settimana prossima, e penso “baby”.

Una sera di una di queste settimane non proprio semplici la mia fidanzata se ne è uscita con il dubbio che io abbia una amante. E’ ciclico, il dubbio intendo, non il fatto che io abbia amanti. E, come insegnano i libri di psicologia per i bambini delle elementari, è sintomo di inadeguatezza e di frustrazione. Io non penso di poter reggere una amante, nei prossimi dieci anni, perlomeno. Questione di mutui, adolescenze dei figli, morti dei genitori e tutte le cose che tra i quarantacinque e i cinquantacinque mi andranno accadendo. Poi, forse, mi lascerò cadere nelle braccia di una donna che mi voglia davvero accudire, accompagnare, amare.

Capisco, però, che un dubbio del genere, si porti dietro delle conseguenze e dei bisogni. Vorrei poterle dire: sono esausto, sfiancato, non mi vedi sul ring, nel mio angolo, che prendo solo jab? Tifa per me cazzo. Invece le dico qualcosa di confuso, che finisce per non convincerla di smettere di essere convinta che io possa gironzolare per Milano a limonare con altre donne.

Questo per dire, che ultimamente faccio anche fatica a spiegarmi. E’ una cosa nuova per me. Anche mio figlio, ci sono certe volte che mi guarda come uno che non ha capito cosa diavolo stia facendo. Forse penserà anche lui che abbia un’amante.

Vorrei dirvi che no, non ho nessun amore nascosto o da nascondere, sto solo lottando.

Invece non dico niente ed esco a correre. C’è un momento, dopo due kilometri, in cui le gambe cominciano a partire, il fiato si rimette a posto, i dolori si assestano sul tollerabile, e mi sento che potrei andare avanti per sempre. Cerco un passo che mi permetta di lasciare indietro i miei pensieri, e lo tengo il più possibile. Non sento il freddo, la pioggia, il caldo, sento solo lo smog, per questo cerco parchi e giardini. Correre è meglio che scopare, non si può dire davvero, ma è così. Lo ho detto alla mia psicologa, e mi ha detto che non è sbagliato pensarlo. Le avevo già dato i soldi, mi rode il dubbio che mi dia ragione così, per pigrizia, ma che poi pensi: ma questo è scemo integrale.

Ultimamente sto facendo più fatica del solito. Questo scriverei, al me stesso di qualche anno fa.

Potesse rispondermi, mi direbbe: ma pure io non sto una crema, non ti ricordi? Che forse il tuo talento più grande è proprio quello di saperle incassare bene. Che non è un talento.

Vero, gli risponderei io.