ci si innamora tre volte – poi si muore

In questo periodo quando chiudo gli occhi, per pregare, sorrido e poi subito dopo piango. Mi immagino seduto su un baratro, sento anche il vento, tu ti butteresti giù, mi chiedo. Non mi rispondo e poi riapro gli occhi con il fiatone.

Forse una delle donne più stupide che ho conosciuto una volta mi ha detto che scrivo per scopare, io per darmi un tono le ho risposto che scopo per scrivere. Una conversazione tra due deficienti. Forse uno degli uomini più intelligenti che ho conosciuto, mi ha detto che scriviamo per leggerci.

Una volta ho letto che ci si innamora tre volte nella vita. Ho provato, l’altra notte a Bangkok, seduto nudo nella mia stanza, a ricordarmi tutte le volte che mi sono innamorato. Ho solo aggiunto: per davvero. E ho pianto, perchè non lo so nemmeno io. Forse una volta sola. Mi sono seduto, nel buio della stanza, nudo, a respirare. Ho provato a sentire la prima emozione che veniva a galla.

Paura. Pura paura. Respirare la paura è un rischio calcolato. Smetti e scappi, è normale. Sono rimasto lì, fino a quando non mi ha fatto male. Un dolore tra le costole, una roba fisica, che a volte pensi di aver bisogno di un posturologo, invece hai bisogno solo di amore.

Da quanto non ti senti amato, mi sono chiesto. Ho ricominciato a piangere. Se uno muore, da queste parti del mondo, sono abbastanza convinti che poi rinasca. In una forma che è data dal suo comportamento in questa vita. Tutti, qui, sognano di rinascere farfalla. Ma le farfalle campano tre settimane, se non ricordo male. E io non vorrei mai diventare cibo per gazze e piccioni. O alla meglio finire in una teca di un anziano signore, imbalsamato lì per sempre, e addio alla prossima reincarnazione.

Non rischio molto, perchè per come mi sto comportando, potrei rinascere lucertola, forse al massimo formica. Smettila di scherzare, rispondi: da quanto non ti senti amato?

Ho smesso di piangere sotto la doccia. Funziono così, adesso. Mi lavo e mi vesto di una maschera piacevolmente studiata per guardarsi nello specchio e perdersi nei piccoli dettagli. Ho avuto un amore, una volta, cento vite fa, a cui piaceva stare nuda sul letto a parlare guardando il soffitto. Poi, sempre, si arrabbiava per qualcosa, si alzava e andava a fumare sul balcone. E io restavo nudo in silenzio a capire cosa fosse quella roba lì. Poi mettevo una maschera, e finivo ciondolando sul balcone.

In questi giorni in Cina non mi chiama nessuno, non mi scrive nessuno. A parte la banca. A questa Marianna, che deve essere giovane, felice ed aggressiva, piace continuare a scrivermi. E’ ovvio che la situazione è drammatica, Marianna. Sentirci continuamente non può che confermare che tu non farai mai carriera e che io non diventerò mai ricco. In aeroporto guardavo un paio di scarpe lucide, nere, bellissime, e pensavo che io non mi compro un regalo da una vita.

Prendo un volo che ha tutta l’aria di essere uno di quelli in cui puoi dire: meno male che siamo atterrati. Mi addormento. Faccio un sogno strano. Mi sveglio. Alla dogana non hanno fretta, è notte fonda. Arrivo in hotel alle tre. Sulla strada ci sono delle puttane. Sono stanco. Fumo guardando un leone tatuato sulla gamba di questa ragazza bionda, ha delle scarpe bellissime. Mi manda un bacio. Le sorrido e dico: non posso andare a puttane, ci sta già andando la mia vita. Il mio collega, che poi è il mio capo, ride. Alle quattro sono sveglio, in camera, con le luci dei grattacieli dentro la stanza.

Quanto tempo è passato da quando una donna non mi desidera per davvero, penso.

No aspetta. Rispondi prima a questa: quanto tempo è passato da quando hai iniziato a sbagliare.

Rispondi a questa.

Mi sveglio alle sei. Faccio una doccia. Indosso la mia maschera. Faccio colazione con delle uova guardando un peluches vestito da Babbo Natale.

Ti sei accorto che la vera domanda non è quale delle mille volte sarai stato innamorato, ma la vera domanda è quanto tempo è che non ti innamori di te.

Almeno tu, vecchio Franz.

Mi alzo e vado a fare una fila di riunioni che non sapevo nemmeno di poter tollerare, tutto per dire a Marianna che con calma, tra qualche mese, avrò due spiccioli per pagare i miei debiti.

Almeno tu, vecchio Franz.

Ho deciso, stasera, sdraiato nudo sul pavimento della stanza, di non uscire a cena, di non parlare con nessuno, di scrivere un libro nuovo, di chiedere scusa.

Stasera non piango. Scrivessi per scopare, scoperei davvero poco. Invece provo a leggermi.

Almeno tu, vecchio Franz.

Ultimamente

Mi era venuta l’idea di scrivere una lettera al me stesso del passato, una pessima idea ma molto di moda, nel senso che è una cosa da cui potrebbe anche uscire un bel libro, un racconto, una canzone, e comunque è un’idea da psicologo della mutua, quindi molto mainstream.

Il fatto è che, quasi in simultanea, mi è venuta l’idea di pubblicare un libro sul perchè correre sia quasi meglio che scopare, sicuramente meglio che pensare, oggettivamente meglio che sbronzarsi, e questa idea qui mi sembra più piacevole rispetto all’idea di scrivere una lettera al me stesso del passato, soprattutto perchè:

a. non saprei a quale me stesso scriverla

b. non abbiamo molto da dirci, di fondo

c. poi cosa ce ne facciamo di questa lettera?

Scrivere al me di dodici anni, quello che ricompare nelle vecchie foto che mia sorella è capace di recuperare da chissà dove, vestito in modo improbabile e con una velatura di tristezza negli occhi che, a saperla prendere subito, si capiva che le cose non erano così perfette come si diceva.

Oppure scrivere al me stesso di sedici anni, un ragazzo sicuro del mondo, sicuro della vita, sicuro di se stesso, terribilmente innamorato, impegnato, molto sportivo, decisamente vestito meglio di quello di dodici anni. A questo qui di sedici cosa posso dire? Mi manchi, mi manca la tua sicurezza, la tua gioia corsara, la tua fecondità, no non quella sessuale, ma quella velocità di pensiero, quella fertilità di idee, quell’energia nel metterle tutte in campo. Mi manchi amico mio, eppure tu non lo saprai mai.

E se scrivessi al me stesso di ventuno anni, invece? Se uno dovesse dare dei nomi di mesi, agli anni della sua vita, i miei venti/venticinque sarebbero un novembre noioso, senza prima ottobre e senza dopo Natale. Perso, deluso, ferito, rabbioso, giravo per Milano con questa povera Vespa gialla, che strapazzavo per andare a cercare risposte, come in una canzone di Ligabue, nei bar peggiori di tutta la città. Scopavo pochissimo, ridevo malissimo, votavo con pessimismo e avevo meno di duecento euro sul conto in banca. Questo non è cambiato molto, ma dopo un po’, ci fai l’abitudine, a essere sempre al verde e ad aver votato male. Sul ridere e sullo scopare, che scritti così sembrano due vizi, ma sono due virtù fondamentali, invece poi ci fai tutti dei conti, delle proiezioni, senza voler e dover ammettere che, insieme a respirare e amare, sono le uniche quattro cose che contano.

Non vorrei mai scrivere al me stesso più recente, ci siamo lasciati da poco, le ferite sono ancora fresche, la tentazione di tornare insieme troppo forte.

Ultimamente ci sono mattine in cui mi devo sedere, e restare a guardare fisso per un po’ un punto, un dettaglio, lo stipite di una porta, una finestra, per riprendere il filo della conversazione con tutti i miei cazzi. Se la vita fosse un incontro di boxe, beh non scommetterei su di me, ma sappiamo tutti e due, io e tu che scommetti, che comunque devo uscirne. Sto prendendo grandi botte, al mio angolo, ma per fortuna ho degli auricolari. E tu dirai, sei matto?

Per nulla. Basta mettere gli auricolari, ovunque tu sia, per far sembrare il tuo minuto di pausa con la vita, quello dove resti a fissare un punto imprecisato e riprendi fiato, una call importante di lavoro.

L’altro giorno ero in stazione, appena arrivato, e mi sono seduto sulla panchina davanti a un negozio Legami, ho messo le cuffie e sono rimasto fisso sul tornello numero 7, gente che entra di corsa, gente che esce, io che riprendo fiato.

Non lo dico a nessuno, tranne alla mia psicologa, che non ci trova nulla di male, nel indossare degli auricolari e provare a non mollare tutto. A volte mi sembra che quei soldi che ci diamo all’inizio, possano giustificare qualsiasi cosa io dica o pensi di fare. Bisognerebbe vedere se non ci fossero i soldi, se fosse davvero obbligata a darmi una mano, se questa roba di non farcela e di crollare in mezzo alla gente facendo delle finte call, le sembrasse così normale.

Non lo dico a nessuno, ma mentre prenoto l’appuntamento della settimana dopo mi chiedo quante donne ho pagato nella mia vita per salvarmi, e mi sento molto Marlon Brando. Sorrido e le dico: a settimana prossima, e penso “baby”.

Una sera di una di queste settimane non proprio semplici la mia fidanzata se ne è uscita con il dubbio che io abbia una amante. E’ ciclico, il dubbio intendo, non il fatto che io abbia amanti. E, come insegnano i libri di psicologia per i bambini delle elementari, è sintomo di inadeguatezza e di frustrazione. Io non penso di poter reggere una amante, nei prossimi dieci anni, perlomeno. Questione di mutui, adolescenze dei figli, morti dei genitori e tutte le cose che tra i quarantacinque e i cinquantacinque mi andranno accadendo. Poi, forse, mi lascerò cadere nelle braccia di una donna che mi voglia davvero accudire, accompagnare, amare.

Capisco, però, che un dubbio del genere, si porti dietro delle conseguenze e dei bisogni. Vorrei poterle dire: sono esausto, sfiancato, non mi vedi sul ring, nel mio angolo, che prendo solo jab? Tifa per me cazzo. Invece le dico qualcosa di confuso, che finisce per non convincerla di smettere di essere convinta che io possa gironzolare per Milano a limonare con altre donne.

Questo per dire, che ultimamente faccio anche fatica a spiegarmi. E’ una cosa nuova per me. Anche mio figlio, ci sono certe volte che mi guarda come uno che non ha capito cosa diavolo stia facendo. Forse penserà anche lui che abbia un’amante.

Vorrei dirvi che no, non ho nessun amore nascosto o da nascondere, sto solo lottando.

Invece non dico niente ed esco a correre. C’è un momento, dopo due kilometri, in cui le gambe cominciano a partire, il fiato si rimette a posto, i dolori si assestano sul tollerabile, e mi sento che potrei andare avanti per sempre. Cerco un passo che mi permetta di lasciare indietro i miei pensieri, e lo tengo il più possibile. Non sento il freddo, la pioggia, il caldo, sento solo lo smog, per questo cerco parchi e giardini. Correre è meglio che scopare, non si può dire davvero, ma è così. Lo ho detto alla mia psicologa, e mi ha detto che non è sbagliato pensarlo. Le avevo già dato i soldi, mi rode il dubbio che mi dia ragione così, per pigrizia, ma che poi pensi: ma questo è scemo integrale.

Ultimamente sto facendo più fatica del solito. Questo scriverei, al me stesso di qualche anno fa.

Potesse rispondermi, mi direbbe: ma pure io non sto una crema, non ti ricordi? Che forse il tuo talento più grande è proprio quello di saperle incassare bene. Che non è un talento.

Vero, gli risponderei io.

Se me lo dicevi prima

Se me lo dicevi prima, che la vita mia sarebbe poi arrivata qui, ti avrei comunque detto: va beh. Io non sono uno coraggioso, ma non ho nemmeno grandi paure, insomma, ti avrei risposto va beh. Andiamo, in qualche modo ci arrangeremo. Se chiudo gli occhi, in questi giorni di settembre, mi esplode la testa di pensieri, che mi viene da riaprirli subito, credo sia capitato anche a te, comunque ti capiterà. A volte la vita fa così, il riassunto delle puntate precedenti va tutto in diretta. Va beh.

Ora, mi verrebbe naturale di scrivere tutti questi ricordi, ho delle storie molto succulente sul mio passato, che poi sono il motivo per cui immagino che il futuro non sarà da meno, ma non ho moltissima voglia di mettermi davanti alla dura realtà dei fatti: io fino ad oggi ho vissuto una vita in cui, se me lo dicevi prima, ti avrei detto: ma cazzo davvero?

Eppure, non posso lamentarmi. C’è di peggio nella vita.

Poche cose riescono ancora a darmi quella carica e quella fiducia che avevo a trent’anni, ma le cerco sempre nelle penombre dei quarantacinque. Ogni vecchio che incontro mi dice che i quarantacinque saranno i migliori, ogni ragazza con cui incrocio lo sguardo mi osserva come si osservano le cariatidi. Mio figlio mi guarda, mio padre mi osserva, ognuno a modo suo ha a che fare con il mio pelo che si imbianca, con le mie rughe d’espressione, con i miei sbadigli di noia.

Se me lo dicevi prima, ti avrei detto serenamente che tutto insieme, tutta questa vita, non l’avrei presa. Opto sempre per una dilazione di pagamento, le rate, anche se hanno interessi pesanti, mi sembrano un’opzione decisamente migliore, quando si tratta di emozioni. Ma nessuno mi aveva avvisato che potevo chiedere pagamenti migliori.

Se me lo dicevi prima.

Come cucinare il risotto perfetto

Un orologio rotto, illuminato da una abat jour anni settanta, la finestra aperta sul rumore del traffico della sera. Entra aria fresca, da qualche parte aveva letto che stava nevicando. A settembre. Non ci sono più le mezze stagioni, avrebbe voluto dire, se solo avesse avuto qualcuno con cui parlare.

Sfogliando il giornale, cercava qualcosa di interessante che rendesse l’attesa meno feroce. L’appuntamento era alle undici. L’orologio rotto segnava le sei e dieci, ma erano le otto e qualche minuto. Comunque mancavano ore.

Per cucinare il risotto perfetto ci volevano un litro di brodo, due pugni di riso per ogni commensale, mezza cipolla bianca, uno spicchio di aglio, due cucchiai di olio, una noce di burro, del formaggio, meglio se stagionato, e diciotto minuti di pazienza. Non diciassette e nemmeno venti. Diciotto, dal primo mestolo di brodo fino alla perfezione. Mescolare sempre nello stesso senso, come se gli amidi avessero il senso dell’orientamento, e dare una attenzione quasi ossessiva al brodo, mai troppo ma sempre abbastanza per far cuocere i chicchi. Pazienza e fiducia.

Diciotto minuti non sono tanti, per un buon risotto. Due ore non erano tante, per poter ritrovare il motivo di tutto quel viaggiare, la ragione di tutte le emozioni, perlomeno quelle belle, degli ultimi due mesi.

È tardi, per innamorarsi, si era chiesto un’ora prima sotto la doccia? Il corpo che cambiava, le rughe d’espressione, la pelle, le vene, i peli, il tempo che scivola più veloce dell’acqua della doccia. Sentirsi vecchi, osservando il corpo. Ma sapere di avere ancora tempo.

Per un altro risotto, per un altro viaggio, per un altro amore. Per un’altra vita. Il tempo passa, scivola come acqua.

Il tram sul viale, a quell’ora della sera, passava ogni venti minuti. Aveva deciso di fumare una sigaretta ogni due tram. Uno dei modi per dirsi che non servivano altre sigarette. Non servivano altri modi per avvicinarsi alla morte, che si stava avvicinando da sola, lenta ma inesorabile.

Quanti risotti mancavano alla sua morte? Misurare la vita in risotti, meglio che in fallimenti, o in successi lavorativi, o in macchine comprate. Possiamo dire, aveva pensato guardandosi allo specchio, che il tempo vada misurato in risotti e in grandi amori.

Ma quanti amori, quanti grandi amori, ci stanno in una vita?

Queste sono le risposte che varrebbe la pena avere, prima di morire. Per sapere se si è in difetto, risparmiarsi sull’amore è la morte peggiore di chi crede di vivere ma sta già morendo, proprio perché non ama.

Ma quanti risotti si possono cucinare prima di morire? Aveva scoperto, relativamente tardi, l’esistenza di una scuola di pensiero per cui i risotti sono tre: puri, di pesce e tutto il resto. Tra i puri si mettono quello giallo, milanese, quello al formaggio, bianco e cremoso, e quello ai funghi. Quelli di pesce sono tanti quanti sono gli innamoramenti di passaggio. E molti risotti di pesce, poi, sono insignificanti come quei maldestri tentativi di metter insieme il riso, il pesce e altre cose.

A spanne, aveva pensato mentre si asciugava i capelli, vale la pena cucinare quattro risotti. Alla perfezione, ma solo quattro.

E forse quattro sono i grandi amori.

Aveva riso, cercando le mutande, appoggiate sul tavolo davanti al letto.

Perché con i risotti era a posto da un pezzo, avendo fatto i quattro per cui valeva la pena di vivere.

E, contando sua figlia, era arrivato a quattro grandi amori.

Avrebbe potuto morire, senza doversi lamentare.

Così, in mutande si era messo sul letto, a far passare quelle ore che lo separavano dal capire se questo sarebbe stato, avrebbe potuto essere, il quarto, immenso, amore della sua vita.

Aspettava di saperlo, in mutande sul letto di un albergo triste come settembre. Il settembre che vivi è sempre diverso da quello che ti ricordi di aver vissuto. Perché settembre, nei ricordi degli anni passati, è più dolce, come tutti gli autunni. Dimentichi le piccole tristezze e ricordi le foglie e il sole. Come degli amori sbagliati e dei risotti poco riusciti.

Con i funghi. Si era detto alzandosi poco prima delle undici cercando la camicia. Avrebbe cucinato un risotto ai funghi, per lei. Perfetto per l’autunno, per sperare nell’inverno e per arrivare insieme alla primavera.

Il tram delle undici, fermato sotto all’albergo, aveva lasciato una sola passeggera. Che si era messa davanti all’hotel, ad aspettare.

1958

Quando mio padre si sveglia, è come se tornasse da un posto lontanissimo. Ci mette un po’ di tempo a capire il dove, molto di più a capire il cosa, il quando è indefinito, tanto che continua a chiedermi che giorno è. È come se fosse sparita la memoria a breve termine, e i ricordi più lontani fossero davvero nascosti. È come un ritorno, da un posto dove non sapeva di essere. Come un vecchio diesel scarburato, i primi minuti si assesta sul minimo e poi parte, con una lentezza disarmante. Chissà come si sta, dove sta lui quando dorme. Vorrei chiedergli: hai paura? È l’unica cosa che mi interessa. Come stai è una domanda da idioti, lo penso ogni volta che qualcuno mi chiede come sta tuo padre? Come uno che a ottantotto anni è pieno di acciacchi, con il cuore che non tiene bene, la testa che si appanna, le mani deboli più delle gambe e il fiato corto. Così.

Invece: papà dove sei adesso come ti trovi? Senti la paura di scivolare ancora più in fondo, o sei felice di aver dato tutto e di essere arrivato?

In piedi, nella doccia, passo la spugna sul suo corpo nudo. È la cosa più dolorosa che mi sia capitato di fare. Quel corpo che non ho mai visto nudo, se non nella malattia, che adesso rende bene l’idea di “cadente”. Le gambe tremano un po’ mentre si tiene con la mano alla mia spalla. Passo la spugna senza dire niente, gli occhi sono paralizzati, sulle piastrelle azzurre. Vorrei non averlo mai fatto. So che questa cosa mi resterà negli occhi per tanto tempo.

Massaggio le spalle con l’ asciugamano, mentre decidiamo davanti allo specchio se fare la barba o no. Mi ricordo di quando mi ha insegnato, davanti a questo specchio, a farmi la barba. Glielo dico. Gli diventano gli occhi lucidi, e mi dice: io non mi ricordo.

Cristo, che dolore, qui nel petto, vicino al cuore. Sparami, Dio, piuttosto di farmi questo. Allora gli racconto delle mie prime barbe, che poi erano due peli sotto al naso, del deodorante messo per Gaia, delle docce a guardarsi il pisello. Ridiamo, come se ci fossimo detti tutto. Lui nudo, io dietro di lui con il rasoio in mano.

Mentre il caffè borbotta, cerco un cacciavite per avvitare una sedia. Nel ripostiglio trovo una scatola con un orologio, un crocifisso e un diario. Lo prendo, lo metto in tasca, e torno in cucina. È stanco. Lo rimetto sulla poltrona.

Seduto su un treno pieno di gente che parte, tiro fuori il diario, anno domini millenovecentocinquantotto. Aveva ventidue anni. Scrive piccolo, ordinato, prende nota di tutto. Otto anni dopo si sarebbe sposato, con la donna della sua vita, una casa nuova, due figlie, poi un altro, il boom economico, la carriera, la pensione, i nipoti, eccoci arrivati.

La domenica è il giorno in cui scrive di più, il resto della settimana ha meno tempo. Sfoglio fino alle giornate in caserma, la noia, le lettere a Bruna, l’amore di sua sorella che lo segue. Un giro con una Vespa prestata. Una sera ha scritto di aver paura. Non di cosa. Poi i conti del lavoro, lo stipendio.

A ottobre decide di comprare un cappotto. Ci vogliono due mesi, con dei conti ben precisi.

Non sono mai stato così vicino a quest’uomo che oggi nudo rideva con me. Alla fine, la fine che si avvicina, serve sempre.

Noi che siamo in mezzo

Una temperatura assurda, forse l’umidità, le finestre chiuse per tutto il giorno, e tutta quella gente. I genitori sulle panche e sulle sedie, e i ragazzi, chitarre, violini, quelli del pianoforte a mani nude vicino a un vecchio piano nero. Chi arriva, cerca un posto, si siede, mette il cellulare in silenzioso, cerca il figlio con gli occhi. Iniziano i violini di prima media. Stonano e tremano, si vedono le facce, ancora bambini, contratte, la professoressa che segue con le mani lo spartito, ma che ad ogni sbavatura, ci crede meno. C’è il desiderio dei papà e delle mamme, la stanchezza dei nonni, il realismo dei professori. Ma poi c’è la cosa più importante. Per scriverla mi ci vorrà qualche tempo. Ci sono loro. Che sono il centro del mondo. Per loro sta succedendo tutto e tutto gira intorno a loro. E’ stato così per noi. Sarà così per i loro figli. E’ solo un peccato non saperlo, mentre ti succede. Non sento più la musica, mi perdo le note di mio figlio, mi lascio cullare dal ricordo di quando ero lì io. Al centro di tutto. E penso alla fatica dell’amore, all’ansia del successo, alle misure che prendi per forza e quelle che ti prendono da sole. E’ solo un peccato, non sapere che ti sta succedendo.

La dottoressa alla fine si convince e gli chiede di abbassare i pantaloni. A volte penso che noi saremo anziani diversi, anche solo per come ci vestiamo. Mio padre ha sempre pantaloni seri, dal taglio perfetto, di stoffe pesanti. Sulle scarpe, ha ceduto alla fine. Ma pantaloni e camicia no. Scopre le gambe, e io guardo subito la dottoressa. Il colore, il gonfiore, le ulcere. Lei lo accarezza piano, credo si faccia così quando non c’è molto da fare, si accarezza il problema, lo si accetta. Poi gli parla con calma e sorridendo. Usciamo, lui tiene stretta la cartellina blu con dentro tutte le visite, tutte no. Le visite, i referti, le ricette, degli ultimi mesi. Ha bisogno di scriversi le cose adesso, e ha bisogno che gli spieghi le cose, adesso. E’ una cosa nostra. Nostra di figli. Nemmeno la mia compagna capisce quale sia il prezzo di dover spiegare a tuo padre quello che è appena successo. Non la biasimo, non lo capisco nemmeno io. Il mondo lo sta lasciando indietro. E lui lo ha capito. E’ questo, l’invecchiare? Sentire la fine sempre più vicina, e capire che il mondo sta andando avanti. La conferma che tu non solo non sei il centro, ma sei davvero superfluo. Al saggio, in palestra, gli occhi lucidi cercano il nipote. So che non lo trova, so che non vuole chiedere perchè si vergogna. Allora gli dico che la colonna ha delle crepe sospette, proprio in basso. Gli occhi seguono la colonna, trovano il nipote, il respiro calmo mi dice che va tutto bene. E’ solo un peccato, sapere che ti sta succedendo, che il mondo sta andando avanti e tu non ce la fai. E poi, se non credi ci sia qualcosa dopo, staccarti da tutto quello che hai qui deve essere un dolore enorme.

Mentre salgo sul tapis roulant cerco una playlist. Inizio a sudare subito, guardo fisso la parete, correre così è da scemi, ma questo maggio d’autunno ci costringe a fare scelte così. Arriva una canzone che mi porta subito al calorifero del soggiorno di un mio compagno, che adesso è notaio. Era giugno, era finita la scuola, era il compleanno di non ricordo chi. Avevo preso il motorino di un compagno, senza dirlo ai miei. Ed eravamo andati insieme. Non vorrei sbagliarmi, ma penso di averla baciata per almeno due ore. Tutto il tempo della festa, prima che suo padre la venisse a prendere. Il mondo, il centro del mondo, era quel calorifero. Penso alla palestra. A chi è il centro di tutto, a chi sta scivolando dietro a un ricordo di mondo. E a noi, che siamo in mezzo. Che forse è il posto più scomodo e stancante, ma è anche il più bello.

Mi ci vorrà del tempo per scriverci senza farla sembrare una cosa malinconica, ma ho ancora qualche anno, in questa pancia in mezzo alla vita, per farlo.

Chimica dei quarantacinque

I monaci ortodossi vengono chiamati gli assomiglianti. Assomigliare alla bellezza. E’ una cosa che mi è piaciuta tantissimo, quelle che poi ci pensi e dici: beh faccio bene a leggere questi libri sul monachesimo ortodosso che avremo letto in tre, io e due monaci ortodossi, forse. Ma non è bellissimo, il desiderio di assomigliare alla bellezza?

D’altronde, lo citate tutti il povero Dostoevskij, “la bellezza salverà il mondo”.

E’ che il vecchio Dostoevskij citava a sua volta, senti che storia pazzesca, Sant’Agostino, che diceva: la bellezza ci salverà. Ma, Sant’Agostino non intendeva mica i fianchi stretti, o i seni rigogliosi, o i folti capelli pettinati. Se tradotto bene, suona così: la grazia ci salverà.

E niente è più bello, laico, profondo, della grazia. E da qui partiamo.

Non so perché, ma sta cosa dei quarantacinque anni sta prendendo una piega strana. Maggio è il mio mese preferito, non per il mio compleanno, ma perchè è l’anticipo. Quando l’estate arriva a saldare il conto del lungo inverno, mette sul tavolo un anticipo, per far capire di avere i mezzi, come fanno quelli ricchi veri. Così è nato maggio. Con le sue piogge indecise, ma comunque con il caldo che si insinua sotto le lenzuola e ti sorprende la mattina, insieme al sole deciso. Dovessi trasferirmi, mi trasferirei in un posto dove è solo maggio. Ho pensato, maggio questo giro mi porta quarantacinque anni. Che voi non gli date peso, ma è lo scollinamento. Non lo dico io, lo dice la statistica. A quarantacinque anni, proprio quel giorno del tuo compleanno, hai vissuto più settimane di quante te ne rimangono da vivere. Ci hanno fatto anche uno studio. La cosa, tendenzialmente, dovrebbe farti riflettere. Metterti addosso quella sana angoscia di uno che sa di aver passato un sacco di tempo sulla terra e di averne meno.

Questa estate sono morti quattro amici, quattro conoscenti, miei coetanei. Mentre ero in vacanza in Toscana mi sono arrivate le notizie. Ci ho bevuto sopra, guardando le stelle. Il giorno dopo sono andato a correre. Ho iniziato a correre per due ragioni, lo dico perchè credo di non essere solo. Io corro per scappare. Sono trentacinque, quaranta minuti in cui riesco a lasciare indietro tutto. E riprendo il filo dei pensieri. Non hai idea nemmeno quanto mi faccia incazzare quando mi chiami che sto correndo. Che mi spezzi il filo. E poi corro per costanza. Per dire al mio corpo che ancora comando io. Questo è indispensabile. Sarei già morto, fossi stato dietro al mio corpo.

Correre, in Toscana, tra le colline del Chianti, è molto simile a stare seduti vicino alla bellezza. Correndo, ho pensato alla morte. Mi spaventa, sentire la morte sempre più vicina. E mi lascia il dubbio di non aver fatto quello che dovevo fare. Quando la morte si avvicina, con una notizia di un conoscente, una malattia di un amico o di un parente, mi trovo sul cesso a guardare il cellulare e pensare: ma io davvero spendo trenta minuti tutti i giorni a guardare dei gattini o delle poverette nude su Instagram? Mentre cago, mi faccio cagare. Confesso che potrei fare a meno delle poverette nude, perchè ormai è troppo. I gattini li ho anche portati alla mia psicologa, perchè davvero non riesco a farne a meno. Ultimamente si stanno insinuando le ricette vegetariane: guardo adorante i broccoli che si lessano, le coste aromatizzate, il pinolo e l’uvetta che cadono su un letto di cavolo cappuccio. Chissà che non sia un principio di qualche malattia neuro degenerativa.

La morte serviva a Seneca per ricordarsi di vivere meglio. Ci provo anche io. Ma questo meglio, esattamente cos’è?

Ieri ho passato la notte a correggere il mio primo romanzo d’amore. Sarà anche l’ultimo, vista la fatica che ho fatto. Mi succede che, quando finisco di scrivere, mi viene subito il pensiero di cosa vorrei scrivere dopo.

Ho iniziato, qualche mese fa, una cosa sulla meraviglia.

La chimica dei quarantacinque anni ruota intorno alla meraviglia.

A quarantacinque anni puoi sentire il peso di una parola che hai detto un milione di volte: ancora. Sono ancora vivo. Sono ancora carina. Sono ancora felice. Ancora, a venti, a trent’anni, è un rafforzativo del passato. Sono ancora felice, da quando ero bambino o ragazzo. E’ una questione di continuità. Tu sei ancora qualcosa perchè continui ad esserlo.

A quarantacinque anni, ancora è la vittoria sul futuro. Sono ancora bella, dici guardando allo specchio la tua pelle, che non ha più vent’anni, ma nemmeno trenta, e nemmeno quaranta.

Io ad esempio ho ancora i capelli. Ancora, per oggi.

Ancora, a quarantacinque anni, è pura resistenza.

Non esiste nessuna continuità con i tuoi venti, con i tuoi trenta. Il passato è uno zaino, da cui a volte tiri fuori questioni spinose, o infili di fretta pesanti periodi. E il futuro, cazzo ragazzi il futuro, è una giornata di primavera: può esserci il sole e poi piovere. Ancora, a quarantacinque, è una scommessa, una sfida.

Confesso che invecchiare non mi spaventa. Dico “oplà” quando mi siedo in macchina ormai da un paio d’anni, guardo i culi delle ragazze di vent’anni di meno, e provo un misterioso fascino per le complessità dei cantieri. Sono ancora qui. Cambiano alcune cose, ma sono ancora qui.

Ho fatto un percorso molto difficile, negli ultimi tre anni. Ho un diario, dove scrivo cose che non scriverei qui o che non direi in giro, che ha tenuto traccia di tutto quello che ho dovuto leggere, ascoltare, imparare, studiare a fondo. Ma dato che non sono qui a fare lezioni, vi basti sapere che mi sono messo a cercare di capire la bellezza.

Poeti, filosofi greci, pittori, attrici, neuropsichiatri, dottori, guru e santoni, monaci e professori universitari. Ho assorbito tutto.

Ho la sensazione mi manchi ancora moltissimo da imparare. Ma due cose le posso dire con certezza.

Siamo quello che sogniamo. E la bellezza, la grazia, ci salverà davvero.

Così, a quarantacinque anni vorrei avere intorno le persone che mi raccontano i loro sogni. E vorrei bellezza.

Tutti vogliamo assomigliare a qualcosa. E’ un istinto.

La chimica dei quarantacinque anni, gira tutta intorno a quanta voglia hai di cercare per davvero di assomigliare a qualcosa che, quando muori, ti lasci con un sorriso.

Non serve aggiungere altro.

Gli assomiglianti. Pensateci.

La fioritura delle magnolie (dizionario della meraviglia)

La prima volta in cui mi sono accorto delle magnolie in fiore era un sabato di aprile. La domenica avremmo votato per le regionali, mantenendo intatti orgoglio e certezza della sconfitta, per me sarebbero state le prime elezioni, il primo voto, la mia prima volta.

Sono stato lasciato da Gaia il venerdì pomeriggio, ma come poi sarebbe successo molte altre volte, ci ho messo un po’ più tempo a capire e ho realizzato sabato mattina che, in effetti, ero rimasto solo. Il giorno prima delle elezioni, ma peggio ancora, a pochi passi dalla prima estate insieme, da soli.

Mi ero seduto davanti a casa sua, come potesse servire a qualcosa, e avevo sentito quel profumo incredibile venirmi da sopra la testa. Ecco le magnolie in fiore, in mezzo alla città. Non le avevo mai viste, mai sentite, mai avevo capito.

La meraviglia.

Succede così, la meraviglia. Non lo sapevi prima, lo sai, ed è bellissimo.

Quasi quindici anni dopo, lo stesso giorno di aprile, alla fine del pomeriggio, è nato il Piccolo. Sono uscito nel cortile dell’ospedale per fumare una sigaretta, e ho trovato le magnolie in fiore. Mi sono ricordato della meraviglia, e ho aggiunto il ricordo a una meraviglia ancora nuova. C’era odore di bagnato, nel cortile, e il sole stava scomparendo dietro a uno dei padiglioni, illuminando solo la punta dell’albero. Alla sera ho preso la moto e sono tornato a casa, sentendo l’aria calda sulle braccia e le vibrazioni del due cilindri.

La meraviglia.

La meraviglia raccoglie quello che c’è intorno, dettagli insignificanti, magari piccole cose che non avrebbero mai trovato spazio nella tua memoria, per metterle insieme. La meraviglia cucina tutto insieme. E così il vibrare godurioso del due cilindri e il sole caldo mi sono rimasti nelle braccia, nella testa, insieme alla magnolia, insieme a un figlio che nasce.

L’anno scorso, lo stesso giorno, era martedì, ho preso una strada sterrata che saliva a un santuario, con la moto che ha iniziato a slittare, ondulando come fosse una zattera.

Ho respirato il profumo del prato, l’odore del legno umido, mi sono accarezzato per togliermi la polvere dalla barba, ho appoggiato la mano vicino al motore per sentire il caldo, la fatica dei due cilindri.

Chi sono io, adesso? Ho pensato.

Non mi so mai rispondere.

Ma so di certo che ti ho cercata in un sacco di posti sbagliati, e non ho mai saputo ammettere che non trovarti fosse logico.

Alla fine di un sentiero, fatto di corsa, nelle gambe socchiuse di una donna, nel sorriso di un amico, su una spiaggia a fine stagione, dal finestrino di un aereo.

So dove non ti ho trovata. E so di aver bisogno di te.

Ultimamente corro. Mi sembra il palliativo migliore. Mi meraviglio delle mie gambe, di un panorama, dello scorrere del tempo.

Ma quelle magnolie in fiore, quello è stato davvero un inizio.

La meraviglia

Camere vuote

Rassegnati, aveva detto, guardandosi nello specchio, mentre si rimetteva le mutandine. Cioè, non aveva esattamente parlato, aveva sospirato.

Un sospiro lungo, di accettazione, come quelli che faceva sua mamma, in casa, quando suo padre dava i numeri. Si stringeva il grembiule sulla pancia, e poi buttava fuori l’aria, come a volersi liberare da un nodo. Lo stesso identico sospiro.

Nuda, dentro lo specchio, vedeva un corpo che ancora le piaceva, ma con i segni del tempo. Si dice così, i segni del tempo. L’invecchiare lo vogliamo raccontare così delicato, ma quella pelle sulla pancia, quei fianchi, e anche quel neo rosso, sotto il seno sinistro, non erano segni del tempo, era l’invecchiare, inesorabile. Era il suo promemoria del tempo, che passando, lascia sul corpo dei ricordi, che allontanano la bellezza, per come la vogliamo immaginare.

E l’amore? Stava chiudendo la borsetta, con i trucchi, cercando il telefono, e guardando velocemente nella camera, per assicurarsi di non aver lasciato niente.

L’amore è questo qui, vero? Queste camere, che lasciamo di corsa, dopo qualche ora, cercando con attenzione di non dimenticare niente, perchè non sia mai che i proprietari ci scrivano o ci chiamino. Siamo qui di nascosto, e di nascosto andiamo via.

Lui andava sempre via primo. Si rivestiva, e poi c’era quel bacio lungo, perduto, che sembrava sempre un bacio d’addio. Come le ombre in camera, bisogna stare attenti, alle sfumature. Un bacio può sembrare una promessa, un’addio, una parentesi.

Basta non chiedere, aveva imparato.

Non si chiede mai.

Così non si rischia di ascoltare cose che non si vorrebbero mai sentire.

Prima di andare, anche lui si guardava intorno, nervosamente. Poi usciva, con un ciao detto sottovoce.

E lei si rivestiva, con calma. Non si lavava più. Nessuno sarebbe andato a cercare profumi sconosciuti, tra le sue gambe o sul suo seno. Nessun rischio. Stava seduta sul letto, guardava il telefono, a volte prendeva una birra dal frigobar, quando c’era il frigobar. Poi si rivestiva, cercava le mutandine nella borsetta, le rimetteva, guardava la camera, e usciva.

Si era tolta le mutandine quattro anni prima, al loro secondo incontro, in un bar, prima di vederlo.

Poi aveva preso la sua mano, nel bar pieno di gente, e l’aveva messa lì.

Era il suo modo dire, sono tua.

Così era rimasto, per anni. Avevano superato l’agosto, di ferie in famiglia, il Natale terribile, di solitudine.

Avevano superato tre compleanni da una parte e quattro dall’altra.

Lui, quest’anno, le aveva regalato un anello. Sapeva di sfida. L’aveva indossato subito, e tenuto. La sfida le piaceva. Solo che nessuno, a casa sua, aveva raccolto la sfida. E così aveva sospirato, guardando il frigorifero e l’anello sulla mano.

Così era andata.

E quindi l’amore è farsi trovare, cercarsi, e sapere di esser gli unici a volersi?

Questo se lo chiedeva, la risposta non la spaventava.

Chiudendo la porta della stanza aveva pensato a chi sarebbe arrivato il giorno dopo.

Un altra storia d’amore nascosta? O forse una giovane coppia. O forse una donna sola, per lavoro.

Ma l’amore è necessario?

Si.

Aveva risposto ad alta voce, in ascensore, davanti allo specchio.

Si, lo voglio.

Come fossero in chiesa.

E così era tornata a casa.

Profumi e Rifugi

Ieri ho comprato un profumo nuovo. Era successo al liceo, la prima volta. Come tutte le mie prime volte, non bellissimo, ma originale. La combo liceo – prime volte è sempre stata particolarmente difficile per me. Le riassumerei così: inadeguate, noiose, necessarie.

Ho avuto tre profumi nella mia vita. Tutti scelti per delle donne. Nessuna di loro lo aveva chiesto. Il fil rouge della mia beauty routine è un po’ tutto così, mai richiesto, ma abbastanza indispensabile.

Il mio primo profumo era leggero, di frutti e di estate. Ne mettevo due spruzzi sul collo, appena finita la barba. Mi facevo la barba lasciando le basette e i baffi. Non credo fosse voluto, ma l’effetto motociclista californiano era immediato e lampante.

Il secondo profumo lo ho comprato in America, a New York, sulla Quinta. Mi eccitava l’odore che lasciava sui commessi palestrati. Così me lo sono comprato. Ancora adesso lo so trovare tra mille e mi piace l’effetto che mi fa, anche se non saprei definire le note o i toni. Sa di divani, di mani, di pelle, insomma un profumo godereccio.

Una volta ho scritto un racconto su mia nonna, e mi ricordo di aver provato a descrivere quel ricordo nitido che ho di lei in vestaglia, davanti al comodino, mentre si mette la cipria e poi il profumo, con quei vecchi cosi di silicone che spruzzavano ovunque. Mia nonna metteva il profumo sempre. Aveva questo odore di cose belle, di ricordi, come tante nonne. Sapeva anche di piscio, a dirla tutta. Perchè teneva sotto il comodino un pitale, per non andare fino in bagno di notte.

Sono cresciuto con l’idea che fosse normale pisciare di fianco al letto, e anche con l’idea che il profumo fosse una cosa importante.

La prima commessa ieri, una ragazza carina con lo sguardo stanco, mi ha fatto annusare cinquanta profumi. E’ bello, perchè sono tutti con di fianco la faccia di uno super famoso. Così tu annusi, senti petrolio e pompelmo e hai davanti Johnny Deep. E pensi che lui profumi di pompelmo e petrolio.

Poi è arrivata una commessa più vecchia, con una strana pancia gonfia e le occhiaie. La prima cosa che mi ha detto è stata: esci a prendere aria. Penso sia stata la cosa più tenera che ho sentito da una decina di giorni. Capire che tutti quegli odori, tutti insieme, mi stavano lasciando senza energie.

Poi mi ha portato al mio profumo. Ho scoperto di amare gli odori legnosi e fruttati. E’ bene saperlo.

Stamattina sono andato a correre, ho corso tantissimo, fino a non sentire le gambe. Poi sono arrivato sotto casa, e mi sono appoggiato alla fontana. Ho sentito il profumo, venire oltre la maglietta, arrivarmi nel naso. E ho pensato di dover scrivere una lettera, d’amore.

Mi sono seduto, la pietra gelata, davanti a due giovani genitori.

Ho scritto la lettera, poi ho cancellato tutto, mi sono goduto il sole, e sono salito a mangiare delle lenticchie. Sono contento del mio profumo. Non vedo l’ora di portarlo nella mansarda a Torino che ho trovato per dormire. Sembra abbia tutto quello che mi serve. Mancava un profumo legnoso.

Tu dovresti annusare il mio profumo.
Dovresti farlo con urgenza, come si fa con le cose importanti.
Non per farci cose strane, ma solo per abituarti, oppure dirmi anche: no, non ci siamo.
Il profumo si annusa dalla pelle, mi hanno insegnato ieri.
Così dovresti fare tu.
Dovresti anche capire la differenza tra nascondiglio e rifugio.

Perchè tu credi di essere un nascondiglio, invece sei un rifugio.
E tra un nascondiglio e un rifugio ci passano tante cose.
Credo ci sia bisogno di dirselo, a quarantacinque anni, che i nascondigli non servono più. Non ci si nasconde più, alla nostra età. Se guardi, anche le puttane vecchie sulle statali sono quelle che si nascondono di meno. O i vecchi sulle panchine quando scoreggiano senza nemmeno controllare di esser soli. Sanno che nascondersi non serve più.
Invece serve sapere di potersi rifugiare.
E rifugiarsi è un bisogno preciso.
Io sto finendo l’ultimo mio libro, poi ho deciso di non scrivere più romanzi d’amore. Mi annoiano e ci faccio troppa fatica. Se no avrei di sicuro scritto qualcosa su questa sensazione di rifugio.
E’ trovarsi fermi, immobili, nudi, vestiti, non importa, e sentirsi protetti, sentirsi definiti.
Un rifugio lo meritano tutti. Vorrei essere rifugio per le persone che amo.
Vorrei trovar rifugio, per fermarmi tra una tempesta e l’altra.
Questo profumo che ho comprato è pazzesco. Perchè sa di rifugio, e si sente tantissimo.
Spero di non abituarmi mai.
In generale, nella vita, spero di non abituarmi mai.
E spero di riuscire a spiegare a tutti che nascondersi non serve, rifugiarsi è fondamentale.
Adesso butto questa lettera.