Sul treno, carrozza 2 posto 37, c’è una fastidiosa luce gialla, e un preoccupante filo di aria gelida che arriva in prossimità del ginocchio sinistro, offendendo il sonno che prova con prepotenza a tornare. Fuori, invece, c’è un cielo grigio, un colore steso e unico, la notte che molla il colpo per l’alba, l’alba che non ce la fa, la neve, prevista ma che non scenderà mai su Milano, insomma quel genere di mattino d’inverno in città. Forse la luce gialla è fastidiosa per via della luce fuori.
Mi viene in mente la macaia. Proprio così, mentre mi massaggio il ginocchio sinistro indolenzito per il freddo. Mi viene in mente lo Scirocco, stucchevole, delle serate di fine luglio. Opposti perfetti.
I periodi lunghi con cui Berbero scrive i suoi libri, articolati e complessi come piccoli labirinti, che non puoi staccare l’attenzione dal libro, dalla pagina, se no perdi il filo che ti sta salvando per uscire dal labirinto, mi fanno tornare in mente la stretta punteggiatura dell’autofiction contemporanea. Un qualsiasi autore da scaffale, con quelle frasi, sei parole, che provano a restare, ma che scivolano veloci nell’oblio del leggere per disoccludere l’encefalo.
Le parole sono fondamentali.
Mi sono incastrato in una pagina non ben definita, saranno una quarantina quelle che ho scritto, perchè non trovo le parole. Conosco la sensazione, la voglio scrivere, non ne ho le parole. Possibile, mi sono chiesto l’altra mattina in palestra, che non ci siano le parole?
La ragazza di fianco a me ha sempre una tuta, aderente, violetta, come i capelli, tinti. Per ogni esercizio davanti allo specchio, il finale è dedicato a delle foto. Il piede avanza, ammiccante, la coscia si tende, la pancia rientra, il seno spinge, lei ammicca e scatta. Chissà, pensavo guardandola, chi cazzo ha voglia di ricevere cento foto al giorno dello stesso corpo. Quanto può cambiare il desiderio, quanto può cambiare la malizia, in foto scattate a ridosso di istanti?
Questa questione dei leggins, a volte mi deprime. Questi glutei sorretti con una forza straordinaria, e continuamente plasmati da esercizi quotidiani, come fossero un muscolo fondamentale per la vita stessa. Mi deprime la bellezza ordinata nel canone, come mi ha sempre depresso la semplicità del mainstream. Si può dire? Sembra troppo rarical chic ammirare un difetto, guardare chi sconfina, amare particolari che non vede nessuno. Eppure l’universo obbedisce all’amore, non alla bellezza.
Mio padre sta perdendo la brocca in un modo che è unico, come per buona parte della sua vita, senza dar troppo fastidio, senza diagnosi drammatiche, semplicemente perdendo dei pezzi. Assomiglia a quelle vecchie, solide, affidabili, Fiat, che la lamiera, corrosa da anni di pioggia, non si piegherà mai, che la plastica, cotta dal sole, non si smuove di un millimetro. Mio padre invecchia come le Fiat. Ho delle colpe, nella fatica di recuperare un rapporto che non è mai stato un gran film da vedere per i due spettatori, io e lui. Siamo il Toffolo e il Banfi delle relazioni famigliari.
Mio figlio non ha idea di cosa significhi la sensazione di oppressione che appesantisce gli occhi di mio padre, quel sapere che sta arrivando la fine, e la fine è un nuovo inizio in cui devi credere fortissimo. Mio figlio sta decidendo in cosa credere, come crederci, quando crederci. Tempi e modi che allena come i muscoli, per guardarsi nel suo specchio, quello che gli adolescenti nascondono a tutto il resto del mondo, quello specchio che non si sa mai che immagine possa rendere. E’ quello specchio che un povero padre come il sottoscritto prova a pulire, a rendere uniforme, perchè possa ridare una bella immagine. Provare a seminare serenità nel cuore di un ciclone, chi ci crederebbe?
Opposti, la sensazione di poter vivere per sempre e la certezza di essere a una manciata di mesi dalla fine. Il credere in un nuovo inizio e il non preoccuparsene, per aver appena iniziato.
Avevo poi scritto una cosa sul tempo, e sulla fretta di scrivere, ma è molto frequente, ultimamente, che io mi trovi noioso nemmeno nel rileggere, addirittura nello scrivere.
Ci vuole quella delicata attenzione che hanno gli amanti, agli inizi, o che hanno i bambini, prima di diventare adolescenti, quella delicata attenzione che serve per raccogliersi, ritrovarsi e non annoiarsi. L’opposto dell’amore è la mancanza di quella delicata attenzione. Turbofilosofia, direi.
Ma nella pratica, se mi supero veloce, senza ascoltarmi per bene, poi mi ritrovo ad annoiarmi.
L’amore, per chiudere, è l’opposto della noia.