Mentre lei, a cavalcioni sulla mia schiena, armeggia vigorosamente con il mio braccio destro, mi viene nel naso il balsamo di tigre che mi ha spalmato sul collo. Poi si sposta di lato, appoggia la mia mano sulla sua gamba e fa pressione sulla schiena. Il dolore è sordo, passeggero, ma antico. E’ lì che mi fa male da anni, e lei è riuscita in qualche modo ad arrivarci. Il dubbio, mentre indossavo le mutandine di carta, supponendo che la parte più larga andasse a coprire il pube e sentendo la strana sensazione di avere una corda, di carta, infilata nel culo, mi era venuto: e se facendo manovre sbagliate mi facesse più male che bene? Ma poi pensi, ci vengono tutti, siamo in centro a Milano, c’è la musica soffusa, costa un occhio della testa, saranno anche preparate. Non ha nessun senso. Ma è così che si prova a tirare avanti, trovando il senso, anche dove non c’è.
Quando usciamo dal centro massaggi c’è ancora luce, ma il freddo sta scendendo, è bagnaticcio, fastidioso, arriva sulla fronte. Cammino sentendo piccoli dolori, pare che sia il segno che le sapienti mani abbiano fatto il loro lavoro. Anche alla casa, il ragazzo mi ha detto: vedrà come dormirà bene. Ma io non sono venuto a farmi fare un massaggio per dormire, volevo dirgli.
La mattina mi alzo un’ora prima di tutti. Mi serve per far quadrare le cose. Era una meditazione, ci sono giorni che assomiglia a una preghiera, ed altri giorni in cui sorseggio il caffè guardando nella penombra davanti a me, senza pensare a nulla. E’ un gesto antico, come quello dei vecchietti che arrivano davanti al mare, con quei piccoli sgabelli di latta e plastica, li aprono e si siedono guardando il sole. Il mio sgabello è il divano, quando sono a casa, a volte le poltrone di pelle sintetica degli hotel, su cui si incollano le cosce nude. Il freddo della stanza mi arriva addosso, mi costringe a respirare. Gli occhi si richiudono, più per cercare il sonno rimasto che per meditare. Non ho grandi cose da raccontare, di queste ore rubate a tutto e tutti, ma so per certo di non poterne fare più a meno.
La domenica sera mi piace leggere il giornale, con le recensioni dei libri. Il lunedì è una pessima idea, quasi sempre.
Sto scrivendo un libro che sta prendendo forme continuamente diverse. Mi supera, di notte, quando non ci penso, e al mattino dopo ha cambiato forma, trama, sostanza. E’ una specie di lotta, tra me e lo scrivere. Mi piace. E’ sull’assenza del padre, o meglio così era iniziato. Adesso è diventato un catalogo di padri. A volte per risolvere le mie questioni, scrivo parlando di altri.
Ho molta voglia di continuare a pensare di essere ad ottobre. E’ un mese docile. Novembre mi annoia. Rotolo in una lavatrice di cambiamenti, al lavoro, in cui sono un calzino spaiato che sbatte sulle pareti di acciaio del cestello, in una centrifuga che tutti dicono dover, prima o poi, finire. I maglioni ne usciranno compromessi, parrebbe. Poco danno per noi calzini. Che però sbattiamo come proiettili.
Ho detto tutto.