Somatizzare male

Un bambino che gioca con la sua bicicletta, una bicicletta pieghevole, portata nel baule della macchina, in una domenica qualsiasi, per farlo stare buono, come tutte le domeniche, mentre i genitori fanno altro. A un certo punto incontra un serpente, sulla ghiaia, nel mezzo del giardino.

La psicologa mi chiede di tornare a un ricordo specifico, io lo faccio. Mi sono fidato delle donne, in passato, ed è sempre andata maluccio, ho pensato mentre Marina mi diceva: dobbiamo fare in modo che lei si fidi di me. Una delle prime donne della mia vita che me lo chiede senza spogliarsi o gettarsi sul mio divano. Io mi fido, Marina, di Dio, di me stesso a volte, e del senso del bello che mi salverà, ne sono certo.

Lavoriamo sul somatizzare. Io non somatizzo. Io esplodo. Ed è un bene che abbia imparato la parola giusta, per definire quelle giornate in cui, paralizzato dal dolore, dal rimorso, dalla paura, vado prima in tilt con la testa e subito dopo con il corpo.

Marina non è la prima che vuole lavorare su questa cosa, ma è la prima volta che non ce la faccio più. E Beatrice, che di lavoro fa la dottoressa, ma che con me ha esercitato molta pazienza, mi dice, l’ultima volta in uno studio in Piazza della Repubblica: prendi sul serio questa roba, Franz. Ed eccomi qui.

Il bambino sta davanti al serpente, in piedi, di fianco alla bici. La prima cosa che sente è il caldo sulla gamba sinistra. Pisciarsi addosso senza riuscire a fermarlo. E poi una disperata voglia di chiedere aiuto. Solo che non c’è nessuno intorno. Come tutte le fottute domeniche. Sempre e solo questa dannata bicicletta azzurra.

Mi piscerò addosso altre due volte nella vita. Sempre per paura. Non contiamo quelle in piscina o in mare, che sono per noia.

Cammino agitato sul terrazzo dell’ufficio, c’è un sole forte, un dicembre strano. Il mio corpo non risponde. Sono quel bambino, sono davanti al serpente. Mi tocco la pancia. Ascolto il mio polso, continuo a camminare. Così.

Il bambino non riesce ad urlare. Il piscio è sceso nella scarpa, inzuppandola. Il serpente si muove. La paura si trasforma da paralisi a rabbia. Il bambino esplode, salta sul serpente, non lo prende, il serpente scappa, il bambino prende la bici, le gambe tremano, pedala fortissimo fino alla vecchia villa. Lascia la bici.

Mi siedo su una sedia di quelle di ferro, da cafè francese. Prendo il sole in faccia, inizio a respirare. Penso a Dio, penso a un enorme quantità di cose, tutte insieme, tutte adesso. Conosco il problema. Riprendo il respiro nel naso, trattengo. Rilascio. Io potrei tenere un corso sulla respirazione. Una ragazza che lavora in ufficio con me esce sul terrazzo, mi sorride. Sento il cuore esplodere. Il trucco è non smettere. Mi fa cenno con una sigaretta, come a dire ne vuoi una? Lavora in un fondo immobiliare, avrà quarantacinque anni, le labbra sono tese e gonfie, il seno esplode, o per un reggiseno di tre taglie in meno o per le sapienti mani di un chirurgo. Le guardo sempre il piccolo diamante al dito. Promessa che poi qualcuno dovrà mantenere, immagino.

Il bambino entra nella villa, cerca sua madre, sono stanze enormi e ordinate. La trova. La guarda senza dire nulla. Lei si avvicina e lo guarda sorridendo. Poi ride. E sottovoce gli dice: non è tardi per farsi la pipì addosso amore mio? E chiama il padre. Il padre arriva. Negli occhi disappunto, guardando i pantaloncini e la scarpa zuppa. Il bambino non riesce a dire nulla.

Respirando riprendo il controllo, parziale, del mezzo. La ragazza è tornata dentro, ma sono usciti due colleghi che ridono sul sole a dicembre. Respiro l’aria fredda dal naso. Aspetta un attimo, Franz, non iniziare a parlarti in terza persona. Aspettami ancora qui, proprio dove sei, e ti prego non sdoppiarti. La terza persona la lasciamo agli psicotici. Mi alzo, so benissimo che non riuscirò a lavorare o a parlare, o a fare altro, per un po’. Allora cammino ed esco in strada. Tutti che corrono dentro e fuori dai negozi. Cammino fino alla piccola chiesa ortodossa. Mi siedo di fianco a un ragazzo, sui gradini, davanti al sole. Non parliamo, sembra che lui non respiri, guarda fisso per terra. Si gira, mi guarda. Mi chiede, hai una sigaretta? Rispondo che no, ma ne vorrei una anche io. Allora tira fuori un pacchetto, distrutto, di Rothmans bianche. Ne prende una. Mi dice: iniziala tu. Gli dico, ok. Fumo, guardando da terra la gente che corre nei negozi. Gli passo la sigaretta, lui mi dice: dormi qui anche tu? No, rispondo. Sono vestito così male? Gli dico. Una delle cose più stupide che si possano dire. No, non per quello. Credevo di averti visto anche ieri sera. Ieri sera ero passato di qui, in effetti, a portare del cioccolato. Ok, allora hai dei soldi? Si. Me li dai? Si. Prendo il portafoglio, tiro fuori trenta euro e glieli do. Li guarda, ride, e dice, madonna. Sono tutti quelli che ho, rispondo. Tienili per le sigarette, mi risponde. Tienili tu per vivere, dico io. Non stai bene vero? No, rispondo. Sta zitto, spegne il mozzicone per terra e poi raccoglie il tabacco misto alla cenere con le dita.

Questa storia è particolare, Francesco, ma non centra con quello che ci eravamo chiesti. Lo capisce? Lo capisco, rispondo. Quel bambino è rimasto lì. Marina, le dico. Fermati. Se non centra, non entriamoci. Va bene, dice lei.

Mi alzo. Come ti chiami, chiedo. Julius, risponde. Ciao, sono Franz. Torno, in queste sere, con qualcosa di caldo, aggiungo. Dormo sempre qui, dice lui, fino a quando non morirò. Forse cambierà qualcosa, mi viene da dire, ma poi non lo dico. L’ottimismo da supermercato mi ha intossicato fin troppo. Entro nella piccola chiesa ortodossa, prendo una candela, sottile, di cera d’api, il profumo mi ricorda Gerusalemme. Accendo la candela davanti a un’icona di Cristo. Non dico niente, non penso niente. Resto fermo, respiro. L’odore di incenso e di cera è forte.

Marina, un ultima cosa, ma dove sono gli altri quando sto così? Lo chiedo con disperazione e con forza. Lei è abituata, le nostre sedute sono delle montagne russe. A volte mi imbarazzo, ma poi penso che abbia studiato per questo. No, non solo per questo, ma anche per questo. Sembro un orso ferito, quando mi lamento. Goffo. Francesco, a cosa servono gli altri, quando sta così? Marina gira le mie domande, le sue risposte diventano domande. Parte del suo lavoro, credo. Non diceva di credere in Dio? Le dovrebbe bastare, no? Provocante. E se dicessi di no? Non rispondo. Restiamo in silenzio.

Nella mia economia personale, l’aver ceduto gli ultimi euro a un barbone è decisamente una cazzata. Sorrido, nel silenzio della chiesa. Nemmeno la peggiore che potrei fare oggi, penso. Guardo l’icona. L’amore che mi avevi promesso, dov’è? Spero poi, nessuno mi senta parlare con un’icona. Anche se sono lì per quello. Esco e mi incammino verso l’ufficio. Quando, a Gerusalemme, siamo andati contro il muro del pianto, ho sentito forte la scelta di rimanere su un dolore grande come una promessa disattesa. La guerra, degli uomini, fatta per una promessa disattesa, pensavo guardando ebrei ortodossi in riverente preghiera davanti a un muro. Eppure è uno dei posti più incredibili del mondo. Sono stanco, ma mi sono ripreso. Posso tornare a lavorare.

Marina interrompe il silenzio. Era una provocazione, Francesco. Gli altri ci sono sempre, è solo come lei racconta la sua vita, forse, a non tenerli vicini.

Mi siedo alla scrivania e riprendo in mano la storia che sto scrivendo. E’ un libro assurdo, per ora. Ma immagino a un certo punto prenda una piega ragionevole. Lo scrivo di notte, o quando non sto bene. Sarà un libro delicato. Inizio a scrivere, e mi viene il ricordo di me in bicicletta.

Non so bene come finire questa giornata, esattamente come la storia che sto scrivendo. Somatizzare è una parola dolcissima, per raccontare cose più complesse.

Niente che un bicchiere di vino non possa risolvere, parrebbe.

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