Chimica dei quarantacinque

I monaci ortodossi vengono chiamati gli assomiglianti. Assomigliare alla bellezza. E’ una cosa che mi è piaciuta tantissimo, quelle che poi ci pensi e dici: beh faccio bene a leggere questi libri sul monachesimo ortodosso che avremo letto in tre, io e due monaci ortodossi, forse. Ma non è bellissimo, il desiderio di assomigliare alla bellezza?

D’altronde, lo citate tutti il povero Dostoevskij, “la bellezza salverà il mondo”.

E’ che il vecchio Dostoevskij citava a sua volta, senti che storia pazzesca, Sant’Agostino, che diceva: la bellezza ci salverà. Ma, Sant’Agostino non intendeva mica i fianchi stretti, o i seni rigogliosi, o i folti capelli pettinati. Se tradotto bene, suona così: la grazia ci salverà.

E niente è più bello, laico, profondo, della grazia. E da qui partiamo.

Non so perché, ma sta cosa dei quarantacinque anni sta prendendo una piega strana. Maggio è il mio mese preferito, non per il mio compleanno, ma perchè è l’anticipo. Quando l’estate arriva a saldare il conto del lungo inverno, mette sul tavolo un anticipo, per far capire di avere i mezzi, come fanno quelli ricchi veri. Così è nato maggio. Con le sue piogge indecise, ma comunque con il caldo che si insinua sotto le lenzuola e ti sorprende la mattina, insieme al sole deciso. Dovessi trasferirmi, mi trasferirei in un posto dove è solo maggio. Ho pensato, maggio questo giro mi porta quarantacinque anni. Che voi non gli date peso, ma è lo scollinamento. Non lo dico io, lo dice la statistica. A quarantacinque anni, proprio quel giorno del tuo compleanno, hai vissuto più settimane di quante te ne rimangono da vivere. Ci hanno fatto anche uno studio. La cosa, tendenzialmente, dovrebbe farti riflettere. Metterti addosso quella sana angoscia di uno che sa di aver passato un sacco di tempo sulla terra e di averne meno.

Questa estate sono morti quattro amici, quattro conoscenti, miei coetanei. Mentre ero in vacanza in Toscana mi sono arrivate le notizie. Ci ho bevuto sopra, guardando le stelle. Il giorno dopo sono andato a correre. Ho iniziato a correre per due ragioni, lo dico perchè credo di non essere solo. Io corro per scappare. Sono trentacinque, quaranta minuti in cui riesco a lasciare indietro tutto. E riprendo il filo dei pensieri. Non hai idea nemmeno quanto mi faccia incazzare quando mi chiami che sto correndo. Che mi spezzi il filo. E poi corro per costanza. Per dire al mio corpo che ancora comando io. Questo è indispensabile. Sarei già morto, fossi stato dietro al mio corpo.

Correre, in Toscana, tra le colline del Chianti, è molto simile a stare seduti vicino alla bellezza. Correndo, ho pensato alla morte. Mi spaventa, sentire la morte sempre più vicina. E mi lascia il dubbio di non aver fatto quello che dovevo fare. Quando la morte si avvicina, con una notizia di un conoscente, una malattia di un amico o di un parente, mi trovo sul cesso a guardare il cellulare e pensare: ma io davvero spendo trenta minuti tutti i giorni a guardare dei gattini o delle poverette nude su Instagram? Mentre cago, mi faccio cagare. Confesso che potrei fare a meno delle poverette nude, perchè ormai è troppo. I gattini li ho anche portati alla mia psicologa, perchè davvero non riesco a farne a meno. Ultimamente si stanno insinuando le ricette vegetariane: guardo adorante i broccoli che si lessano, le coste aromatizzate, il pinolo e l’uvetta che cadono su un letto di cavolo cappuccio. Chissà che non sia un principio di qualche malattia neuro degenerativa.

La morte serviva a Seneca per ricordarsi di vivere meglio. Ci provo anche io. Ma questo meglio, esattamente cos’è?

Ieri ho passato la notte a correggere il mio primo romanzo d’amore. Sarà anche l’ultimo, vista la fatica che ho fatto. Mi succede che, quando finisco di scrivere, mi viene subito il pensiero di cosa vorrei scrivere dopo.

Ho iniziato, qualche mese fa, una cosa sulla meraviglia.

La chimica dei quarantacinque anni ruota intorno alla meraviglia.

A quarantacinque anni puoi sentire il peso di una parola che hai detto un milione di volte: ancora. Sono ancora vivo. Sono ancora carina. Sono ancora felice. Ancora, a venti, a trent’anni, è un rafforzativo del passato. Sono ancora felice, da quando ero bambino o ragazzo. E’ una questione di continuità. Tu sei ancora qualcosa perchè continui ad esserlo.

A quarantacinque anni, ancora è la vittoria sul futuro. Sono ancora bella, dici guardando allo specchio la tua pelle, che non ha più vent’anni, ma nemmeno trenta, e nemmeno quaranta.

Io ad esempio ho ancora i capelli. Ancora, per oggi.

Ancora, a quarantacinque anni, è pura resistenza.

Non esiste nessuna continuità con i tuoi venti, con i tuoi trenta. Il passato è uno zaino, da cui a volte tiri fuori questioni spinose, o infili di fretta pesanti periodi. E il futuro, cazzo ragazzi il futuro, è una giornata di primavera: può esserci il sole e poi piovere. Ancora, a quarantacinque, è una scommessa, una sfida.

Confesso che invecchiare non mi spaventa. Dico “oplà” quando mi siedo in macchina ormai da un paio d’anni, guardo i culi delle ragazze di vent’anni di meno, e provo un misterioso fascino per le complessità dei cantieri. Sono ancora qui. Cambiano alcune cose, ma sono ancora qui.

Ho fatto un percorso molto difficile, negli ultimi tre anni. Ho un diario, dove scrivo cose che non scriverei qui o che non direi in giro, che ha tenuto traccia di tutto quello che ho dovuto leggere, ascoltare, imparare, studiare a fondo. Ma dato che non sono qui a fare lezioni, vi basti sapere che mi sono messo a cercare di capire la bellezza.

Poeti, filosofi greci, pittori, attrici, neuropsichiatri, dottori, guru e santoni, monaci e professori universitari. Ho assorbito tutto.

Ho la sensazione mi manchi ancora moltissimo da imparare. Ma due cose le posso dire con certezza.

Siamo quello che sogniamo. E la bellezza, la grazia, ci salverà davvero.

Così, a quarantacinque anni vorrei avere intorno le persone che mi raccontano i loro sogni. E vorrei bellezza.

Tutti vogliamo assomigliare a qualcosa. E’ un istinto.

La chimica dei quarantacinque anni, gira tutta intorno a quanta voglia hai di cercare per davvero di assomigliare a qualcosa che, quando muori, ti lasci con un sorriso.

Non serve aggiungere altro.

Gli assomiglianti. Pensateci.

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