Camere vuote

Rassegnati, aveva detto, guardandosi nello specchio, mentre si rimetteva le mutandine. Cioè, non aveva esattamente parlato, aveva sospirato.

Un sospiro lungo, di accettazione, come quelli che faceva sua mamma, in casa, quando suo padre dava i numeri. Si stringeva il grembiule sulla pancia, e poi buttava fuori l’aria, come a volersi liberare da un nodo. Lo stesso identico sospiro.

Nuda, dentro lo specchio, vedeva un corpo che ancora le piaceva, ma con i segni del tempo. Si dice così, i segni del tempo. L’invecchiare lo vogliamo raccontare così delicato, ma quella pelle sulla pancia, quei fianchi, e anche quel neo rosso, sotto il seno sinistro, non erano segni del tempo, era l’invecchiare, inesorabile. Era il suo promemoria del tempo, che passando, lascia sul corpo dei ricordi, che allontanano la bellezza, per come la vogliamo immaginare.

E l’amore? Stava chiudendo la borsetta, con i trucchi, cercando il telefono, e guardando velocemente nella camera, per assicurarsi di non aver lasciato niente.

L’amore è questo qui, vero? Queste camere, che lasciamo di corsa, dopo qualche ora, cercando con attenzione di non dimenticare niente, perchè non sia mai che i proprietari ci scrivano o ci chiamino. Siamo qui di nascosto, e di nascosto andiamo via.

Lui andava sempre via primo. Si rivestiva, e poi c’era quel bacio lungo, perduto, che sembrava sempre un bacio d’addio. Come le ombre in camera, bisogna stare attenti, alle sfumature. Un bacio può sembrare una promessa, un’addio, una parentesi.

Basta non chiedere, aveva imparato.

Non si chiede mai.

Così non si rischia di ascoltare cose che non si vorrebbero mai sentire.

Prima di andare, anche lui si guardava intorno, nervosamente. Poi usciva, con un ciao detto sottovoce.

E lei si rivestiva, con calma. Non si lavava più. Nessuno sarebbe andato a cercare profumi sconosciuti, tra le sue gambe o sul suo seno. Nessun rischio. Stava seduta sul letto, guardava il telefono, a volte prendeva una birra dal frigobar, quando c’era il frigobar. Poi si rivestiva, cercava le mutandine nella borsetta, le rimetteva, guardava la camera, e usciva.

Si era tolta le mutandine quattro anni prima, al loro secondo incontro, in un bar, prima di vederlo.

Poi aveva preso la sua mano, nel bar pieno di gente, e l’aveva messa lì.

Era il suo modo dire, sono tua.

Così era rimasto, per anni. Avevano superato l’agosto, di ferie in famiglia, il Natale terribile, di solitudine.

Avevano superato tre compleanni da una parte e quattro dall’altra.

Lui, quest’anno, le aveva regalato un anello. Sapeva di sfida. L’aveva indossato subito, e tenuto. La sfida le piaceva. Solo che nessuno, a casa sua, aveva raccolto la sfida. E così aveva sospirato, guardando il frigorifero e l’anello sulla mano.

Così era andata.

E quindi l’amore è farsi trovare, cercarsi, e sapere di esser gli unici a volersi?

Questo se lo chiedeva, la risposta non la spaventava.

Chiudendo la porta della stanza aveva pensato a chi sarebbe arrivato il giorno dopo.

Un altra storia d’amore nascosta? O forse una giovane coppia. O forse una donna sola, per lavoro.

Ma l’amore è necessario?

Si.

Aveva risposto ad alta voce, in ascensore, davanti allo specchio.

Si, lo voglio.

Come fossero in chiesa.

E così era tornata a casa.

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