5 cose da dire a una donna

Monologo messo in scena per la prima volta a Genova, nel 1974. Teatro pieno.

[La sala è piena, le luci soffuse, la scena si apre su un uomo, seduto al centro del palco]

La prima [da dire, eventualmente, a donne nude, ma senza averlo fatto apposta]: com’è profondo il mare, lo sai che è l’unico posto dove non avrei paura di perdermi, fossi nudo con te. Quel nudo lì, che tu stai a guardarmi, io muovo le mani, tu respiri veloce, io sorrido e tu mi dici: ma che cazzo sorridi? Ci pensavo oggi. Non a noi nudi. Alla profondità del Bosforo, perchè la discussione nasceva dal tunnel della metropolitana che porta dall’Europa all’Asia. Roba che un Alessandro Magno qualsiasi avrebbe pagato tutto l’oro del mondo, invece usavano le galee, ci morivano in quel pezzo di mare, ci facevano le guerre, si ammazzavano come bestie, in quel dramma che erano le guerre. Ancora lo sono. Nel mare, con te non farei la guerra, ecco questo volevo dirti. E il Bosforo, davanti a Istanbul è centodieci metri. Che sono tantissimi. Poi è arrivato l’uomo con le sue idee, e un tunnel ha risolto tutte le cose. Non è vero, ce ne sono altre da risolvere, ma questa qui, per buona pace di Alessandro Magno, è risolta.

La seconda [da dire appena dopo aver rubato un bacio, ma non prima delle ventuno e trenta], che mi sono dimenticato di dirti cento anni fa, quando ti ho vista per la prima volta: per me sei bella come l’Ovest. Si, ok, non è un gran complimento, ma ho anche trovato l’equazione che disegna la curva del tuo seno, sdraiata. No, in piedi non è la stessa cosa, è un fattoriale diverso, una curva diversa, e poi che ne so io di come sono le tue tette quando sei in piedi. Comunque, l’Ovest è il posto più bello del mondo, perchè è lì che tramonta il sole. No no, smettila con questa cosa che il tramonto assomiglia alla morte. Anzi. E poi a Ovest, terra di conquista, sono arrivati i cowboys, le diligenze, i sacerdoti sconfessati mandati in missione. Gente che non aveva paura di morire e che cercava l’oro. Io non ho una pistola, l’avessi comunque non sparerei, è un gesto così definitivo e poco poetico. E non ho nemmeno poca paura di morire, anzi ci sono delle notti che mi alzo di scatto e penso: cazzo e se morissi. Ma è a Ovest che guardo se cerco qualcosa.

La terza [da sussurrare, nel migliore dei casi, a colazione, ma senza mangiare cereali che gonfiano]. Fai attenzione, come quando giri in centro di notte. E’ facile fare a pezzi la ragione con le parole. L’altro giorno ti guardavo, nuda, cercare i vestiti. E pensavo che assomigli a una poesia. Ma io, devi sapere, sono appassionato di vino e vita, e non di poesia. Quindi non so quanto sia attendibile, affidabile, ragionevole, questa roba qui. Ma assomigliavi a una poesia. No, non d’amore. Una poesia. Non chieder troppe cose.

[qui l’attore fa una pausa, prende dell’acqua, siamo pur sempre a tre punti, e lo spettacolo si chiama cinque cose, quindi sappiamo tutti che sta per finire. E’ anche ora di andare a letto, lo senti dal teatro stanco, gente che si muove sulle sedie, a qualcuno scappa la pipì, e sono già suonati due cellulari. Chissà chi è lo stronzo che si dimentica sempre il cellulare acceso, pensa l’attore. Poi riprende]

La quarta [da dire con i capelli in mano]: quando ho in mano i tuoi capelli non ti guardo mai. Perchè mi fa impressione, le mani piene, quanti capelli, e poi sbircio il tuo sorriso, e li tiro un po’. Son cose che se le racconti, poi passi per pazzo. Ti alzi, quasi di scatto, e cerchi qualcosa. Ma ti devo dire questa cosa: a tenere i tuoi capelli capisco di esser perduto.

La quinta [due della prima fila si sono alzati, un peccato, ma cazzi loro]: nudo nel letto penso che dovrei trovarti una canzone. Dovresti essere una canzone, per potermi entrare in testa a sorpresa, mentre distratto leggo il giornale, oppure compro i broccoli, scegliendo accuratamente quelli più gonfi. Dai, è una cosa che fanno tutti. Si dedicano una canzone. Dedichiamoci una canzone. Ci devo pensare. La penombra della stanza fa il contorno delle mie gambe. Non capisco mai niente del mio corpo. Non so, ad esempio, se le mie gambe siano belle. Ma non mi interessa nemmeno. Mi piacerebbe sapere di che colore è il tuo pelo, sarà nero come i capelli, corvino, denso. E non c’è da dire niente, ma resto qui, con l’occhio cerco le mutande, che dormire nudo mi da fastidio. Mi viene in mente il respiro, forte [l’attore respira nel microfono], quello che sale, insieme alle mie mani. E poi ti blocco un polso, con la mano, e tu mi guardi. Lì, proprio lì, capisco che tu meriti una canzone, la canzone merita un posto, le mani finiranno di sperare, ma il posto resterà. Io sono ottimista. Ma la canzone non mi viene.

La troverò.

[qui l’attore si alza. Nessuno in sala si era accorto fosse nudo, dalla vita in giù. Si mette a posto la camicia, guarda fisso il soffitto e sospira. Il pube, molle, il corpo teso. Le signore delle prime file mormorano, un ragazzo ride, due ragazze applaudono. Dalle quinte esce una ragazza. Si mette di fianco all’attore, lo prende per mano. Si inchinano alla platea. Dalla terza fila si alza un signore sui cinquanta e urla: ma che cazzo di roba è questa? Ho pagato per del teatro! La platea mormora. La ragazza lo guarda e ride. Una risata sonora, piena e poi dice: ma tu che cazzo ne vuoi capire di canzoni? Luci spente sulla scena.]

Lascia un commento